venerdì 25 gennaio 2019

Gli uccelli




Serata d’inverno, uno spuntino succulento ed eccoci, io e Lupo, comodamente seduti al Teatro Menotti.
Ah, grazie Monica per averci suggerito questa opportunità!!
Infatti, con Lupo condivido la passione per il teatro, questa forma d’arte che resiste nei secoli, nei millenni, ai cambiamenti, alle innovazioni tecnologiche e che tiene splendidamente testa a tutte le nuove forme di spettacolo che le innovazioni tecnologiche hanno suscitato.

Quale miglior omaggio alla tradizione del teatro che assistere a

Gli uccelli

di Aristofane

Opera datata quattro secoli prima di Cristo ma che non perde, e sono trascorsi quasi duemilacinquecento anni, alcunché della sua lucida utopia e della sua capacità di divertire.
La trama è semplice. Evelpide (“lo speranzoso”) e Pistetero (“colui che persuade”), due cittadini ateniesi sfiniti dalle costrizioni della vita cittadina, si incamminano alla ricerca di un luogo dove la vita sia semplice e priva delle ingiustizie e delle storture di cui soffre Atene.
Una serie di avvenimenti li porta nel mondo degli uccelli e con loro fondano tra le nuvole una città libera e indipendente. Accolti da Upupa, il mitico Tereo, che per i suoi crimini era stato tramutato dagli dei in uccello, si accordano con lui e fondano Nubicuculia, convincendo tutte le razze di uccelli ad inseguire il sogno di un mondo per l'uguaglianza, senza leggi e senza denaro, contro l'avidità e la corruzione degli uomini e degli dei.
Non vi dico oltre.

La commedia tocca diversi temi, sempre attuali, ponendo domande a cui ogni spettatore darà la sua risposta, semplicemente in veste intellettuale o tenendo anche conto della propria esperienza personale.
L’utopia  di un mondo diverso, migliore, è un mare da solcare a cielo aperto lasciandolo però al sogno perché irrealizzabile? Irrealizzabile in quanto la storia ci insegna  che non c’è luogo in cui l’uomo, anche quando abbia trovato la  pace, rinunci alla sua sete di potere e prevaricazione?
O irrealizzabile perché “polemòs pater omnia” (il conflitto è padre di tutte le cose), dunque una società, una convivenza priva del confliggere, nascerebbe già malata, perversa e illusoria?
Ogni processo di elevazione già contiene in sé il ricadere in un mondo di pratica corrotta?
E questo vale tanto per l’individuo singolo come per la collettività?
Tornano antichi quesiti.
Per tranciare con l’accetta ciò che, in realtà, vorrebbe un’indagine più oculata:
Si nasce o si diventa?
Individuo o relazione? Dunque Parmenide o Eraclito? Condillac o Rousseau? Hegel o Schopenhauer?
Coscienza o incoscienza? La filosofia medioevale, W. Wundt, il pensiero cognitivo o J. Le Doux, O. Sacks, A. Damasio?
Passione o ragione? I sofisti o Platone? 
E se ponessimo la congiunzione coordinativa “e” in luogo della disgiuntiva “o”?
Operazione teorica, mi pare, perfetta, poi… sta al praticare (come sempre) la parte più ostica, sta al costruire, che è insieme distruggere, l’arduo compito di smentire l’ipotesi che ogni ricordo evocato violi le proprie origini.

Commedia dall’ampio spettro politico, per la stessa ragione tocca le corde più profonde dell’animo umano. Essa mi ha portato, ancora una volta, a interrogarmi su quel senso taoista che mi guida nelle scelte, sulla mia capacità di inserirvi i tratti dominanti di quella che viene chiamata “causalità circolare”: dove l’accettazione e comprensione del tutto non eviti di intervenire, di prendere posizione, per dare un indirizzo al volgersi delle cose.

Se, a prima vista, potrebbe suonare amara l’ultima battuta di Evelpide, mentre il compagno, tiranno e sposo di Basileia, la personificazione divina della sovranità, sta sul trono osannato da folle di uccelli: “Pistetero, torniamo a casa” , ci possiamo però trovare lo spiraglio per un tornare sui nostri passi come invito alla moderazione; di più, come invito a non evadere ma a sporcarci le mani nel “qui ed ora”, a guardare verso un’utopia come sogno di ardua realizzazione e non come sogno utopistico, ovvero irrealizzabile.

