mercoledì 24 ottobre 2012

Il diritto del bambino al rispetto


Il diritto del bambino al rispetto

Questa frase, che è il titolo di un bellissimo e straziante libro di Janusz Korczak ( morto con i suoi bambini ad opera dei nazisti ) mi risuona nella mente, al termine della riunione di classe: 3° B, dove studia mio figlio Lupo.
Riunione povera e deludente.
Le due maestre che, a fronte della loro stessa affermazione  “E’ normale che i bambini siano vivaci” mettono “note” e castighi come fondanti il rispetto delle regole. Ma non sono nemmeno castighi, si affrettano ad aggiungere. No, dico io, sono solo la dimostrazione che chi ne ha la responsabilità non sa coinvolgere il gruppo, non sa fare delle resistenze all'interno del gruppo un’occasione di crescita e formazione. Mirabile la punizione di tenere i bambini seduti al banco, a fare merenda. “Ma possono giocare ugualmente, certo stando seduti”. Otto ore di scuola, otto anni d’età e li privi della gioia del movimento !!
Niente pedagogia che, escludendo la colpevolizzazione, lavori sulla responsabilizzazione individuale e di gruppo. Tanta tensione perché l’allievo impari le materie e non invece impari ad imparare, costruisca, con gli altri e le maestre stesse, una comunità d’apprendimento.
La solita ideologia di controllo e giudicante, una scuola che pretende conferme invece che ricerca ed apprendimento.
D'altronde, quando sento una madre dire che la propria figlia ha piegato la forchetta in mensa e, per questo, va sgridata / punita,  dunque capisce il metodo delle maestre …
Certo, puniamo la bimba. E una volta punita. Amen.
Più facile, molto meno impegnativo che chiedersi cosa c’è in quel gesto, cosa presuppone e dove potrà portare.  Più semplice e deresponsabilizzante  castigare, invece di esplorarne, con la figlia, i contenuti: magari ci sarebbe da lavorare sull'essere assertiva della bimba, se quel gesto ha fatto per imitazione, onde già mettere i presupposti perché, da più grande, non cada nella dipendenza da “banda minorile”; magari ci sarebbe da lavorare sul senso di frustrazione che ha in casa per un’educazione che sente troppo rigida e si sfoga fuori casa, oggi è una forchetta e domani ? No, dai, una sgridata ed un castigo e via.
Alcuni anni fa, dopo una bella serata in casa con amici adulti, Lupo, nel salutarne uno, lo prese a calcetti e dispetti. Facile sgridarlo e magari punirlo “Così non si fa, sei un maleducato !” Facile ma dove ci ( me e Lupo, padre e figlio) avrebbe portato ? Da nessuna parte: una mia affermazione di autoritarismo e lui sottomesso. Stop.
Invece gli ho parlato, gli ho chiesto come stava / cosa provava nel fare del male ad un nostro amico ed è subito emersa la verità. La verità di un bimbo che soffriva nel distacco, nel vedere andar via una persona a cui voleva bene. Ecco, allora, il lavoro sul riconoscimento delle emozioni, sulla loro gestione, sulla capacità di accettare il distacco. Viviamo in una società che parla molto, moltissimo di sesso e qualcosa fa di educazione sessuale, ma poco parla e niente fa di educazione sentimentale ed emozionale. E questa mancanza si sente eccome, noi adulti la sentiamo e così i nostri figli. Ora, quando c’è un distacco da amici grandi o piccoli, Lupo non ha più reazioni violente, gli resta però un’espressione triste che non manca mai di comunicarmi e su quello stiamo lavorando: Sull’accettazione del distacco come unica opportunità per avere nuovi incontri. Lavoriamo perché un  domani lui  saprà prendere e lasciare consapevolmente, nelle relazioni di coppia come nelle scelte lavorative; saprà affrontare i cambiamenti e le sfide; saprà accettare i distacchi di ogni tipo, anche quelli luttuosi.
Difficile lavorare, educare, così quando i bambini sono più d’uno, sono in classe ? Assolutamente no. Da decenni, pedagogisti ed educatori operano non solo in campo teorico, ma anche affiancando maestre delle elementari e professori delle medie nel loro lavoro quotidiano in classe, costruendo pedagogia e didattica a misura dei bambini e del loro apprendimento.
Lo fanno, eccome se lo fanno, un po’ ovunque in Italia, in scuole di ogni ordine e grado: alla scuola primaria "F.lli Cairoli" di Casteggio (Pavia) come  al CFPP di Lecco. Ne scrivono, eccome, autori e pedagogisti passati e presenti: Danilo Dolci e Daniele Novara.
Certo, per farlo, occorrono adulti, a scuola come in famiglia, che siano davvero tali, siano loro per primi su un percorso di individuazione e crescita consapevole
Certo, occorrono maestre che vogliano sempre mettersi in discussione ed imparare; adulti che vogliano capire di sé e di come interagiscono; genitori attenti ai figli ed ai segnali che questi mandano loro.
Altrimenti, da adulti  di età anagrafica ma privi dell’adultità che è responsabilità ed autonomia, faremo solo danni, ah , però avremo per un po’ di anni figli e studenti apparentemente educati, rispettosi e che conoscono le materie scolastiche. Se questo è educare e crescere !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

