martedì 25 agosto 2015

Spingere e tirare


Pensieri d’Agosto in un crogiuolo in cui:
Metti ordine nei tuoi pensieri, fantasie, sentimenti. Altrimenti essi ti sconvolgono, ti lacerano, ti buttano in direzioni opposte e tu rimani, senza accorgertene, privo di forza”
(in ‘Esorcismi di Gesù nel vangelo di Marco’ di G. Burani)

 

E’ la gloria della grande impresa l’illusione.
Che sono le piccole imprese quotidiane, le sconfitte come le vittorie, a reggere il timone. A dare la direzione alla nave di ogni eroe, vele gonfie dal vento, simili a enormi mammelle di una gigantessa procace, oppure smunte vele fiacche, penduli seni inerti di un’anziana viaggiatrice.
Non importa. Importante è solcare il mare aperto.
Sono le piccole imprese quotidiane, radersi la barba rendendomi presentabile allo specchio che mi dice chi sono; sorridere al gesto scorbutico e avventato di chi non sa comprendermi; aprire il cuore all’arroganza adolescenziale di un figlio mostrandogli il lato vulnerabile di me padre, perché ciò sia stralunato quanto coraggioso esempio di guerriero forte nella sua tenerezza.

E siamo io, Lupo ed Emma, la cugina coetanea, al parco faunistico Cappeller.
Concentrato di animali esotici, alcuni di cui nemmeno sospettavo l’esistenza: cane procione ? Altri conosciuti proprio qui la mia prima visita: orso gatto, vorace predatore notturno dalle movenze di velluto.
Tra curiosità di vedere, osservare ed un alone di tristezza per l’ossessiva – compulsiva traccia sul terreno che lascia l’ocelot nel suo ripetuto andare da destra a sinistra, da sinistra a destra.

 
La legge, l’etica e la morale e la giustizia. Onde di un mare sempre in movimento, inafferrabili, impossibili da fissare. Stelle incandescenti, ammasso di gas, “nane rosse” che, mentre l’idrogeno tende a ridursi, già mutano in  stelle “sub giganti”.
Forse sarebbe meglio usare articoli determinativi al plurale, che ognuno ha la sua verità, la sua legge, la sua etica e la sua morale: mille di ognuna in ogni onda che corre sul letto del mare, in ogni spuntone di pannocchia che il vento fa tremare davanti a me.
Come le buone azioni, che sono buone per alcuni e non per altri.
Mi irrita il “pensiero unico”, la verità, la certezza brandita come assoluto verbo divino, agita col presupposto che esista un solo dio, una sola divinità, che ci sia una ed unica, incontrovertibile, realtà.
Ogni momento mi stupisco dell’imbecillità di chi, chiuso nell’armatura del “pensiero unico”, predica IL bene, IL certo, senza alcun pensiero per le conseguenze, per il tessuto di relazioni che lo circonda e che ne fa mondo, ambiente. (1)
No, non sono ateo” rispondo a mio figlio Lupo “sono taoista”, come a dire lo sforzo fragile e spesso impotente di comprendere il tutto e nel tutto anche di criticare, combattere, affermare, ingaggiare assumendomi piena responsabilità di essere solo una parte di questo tutto e non LA giustizia, LA legge, LA morale, LA verità; non quel “pensiero unico” ottuso e prepotente che ha la pretesa insana di essere IL Giusto, di essere IL TUTTO.
Mi pare fosse Bertold Brecht a scrivere che “Quando l’ingiustizia si fa legge, la resistenza è un dovere”.

E scorro Tai Chi Chuan, la tenerezza offerta al tramonto rossastro del sole. Scorro mani e respiro, giravolte e passi prudentemente  feroci.
Danza d’amore e di morte. Danza di parte e non del tutto.

1. Azzardo a sostenere che tra i fondamenti del “pensiero unico ci siano i tratti narcisistici.
Narciso, il protagonista della società d’oggi, è ipnotizzato dalla propria immagine. (…) La fissazione narcisistica fa sparire  dall’orizzonte di chi ne è catturato la realtà delle altre persone e l’intera realtà materiale; rimangono solo le immagini di riferimento, la propria e quelle degli idoli del collettivo, sottratte a ogni verifica materiale e a ogni autentica relazione fisica e affettiva. In questo vuoto i sensi, intermediari del rapporto tra il soggetto e il resto del mondo, progressivamente si atrofizzano e perdono forza, espressione e vitalità. Anche la loro immagine, nei sogni, gradualmente svanisce, diventa segno, cicatrice, ricordo”.
(C. Risé)