Certo, resta terrificante l’immagine di questa folla plaudente, di questi uccelli, non più liberi, ora chini sotto le brame e le storture del potere.
Ancora una volta lo spettro delle masse ignoranti e manovrabili, dell’elite come casta, della storia come luogo di potere per pochi in cui le masse fanno da sfondo o, peggio, da becero sostegno.

Spettacolo bellissimo, divertente ma…dalle domande insidiose a cui, io credo, nessun adulto sano ed autodiretto, nessun “guerriero” dovrebbe sottrarsi. Anche non conoscendo le risposte.

Al Teatro Menotti
Milano
Dal 17 Gennaio al 3 Febbraio

venerdì 18 gennaio 2019

La strada




Come sapete non sono un gran lettore di romanzi: sono, piuttosto, un divoratore di saggi.
Ma quel leggere, nelle pagine di uno dei pochi critici a cui do fiducia, di McCarthy come degno e forse unico erede di Faulkner, quel Faulkner che mi impressionò negli anni adolescenziali in cui era la letteratura a riempire la mia mente, mi ha indotto a raggiungere la biblioteca per prelevare
La strada”.

Ho scelto “La strada” banalmente spinto anche dall’omonima pellicola cinematografica: mai vista perché la crudezza con cui veniva presentata mi impediva di vederla con Lupo ancora piccolo. Una pellicola che, per i temi trattati, mi ha sempre intrigato.

Il libro tratta di un padre e un figlio (chiamati l’uomo e il bambino perché non c’è assolutamente nessun motivo per dar loro un nome) che viaggiano all’interno di un mondo distrutto da una non meglio specificata catastrofe. Il loro obiettivo è raggiungere il mare, sapendo già di non trovarci granché, mantenendosi vivi tra desolazioni della natura e incontri con uomini disperati disposti a tutto pur di sopravvivere.

Non una gran trama, non grandi azioni, non grandi e piccoli personaggi, niente passioni e sentimenti e tutto quel che, sempre, riempie ogni libro in circolazione.
E’ la “semplice” storia di questi due che mi è penetrata nel cuore, mi ha fatto mancare più volte il respiro, mi ha incupito dopo ogni sessione di lettura.
E questo suo essere romanzo appassionante ma portatore in me di una pessimismo tale da rovinarmi il sonno, mi ha indotto subito a chiedermi “Dove è la parte Yin in questo groviglio di Yang assassino e desolante?” “Perché non vedo la luce, anche piccola, anche flebile, in questo muro di tenebre color della pece che così mi atterrisce?”.

Per giorni e pagine del libro sono rimasto intrappolato tra queste due domande.
Poi, per cercare una via d’uscita, perché so che Yin e Yang, in proporzioni sempre variabili, danzano intrecciati tra di loro in ogni manifestazione terrena, qualsiasi essa sia; perché pratico e propongo le Arti Marziali come confliggere, come dura terapia d’urto per conoscersi e rinascere più sani e consapevoli, ho scomposto i grandi interrogativi in interrogativi più piccoli, più modesti.
- I bei ricordi, quelli che ti suggeriscono che hai ben vissuto, che è valsa la pena vivere, possono diventare un pesante fardello? Nei momenti bui, nei momenti disperati, diventano una risorsa, un appiglio a cui aggrapparsi per continuare a confidare in un futuro possibile oppure diventano un morbo che ti affloscia fino a spegnerti?
- Calato in una situazione complessiva ormai moribonda, dove la speranza ti appare come il vano delirio di un condannato a morte, cosa faresti? Ti lasceresti morire? Ti daresti la morte? o continueresti, appunto, lungo la strada?
- Posto davanti all’ineluttabile di uccidere per non essere ucciso, di  mangiare di tutto (carne umana?) per sopravvivere, ne saresti capace? In caso affermativo, sei certo di saper restare un uomo “buono” ( la parole del libro) o diverresti anche tu come i cattivi? Perché, nel libro, pare certo che padre e figlio siano i buoni ma... lo saranno per sempre? E quale è la differenza tra uomo buono e uomo cattivo? Perché togliere di mezzo e magari nutrirsene altri essere uomini pur di sopravvivere tu e chi ami è per forza roba da “uomini cattivi”?
- Avrebbe un senso e saresti capace di togliere la vita a chi ami per evitargli una sorte di reclusione, sofferenza e schiavitù? Nell’eventuale incapacità di farlo, quanto giocherebbe la speranza residua di un capovolgimento della situazione e quanto una inconfessabile vigliaccheria?
- Davvero, come si sono estinti i dinosauri, ci estingueremo anche noi e lo faremo distruggendo il nostro mondo e distruggendoci a vicenda? Bestie affamate ed impazzite?