“ Ancora oggi, il discorso che molti fanno, quando cerco di spiegare che è fondamentale rispettare i tempi e le modalità di apprendimento dei bambini, è ‘Ma quando andranno alle medie, quando andranno alle superiori ?” A me viene da rispondere ‘Ma chi si chiede quali sono i bisogni dei bambini e delle bambine e più avanti dei ragazzi e delle ragazze?’ ”.
(R. Lovattini, maestro e componente la Segreteria nazionale del Movimento di Cooperazione Educativa, in “Conflitti” n°2  anno 2011)

Fotografie scattate al parco Forlanini, Milano.





mercoledì 17 ottobre 2012

Il katana è come una bella donna


Il katana è come una bella donna

Lei è bellissima, i lunghi capelli neri le scivolano ondulati sulla schiena, occhi profondi, tormentati, occhi di chi ha vissuto, intensamente.
Nel cuore aveva un volo di gabbiani
ma un corpo di chi ha detto troppi sì.” Cantava il poeta 
L’incedere elegante e impreziosito da una felinità scattante.
Lei è bellissima.
Il katana, acciaio affilato e denso; kissaki, la punta, urla la sua voglia affamata di squarciare.
L’impugnatura è solida ed insieme rassicurante nel suo esserci.
L’hamon disegna sulla lama onde e chiaroscuri avvolgenti che ti invitano alla porta del mistero. Eppure dietro  tutto questo, sotto tutta questa leggerezza … la forgiatura, la tempra, sanno di lavoro intenso e di partecipazione emotiva, di fatica nel maneggiare e piegare e dare forma. Come il suo carattere, carattere di donna assertiva che, insieme, sa sognare, sa incantarsi, sa stupirsi di fronte ad un sorriso e ad un colore. Sa ridere senza un perché.
Il katana è come una bella, bellissima donna. La corteggi , le dedichi del tempo, tempo di attenzioni, di premure, di accoglienza. Le stai vicino, mai assillandola, ma sempre presente quando lei lo vuole, anzi, anticipando di un attimo prezioso la sua richiesta. Lei sa che tu ci sei, che su di te può “contare”.

I look at the world and I notice it’s turning
While my guitar gently weeps
With every mistake we must surely be learning
Still my guitar gently weeps

Non c’è errore, non c’è sbavatura che tenga. Tu e lei insieme. Sempre.
Che la stuoia cada al suolo, tranciata di netto: schizzo e lampo di morte improvvisa.
Che il trancio di stuoia si afflosci e penzoli, macabra offerta di goffaggine e lento strazio.
Che il trancio strappi dal corpo stuoioso, moncherino sbrindellato ed appassito.
Insieme, tu e lei. Sempre

Il katana è come una bella donna. Non puoi possederla, non puoi pretendere di conoscerla a fondo e per sempre. Lei, con te, è in grado di stupirti ad ogni momento.