 
 Se ti colpiscono, meritavi di essere colpito”, scrive Joe Abercrombie in “Mezzo Mondo”.
Sussurri di vento, appena percettibile, in ascolto di un silenzio assordante che origina da un dove lontano, dieci anni e più lontano, eppure lo ricordo ancora distintamente. Sono senza parole e mi sento urlare. Amici, poi intimi, saranno gli atti e le cose e le danze traballanti di gambe malferme che reggono un cuore dal ritmo sempre più stanco, a mostrarci estranei.
Nessuna vergogna, solo pudore e tanto, infinito dolore.
Nessuno potrà mai sostenere che il campo di battaglia è giusto. Tanto meno io, che di formazione, esperienza, passione e insieme disciplina, faccio struttura portante del mio vivere quotidiano. Sfrontatamente però sostengo che sì, puoi perdere con la vulnerabilità, l’inquietudine, dunque anche quando ti affidi a fragilità e debolezza. Ma preferisco di gran lunga la violenza terribile di un’irrequietezza che si fa tempesta cieca ad ogni raziocinio, di una tristezza che esplode in mille pugnali affilati e sanguinari lanciati a vorticare tutt’intorno che la maschera greve dell’autoritarismo arcaico o lo  sfuggente camminare rasente i muri dell’apatia che si fa distacco o, peggio, sottomissione.

L’acciaio del katana è tanto sottile quanto letale, mortale.
Da qualche parte, ora non ricordo, ho letto che “Chi pronuncia la sentenza, dovrebbe essere anche colui che cala la spada”. Ma non sempre è così semplice.

Poi, nei giorni a seguire, il dolore e le fatiche dei gesti a precedere le parole necessarie. Quelle che ricongiungono, che ricuciono lacerazioni e ferite slabbrate. Dentro e fuori. Nel terreno di ognuno e dei campi coltivati insieme.
Il padre è un fornitore di direzioni, perché ne è stato un appassionato cercatore e continua a esserlo.
Per questo, e diversamente dai tanti gadget dei discorsi psicologici, il padre incrocia a più riprese, non solo la luce, ma anche l’oscurità, non solo la salute, ma anche la malattia. Perché un padre è vero, e non un gadget da vetrina psy, e perché nell’anima dell’uomo c’è la luce, ma anche la tenebra.”. (C. Risé)

 
 Accendere il desiderio” (R. Massa).
Quello mai sopito di volare, che, probabilmente, è dentro ogni uomo sulla terra. Quello di librarsi in cielo sospeso e affidato ai voleri del vento. Insieme fragile e potente.

Il minuscolo seggiolino a volte mi fa sobbalzare, inquieto come un’animale folle, instabile come sabbia che ti scivoli sotto i piedi. Altre pare sostenermi tranquillo e solido nella sua pienezza, permettendomi di scorrere lieve tra le pareti della montagna, di innalzarmi sui boschi come se la volta del cielo non finisse mai.
Sono i miei quarantacinque minuti di volo in parapendio: sorprendente regalo di Monica e Lupo che hanno afferrato .. “al volo” un paio di mie esclamazioni quando vidi volare le grandi ali di questi aquiloni un paio di mesi fa. Afferrate “al volo” allora e tramutate nella sorpresa di un regalo, oggi Martedì 4 Agosto.
Volo, sono unico nel cielo, rassicurato dalla presenza vigile di Roberto, l’istruttore, a condurre le ali dell’aquilone.

C’è sempre una via d’uscita, anche nei momenti di gran confusione, dove i conflitti si fanno più aspri, dove non sai mai cosa è bene e cosa no.
C’è sempre la facoltà, il dovere ?, di mettere la nostra mano dentro il corso del destino.
Lo sento sulla pelle e nel cuore, mentre il vento mi sfida la faccia, mentre so, sento, che sono solo un piccolo uomo su un seggiolino minuscolo dentro uno spazio infinito.
Me ne vado a zonzo in cielo, seduto su un seggiolino e sotto le ali di un aquilone, vagando tra luci azzurre e macchie lontane di verde. So che se il tempo davvero rappresenta qualcosa, ho il dovere e il piacere di cavalcare il vento nei miei giorni quotidiani. Se non  voglio precipitare al suolo.
I quarantacinque minuti finiscono. Adrenalina, respiro, le gambe rese malferme dall’inattività. I volti sorridenti di chi mi aspetta a terra.