Non è che a questi interrogativi abbia saputo dare una risposta, ma il covarli dentro mi ha permesso di continuare e finire questo splendido e struggente libro che mi stava mettendo KO.

Intanto, nel proseguire delle pagine, ho scoperto di emozionarmi fino alle lacrime per un padre a cui ogni giorno chiede un continuo sacrificarsi nel tentativo di fare sopravvivere a tutti i costi il figlio e l'uomo lo fa privandosi di tutto per darlo a lui. Un padre che protegge e difende il figlio: legge antica, è una cosa naturale, ma che sento, provo, ogni giorno in quelli che, al confronto del protagonista del libro, sono certo sacrifici piccoli, ma pur sempre privazioni, passi a lato, un mettersi in secondo piano per lasciare spazio al bimbo che diverrà uomo. Bimbo che … “porta il fuoco”, perché ogni bimbo, non solo quello del libro, porta il fuoco, la speranza.


 Libro cupo, capace di sradicare ogni certezza e infondere mille paure. Libro che pare prefigurare il destino di una società del consumo senza uso, dell’apparire frivolo, della malattia di ogni sentimento forte ed autentico, del lascivo perdersi in mollezze e disgustose ambiguità elette a quotidianità, a valore.
La nostra società, insomma.
E questo mi sconvolge, spingendomi ancora ed ancora a procedere nella mia personale “strada”, fatta di ricerca interiore, costruzione di relazioni sincere ancorché conflittuali, di piccoli mondi, come lo è stato e lo è tutt’ora lo Spirito Ribelle ZNKR, in cui coltivare, difendere e proporre una vitalità coraggiosa, autentica e sana.
Unico antidoto alla realtà de … “La strada”.
Leggetelo questo libro. Vi aprirà un mondo dentro.





venerdì 4 gennaio 2019

La risata del gabbiano













Risuona forte, risona stridula contro un cielo azzurro. A lei si uniscono, ali bianche, altre ed altre ancora risate forti.
Da Montale, minuscola frazione di un pugno di  case, siamo scesi a Levanto, mare azzurro ed una risacca che tambureggia senza sosta.

Un gruppo che si ritrova casualmente ai giardini Candia di Milano, tutti a portare a spasso il cane, è grazie a Mary, intraprendente donna giramondo, tra gli anni trascorsi in Africa e i ben venticinque ad Hong Kong, che nasce un minuscolo corso di Tai Chi Chuan. E’ più di un anno che il verde di quei giardini milanesi ci accoglie sereno, ogni Martedì mattina.
E siamo insieme a festeggiare l’anno nuovo che arriva, tra lunghe passeggiate su e giù per le colline o sul lungo mare, grandi mangiate e qualche sprazzo di pratica Tai Chi Chuan, fronte al mare e ancora le risate dei gabbiani a farci da sottofondo.
Praticare e sorridere, chiacchierare e gustare un vigoroso Syrah rosso, addentando salsicce alla brace.

Chi potrebbe affermare con sicurezza dove vada la Strada e dove vada a finire il giorno?
Ci sono diversi modi per arrivarci, si tratta solo di creare uno spazio, aprire un varco, stupirsi dello straordinario che sei in grado di cogliere nell’ordinario, nel quotidiano, nelle cose di tutti i giorni.
Sempre che tu scelga e riscelga ogni volta chi e come sei.
Allora tu realmente vivi e condividi con chi ti sta accanto questo tuo straordinario vivere.
Presenza, interesse, disponibilità e vitalità che, amalgamati con l’esperienza quotidiana, ci consentono di mettere le mani dentro la qualità della nostra vita. I suggerimenti che ne nascono, così familiari e semplici da comprendere, non sono però facili da impiegare. Essi vogliono uno stato di  attenzione al qui ed ora unico in grado di tenere alto l’ascolto e di non farci soccombere alla forza degli automatismi, delle ripetizioni.





Poi, i tramonti che sanguinano di un rosso cupo, le ville antiche a spiccare tra gli alberi, i cani a rincorrersi e a rincorrere gatti.
Il brindisi che segna il passaggio nel calendario.
E ancora quelle grida prima del ritorno a Milano.
Altra onda di vita che se ne va, inseparabile, indistinguibile, da quella che viene.