Ecco, gli stupidi muscolari tranciatori di stuoie e pali; ecco gli agonisti che gareggiano a chi lo taglia più grosso.
Ecco, gli impotenti collezionisti che ne ammirano la bellezza senza mai sfiorarla, senza mai cavalcarla.
Nessuno di loro potrà mai amarla ed esserne amato. Nessuno di loro ne conoscerà le pulsioni profonde, ne toccherà il cuore rosso o i seni rotondi


Il katana è come una bella donna. La vita e tu, sai che non sarà “per sempre”. Ma, finché lo sarà, sarà tremendamente bello ed intenso. Insieme.

“Non mi sentirò limitata
a guardarti mentre ti fai del male
non posso farci niente
è più di quello che devo dare”.


“Beautiful Tango, take me by the hand
Beautiful Tango, until you make me dance
How sweet it can be if you make me dance?
How long will it last, baby if we dance?”


 Volti, incontri, a volte uno sguardo solo, altre giorni e mesi ed anni insieme. Alcuni, riaffiorano, altri restano immersi. Alcuni, li ricordo così. 
Ora, adesso, impugno "Lama Danzante" e con lei condivido i passi del mio vivere. Ma questo è il mio presente. Ora c'è lei con me ed un'altra donna accanto.


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giovedì 11 ottobre 2012

Kung fu ? No, grazie !!


“Le uniche battaglie perse sono quelle che non si combattono”
(Ernesto Che Guevara)

by E_Mann
La parola chiave è “kung fu”, tradotto generalmente come “duro lavoro”. Da alcuni decenni, chi sia addentro al mondo delle Arti Marziali sa che le stesse, in lingua cinese, è più corretto chiamarle wushu e che il termine kung fu ( attribuito alle AM  probabilmente ad opera di uno dei primi preti cattolici giunti in Cina), come tale, non solo non c’azzecca ma è riferibile ad ogni abilità raggiunta con “duro lavoro”, che si tratti di pesca o di cucito, di affilare un coltello o cucinare un pollo.
Perché, per me, non c’azzecca ?
Perché, citando l’americano Edward W. Deming (il fondatore del movimento della qualità, particolarmente apprezzato nel mondo industriale giapponese e poi, solo al termine della sua carriera, anche in patria) “Il duro lavoro non è qualità”. ( citato in “L’arte di non lamentarsi mai” di L. Ballabio)
Eh ?
Sì, perché la qualità, come sostengono ahimè ancora troppo pochi pensatori nel mondo industriale in cui questa frase è nata, è invece flessibilità, levità, mutamento continuo. E’ trasformazione della fatica nel piacere di lavorare da soli e in gruppo, per il gruppo. E’ quel piacere estetico, di contro al dovere etico, di cui scrive Rossella Martelloni: “Mentre l’etica è dipendenza, attaccamento al passato, l’estetica è libertà, senso della collettività, creatività, proiezione verso il futuro, possibilità di vero cambiamento” (“Le forme del cambiamento” in “Psicologia e Lavoro”  aprile – giugno 2004).
E’ quel piacere di creare un clima di condivisione tra noi e chi lavora con noi, e chi ( in campo industriale) è il cliente, ovvero il fruitore di quanto lavorato.
“Qualità” indica un processo di formazione continua, in cui, restando nel nostro terreno, il Sensei, “colui che è nato prima”, non il Maestro (colui che ha la padronanza, la maestria di un “qualcosa”), propone e si confronta con gli allievi, mescolando competenze ed incompetenze di ognuno; scarta ogni dogma ed ogni modello da imitare per costruire il personale percorso marziale, il so – stare nel conflitto, di ognuno. Per farlo, agisce sia sulle potenzialità inconsce di ognuno, su quell’area istintuale che sonnecchia in ognuno di noi “uomo civilizzato”, sia su quelle abilità trasversali in grado di creare un clima emozionale aperto e consapevole.
Una formazione continua che, per essere veramente tale, si avvale di maieutica, l’arte di porre domande. E’ la domanda e non la riposta ad originare la conoscenza.
La domanda maieutica è dialogica, ovvero richiede ad entrambi di essere soggetti attivi, come tale anche ci tempra nella capacità di relazionarci conflittualmente con l’altro.
Essa è lo strumento fondamentale per ogni apprendimento, apprendimento che sia basato sulle risorse del praticante e non sull’adesione omofona a contenuti, a modelli, già predisposti.
In una società fondata sempre più sull’accudimento, sono in pochi a riconoscere l’ostacolo come una risorsa: ogni domanda, che “ostacola” il nomale flusso delle convinzioni, è una opposizione che, suscitando emozioni, “sparigliando” il gioco, nutre l’apprendimento profondo, consapevole.
La domanda maieutica, nel nostro praticare marziale, sono sia i koan zen fisicoemotivi che io propongo, quanto le domande / resistenze, anche quelle più stralunate, che pongono i praticanti.
Tutto quanto sopra: la qualità intesa come formazione permanente; il trarre dalla informe palude di pulsioni ed emozioni il saper essere ed il saper agire; l’arte di domandare come costruzione reciproca di un sapere vissuto e personale; contraddicono l’aggettivo “duro”:
-       che resiste all'azione deformante, erosiva, intrusiva di forze esterne; per  estensione: rigido, faticoso, difficile da smuovere. Anche: che non prova o non dimostra emozioni e sentimenti, insensibile. Dunque, poco ricettivo, quanto  non agevole, irto di difficoltà.