 Nero acciaio. Nasce a Tualatin, nel cuore dell’Oregon, mostra oltre 15 cm. di lama. Strumento di penetrazione e morte. Impugnatura anatomica, acciaio brunito CPM 3V, a confondersi con le mani scure della notte, forma sinuosa, la cui eleganza solletica i più bassi e brutali istinti predatori.
Ma sono io, Tiziano, ad impugnare la possibile morte ambita da questo splendido Zero Tolerance, coltello tattico da combattimento.

Come a dire la stupidità, la superficialità e forse … altro, di intellettuali e mass media che stigmatizzano pesantemente la presenza di armi (da fuoco, da taglio) in occasione di stragi di massa o delitti familiari e fatti di cronaca nera in genere, come se queste ultime fossero dotate di vita propria, soprassedendo sulle deficienze,, quando non le devastazioni, psichiche ed emotive, che spingono la mano umana ad armarsi e ad uccidere.
Dettagli elargiti a volontà sul tipo di arma: il fucile a pompa calibro 12, la semiautomatica calibro 38, il machete dalla lama di oltre 40 cm, il coltello da guerra, la pistola mitragliatrice MAC – 10.
Ma poco o niente a scandagliare l’animo disturbato e ferito dei protagonisti, gli umani. Nessuno che cerchi di capire da dove nascano quelle cariche represse di odio e sofferenza mentale, di complessi persecutori e violenze paranoiche e come si nutrano di squilibri e traumi che psicoanalisi e neuropsichiatria ci dicono sorti, spesso, già durante gravidanza e periodo perinatale, poi nutriti di distorti legami di dipendenza dalla madre, ombra nefasta a soffocare, avvelenare, la crescita del fanciullo; ci dicono dell’assenza di un padre, di una figura genitoriale maschia ed adulta che indichi all’adolescente le strade per entrare nel mondo , o all’esatto ed altrettanto devastante opposto, la presenza minacciosa di un padre prepotente e violento.
Un ragazzo, un adolescente così ferito e violato è già a rischio per sé e per gli altri, che adulto equilibrato e consapevole potrà mai essere ?
Personalmente trovo stomachevoli, poi, le esternazioni del presidente USA Obama in occasione delle varie stragi che affliggono questa nazione.
“Stomachevoli” perché in esse, nel loro colpire genericamente le armi, vedo sia la logica strumentale del duello politico con il partito repubblicano, da sempre vicino alle lobby delle armi; sia la precisa volontà di non affrontare la disgregazione familiare e poi sociale che caratterizza gli USA e la loro malsana società del profitto a tutti i costi e dell’individualismo sfrenato.

Guardo mio figlio Lupo, seduto davanti a me. Siamo alla pasticceria “Lion d’Oro” per una colazione al maschile: le donne del gruppo, Monica, Susy ed Anna non apprezzano questo locale dal sapore vintage.
Poi a libri, nell’antico palazzo che ospita la libreria Roberti e poi ancora a girar tra gli scaffali del negozio di dischi per il suo primo acquisto di un cd musicale.
Nel mezzo, una visita alla coltelleria del centro, che magari mi regalo un neck knife, dopo aver con lui scambiato un paio di pareri sulle lucide ed affascinanti lame esposte in vetrina.
Torniamo a casa, le mie orecchie straziate dalla voce di tal Chiara espulsa a tutto volume dallo stereo dell’auto e Lupo ad assecondarne la voce: va bé, sono i suoi gusti !!
Come sono io lo stesso che stasera impugnerà nuovamente la morte nera del mio coltello, della mia arma.

E’ l’arma, qualunque essa sia, il problema o la mano che la impugna ?

 I paesini qui attorno sono tutti belli, mostrano mura che sanno di un passato guerriero, merli e torri e feritoie. Strade di ciottoli e case spesse che paiono occultare esistenze gonfie di silenzi e mistero, di discrezione e nascondimento.
Ascolto una tremula scia di silenzio opaco a serpeggiare tra i rumori della strada. Forse è davvero silenzio, quelle ombre lunghe e gigantesche che il sole sparge sui muri antichi, o forse sono voci sottili, parole prigioniere che si dibattono tremanti mentre il varco aperto sul mondo si va chiudendo. E resta, tra auto in sosta, turisti chiassosi nei loro vestiti scomposti, musichette sceme che volano fuori dalle finestre, solo questo mondo post moderno e sguaiato.
Ma nulla mi impedisce  di incantarmi davanti a un portone alla cui guardia montano due fieri animali, agli affreschi di Lorenzo Luzzo, il “Morto da Feltre”, e Marco da Mel che campeggiano, con altri, sulle facciate dei muri del centro, ai palazzi cinquecenteschi che ricordano lo splendore di Feltre.
A seguire, la gita in quel di Pedavena, a mangiare e bere tra i tavolacci dello storico birrificio.
E le montagne alte, dove ogni malga vende formaggi, questi sì che sanno di latte e formaggio, con buona pace dei sapori plasticoidi in stile supermarket della città; le distese dei boschi che si aprono su prati tranquilli; lo scorrere  lento e deciso del fiume Brenta.