Allora, in precario ma esaltante equilibrio tra

il “no pain, no gain”; la sofferenza e il senso di colpa tipico del cattolicesimo più oscuro; lo sforzo e la fatica come unica legittima moneta per il premio finale; la durezza come sinonimo di forza, di virilità;

il lassismo di valori; la ginecocrazia come incessante erogazione di bisogni perché così l’individuo-bambino resti sempre dipendente dall’autorità; l’assenza di prove e riti di iniziazione alla vita adulta ed autodiretta; l’assenza dei “padri”, non solo i padri genitori ma il “padre”, il “maschile e paterno” sano ed autorevole che incarni ed accompagni l’avventura e la sfida quanto le regole ed i confini;

ecco, in questa “terra di mezzo” ( oh, l’antico nome attribuito alla Cina !!) allo Z.N.K.R. agiamo la pratica del lavoro di qualità, duttile, flessibile, condiviso e personale. In cerchio. Insieme ed ognuno da solo.


“Permettete che ve lo chieda sinceramente - quanti di voi, onestamente, pensando di fare qualcosa di vulnerabile o di dire qualcosa di vulnerabile, pensano, "Cielo. La vulnerabilità è debolezza. È una debolezza?"
Quanti pensano che vulnerabilità e debolezza siano sinonimi? La maggior parte di voi. Ora vi farò questa domanda: Questa settimana quanti di voi, vedendo la vulnerabilità qui sul palco, hanno pensato che si trattasse di puro coraggio? Vulnerabilità non vuol dire debolezza. Io definisco la vulnerabilità come un rischio emozionale, l'esporsi, l'incertezza. È il carburante della vita quotidiana. E sono arrivata a ritenere - questo è il mio 12° anno di ricerca - che la vulnerabilità è la misura più accurata del coraggio - essere vulnerabili, lasciare che gli altri ci vedano, essere onesti.”
(Brenè Brown)




martedì 2 ottobre 2012

Hesher è stato qui


“Si parla molto (e poco si fa!) dell’imparare ad imparare e dell’insegnare ad insegnare. Occorrerebbe incrociare i significati e parlare di imparare ad insegnare, oltre che di insegnare ad imparare. (…) Certamente è importante considerare le emozioni come energia psichica. Certamente è un segnale dare importanza alle relazioni, che sono i contenitori di energia psichica verso gli oggetti d’amore dei soggetti. Non vi può essere apprendimento senza oggetti d’amore. E questi ultimi svaniscono senza relazioni che trasportano energia dei soggetti. Né è possibile alcuna trasmissione (relazione, comunicazione, ecc.) senza soggetto. Chi impara è il soggetto e se quest’ultimo non esiste, come può imparare? Il soggetto produce energia e la convoglia verso oggetti d’amore che gli procurano benessere”.
(E. Spaltro)