Vacanze di riposo e riflessione. Non solitarie, non quel ritiro dal sapore autistico, nel suo mutismo ripiegato su se stesso, come a me piace, ma comunque vacanze piacevoli, dense di emozioni e significati. Capaci di farmi sostare a riflettere. Un anno frenetico, ininterrotto, a volte vissuto come pesante masso di pietra, calcinato dal sole e scheggiato dagli elementi disordinati del caos quotidiano, trova qui, nelle campagne bassanesi, il senso di un dialogo infinito.
Corrente carsica che finalmente vede la luce, la superficie. Permesso alla melanconia di esporsi, di amoreggiare con il silenzio interiore; alla gioia di vivere e morire in un attimo soltanto, senza le catene grossolane del tempo scandito da impegni e orologio; alla riservatezza che si fa forte delle parole di Etty Hillesum, scritte prima di sparire nel campo di concentramento di Auschwitz: “In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono ad esprimere nulla”.
Poi, certamente, con le umbratili emozioni che mi sono proprie, ci sono anche le gustose birre artigianali ed i giochi aggressivi con Kali, il nostro piccolo Boston Terrier; il pub in riva al Brenta, vista sul Ponte Vecchio e gli abbracci teneri di Lupo; la calda vicinanza d’amore di Monica e la mia pratica marziale divisa tra la terrazza che dà sui campi e il fazzoletto di prato tra le case basse; il sorriso aperto di Susy ed i sfavillanti negozi del centro; le risate allegre e le chiacchiere lievi, il concerto di Mario Biondi, le gags con il simpaticissimo Alberto, la camminata su al rifugio Granezza, l’eleganza giovane di Anna e mille altre cose ancora.
Le mie vacanze, insomma.





























Emozioni di notte


Cena sociale Z.N.K.R.
23 Luglio. Agriturismo “Il Bivacco”

 

La tavolata, comunque lunga.

Lo so, me ne rendo conto che con il tempo nessuno può barare, nessuna “Bella Addormentata” ed intorno, tutti immobili, come se le stagioni, gli anni potessero fissarsi in una fotografia che tuttalpiù sbiadisce.

Così mi emoziono a guardare  un bimbetto di sei anni, davanti a me, la barba a incorniciargli il viso e la potente motocicletta lasciata sul cavalletto. E ci sono le striature di grigio sulla barba di Giuseppe approdato alla Scuola appena conclusa l’esperienza militare tra i parà; ci sono i vent’anni di vita vissuta e trascorsa dal nostro primo incontro, nel sorriso di ombre e chiaroscuri di Valerio.

Così mi emoziono, sensazione lieve ed appena percettibile tanto che il cuore fatica a coglierla, per quelli che sono nella Scuola da un pugno di anni, quelli che la Scuola hanno lasciato e, con loro, le compagne ed i compagni degli uni e degli altri che hanno voluto esserci a festeggiare insieme. Questa sera, tutti insieme.
Sono loro a togliermi il respiro, in questa tavolata comunque lunga.
Mi guardo  parlare, mi guardo scartare i loro regali, generosi e d’affetto sincero. La mia mano sul petto, a sfiorare l’immancabile acciaio appeso al collo, a sentire che gli anni, i decenni, sono passati ed io sono ancora lo stesso.
Non nel corpo, infiacchito dagli anni, non nel cuore fattosi più largo tra ferite di battaglie, strappi di pianto ed incontri dal sapore del miele denso.
Ma lo stesso nell’entusiasmo di un bicchiere di vino alzato a brindare per un altro anno, e quanti sono ormai !!, di pugni e calci e fendenti di spada e sudate in Dojo e nei boschi.
Ancora avanti, ancora, in un modo o nell’altro, insieme, allievi ed amici carissimi.