Era un bel po’ che lo “filavo” questo film. Grazie a Giovanni, che mi presta il dvd e complice l’assenza da casa di Monica e Lupo, mi accoccolo sul divano e do inizio alle danze.
Danze sincopate, a tratti spezzate, pause impreviste e scene rigonfie di emozioni.
TJ è un ragazzino che ha perso la madre in un terribile incidente d’auto, ora vive a casa della nonna, acanto ad un padre assente nella sua presenza, perché incapace  di riprendersi dal lutto. TJ è abbandonato a se stesso, ossessionato dal tentativo di recuperare la macchina in cui la madre ha perso la vita.
In questo distruttivo paesaggio quotidiano, irrompe Hesher, uno sbandato e randagio rockettaro che vive senza regole, immerso nella più sincera violenza.
Sarà proprio lui, l’anarchico folle e fuori dalle righe, a  svolgere quel ruolo maieutico, formativo, che permetterà a TJ di riprendere in mano le redini della sua vita, come farà anche il padre.
Film sull’educazione e, di più, la formazione, ci ricorda ad ogni scena che sovente sono i cosiddetti maestri ( e con loro le consolidate prassi educative dominanti) l’ostacolo più pericoloso per l’apprendimento.
Ci mostra come sorpresa ed imprevedibilità consentano la messa in crisi della comprensione. Ciò che si capisce porta inevitabilmente ad un’altra comprensione, ovvero un futuro prevedibile. In formazione, camminare senza il mito di voler comprendere permette di scoprire, trovare intuizioni sorprendenti dietro ogni angolo, permette di non fissarsi in schemi e risposte preordinate, permette di  … vivere .
Hesher risponde bene alla domanda “Che cosa serve a questo organismo per crescere ?”. Domanda che non è presente (anzi, è tenuta ben alla larga) dall’educazione scolastica come da quella sociale. Queste ultime intente a costruire automi perfettamente uguali gli uni agli altri, perfettamente compatibili, anche nelle trasgressioni, con il modello socioculturale dominante,  piuttosto che accompagnare i giovani ad accrescere la propria capacità unica di costruire significati alle cose.
Hesher sovverte ogni ordine, ogni previsione e ogni cautela educativa. Mostra la fallacia del concetto di verità assoluta; che ci sia una ed una sola risposta “giusta”; distrugge il concetto di identità isolata, ovvero che “A è A” sempre e per sempre; la convinzione nella causalità semplice, singola e meccanica; le differenze fatte solo in forma di paralleli ed opposti; il concetto che il sapere è dato ed emani da un’autorità superiore, indiscutibile.
Pellicola ad alto contenuto esplosivo ( in tutti i sensi, vista la passione di Hesher per bombe e fiamme), snobbata dalla critica, più attenta a qualche sbavatura nella scenografia che al contenuto e, ma dai ?, poco gradita dal grande pubblico, quello del nozionismo scolastico, del bisogno di certezze, quello uscito da una scuola noiosa, inutile quando non altamente dannosa che ha subìto senza mai ribellarsi.
Ecco, a dire il vero, io l’avrei terminato alla penultima scena: solida ed insieme perturbante. Ho il dubbio che quanto aggiunto sia solo il tentativo di mostrare un happy end consolatorio e privo di incertezze, contraddicendo così, il “carattere” scorbutico del film stesso. Ma, forse, per il business andava bene così.
Un film che consiglio, ovviamente, a tutti i maschi che sono padri o lo diverranno ( e cosa si sono persi quegli uomini che, dando spazio al loro capriccioso “bambino interiore”, non hanno voluto figli, un po’ per pigrizia, un pò accampando scuse le più disparate, un po’ scegliendo accanto a sé o un’altra adulta d’età anagrafica ma anch’essa bambina dentro, o una donna – mamma, più anziana e magari che ha già figliato, così il ruolo di figlio lo possono  occupare loro); a tutti coloro che si occupano di educazione e, di più, di formazione.
E, ovviamente, a tutte le donne e le mamme perché aprano uno spiraglio in più sul mondo maschile.