domenica 26 febbraio 2023

Fightworld

Magari una sola rapida occhiata, anche superficiale, ma perché non occuparsi di sport e arti di combattimento attraverso lo sguardo di chi le pratica?

E’ quello che ha fatto Frank Grillo (attore statunitense, praticante di arti marziali e sport di contatto, in particolare Boxe e Brazilian Ju Jitsu), in un breve (solo cinque puntate) documentario visibile sulla piattaforma Netflix.

Fightworld

Girato un pugno di anni orsono, ci presenta, attraverso i suoi praticanti, cinque discipline di cinque diversi paesi:

Il Messico, con l’interpretazione tutta cuore e ardimento della Boxe. Tratto comune e distintivo dei pugili messicani è il mai indietreggiare, rischiando tutto, accettando di prendere dei colpi per poterne restituire di più, sempre di più.

La Thailandia con il Muay Thai. Combattenti giovanissimi, entrano nelle palestre di Muay Thai per non gravare sulla famiglia e in cerca di un avvenire professionistico, conducono allenamenti massacranti in condizioni di vita miserevoli. Scopriamo che al successo economico del Muay Thai contribuisce in modo essenziale il gioco d’azzardo, così sfacciato che gli stessi atleti, durante il match, vengono aggiornati sulle quote della loro eventuale vittoria, condividendo una parte delle borse degli allibratori.

Il Myanmar, l’ex Birmania, con il Lethwei, sorta di Muay Thai con la possibilità di colpire di testa. Qui la povertà che spinge i giovani a cercare un riscatto nel successo sportivo si incontra (o scontra?) con la presenza di atleti professionisti e benestanti provenienti da tutto il mondo: Tentativo ben orchestrato di aprire la disciplina a un pubblico, (e a un business!!), più vasto. Il conflitto fra tradizione e modernità, con tutto ciò che comporta a livello morale ed economico, aleggia per tutta la puntata del documentario.

Il Senegal con la lotta Laamb, lo sport nazionale. La puntata vede due affermati campioni di oltre un quintale affrontarsi in uno stadio davanti a decine di migliaia di spettatori. Ambedue sono venerati nei rispettivi quartieri come eroi, semidei, in un legame profondo con lo spirito religioso del paese, con le radici e le tradizioni del paese. Se il tifo, il delirio, che i due suscitano ricorda gli eccessi del nostro tifo calcistico, la radicale differenza sta nella presenza costante dello spirito religioso e nell’atteggiamento di fronte alle cose della vita che si potrebbe definire rinunciatario, riassunto nella parola araba Inshallah, “Se Dio vuole”. Una caratteristica non solo della religione islamica ma pure del cattolicesimo più ortodosso.

Israele col Krav Maga. Qui si tratta non più di sport ma di vera e propria disciplina atta ad uccidere per non essere uccisi, di disciplina insegnata alle truppe israeliane come arma di difesa. Vedendo le immagini della puntata, appare evidente (per chi ancora non l’avesse capito!!) che il Krav Maga venduto nelle varie palestre anche qui in Italia non c’azzecca affatto con “il modo più veloce ed efficace per uccidere un uomo”. E non potrebbe essere altrimenti: lì, in Israele dei soldati, dei combattenti “vita o morte”, la insegnano ad altri soldati, a combattenti “vita o morte”; qui, civili, abilitati da qualche corso ad insegnare Krav Maga, lo propongono ad altri civili: impiegati, studenti, casalinghe, per qualche ora alla settima. Entrambi, docenti ed allievi, poi tornano a casa, alla loro tranquilla e paciosa vita quotidiana. Ah, cosa non si fa per un po' di soldi gli uni e per fingersi eroi combattenti gli altri!!

Un documentario più sulle persone che combattono che sul combattimento stesso, un documentario capace di mostrare l’umanità di cui sono intrisi questi sport.

Le puntate, per altro, fanno leva sulla pratica sportiva sia come possibile via d’uscita dalla povertà economica e sociale dei combattenti, sia come percorso educativo che tolga dalla strada e dalle tentazioni criminali gli strati più poveri della popolazione. Con il diffuso, ancorché fragile, benessere economico, unito ad una scolarizzazione massificata, quanto sopra pare strettamente riferito a zone del mondo vieppiù marginali, non ancora toccate dal cosiddetto progresso.

Oppure, proprio questo stato di benessere può innescare il bisogno di soffrire, di addentare la vita, di cercare “Il giorno da leoni di contro alla vita da pecore”, di passare attraverso riti di iniziazione che, appunto, il benessere ed una società vieppiù iperprotettiva, di maschi “mammoni”, ha fatto scomparire. Poi accadono “episodi avventati perpetrati dagli adolescenti che la società adulta fatica a comprendere” (http://tiziano-cinquepassineldestino.blogspot.com/2023/02/il-professore-sul-ring.html) in cui non è difficile intravedere la ricerca di un “rito di passaggio”: “La qualità della mascolinità tradizionale – coraggio, durezza, impassibilità al dolore – trovano sempre meno posto nella società di oggi, al punto da portare alcuni a profetizzare “la fine degli uomini”. Ma, nel profondo, gli uomini hanno ancora bisogno di sentirsi uomini, e così, come Don Chisciotte, ci inventiamo i nostri draghi. Nella maggior parte delle culture, correre dei rischi assurdi rimane un prerequisito della virilità, e se i giovani maschi non affrontano più i pericoli in riti di passaggio formali, lo fanno comunque a modo loro. (J. Gottshall “Il professore sul ring”)

Molto perplesso mi ha lasciato una certa patina edulcorata sulla violenza di questi sport, ossia la minimizzazione dei danni che arrecano ai praticanti “agonisti”. Una minimizzazione che ho letto nel volume, sopra citato, “Il professore sul ring”, di Jonathan Gottshall (da me commentato in http://tiziano-cinquepassineldestino.blogspot.com/2023/02/il-professore-sul-ring.html  ). Non è proprio così, come ci racconta il sociologo Alessandro Dal Lago in “Sangue nell’ottagono”, sottotitolo: “Antropologia delle Arti Marziali Miste”, e come ognuno può vedere su YouTube in “The darker side of MMA”.

Poi, come già scrissi in precedenti occasioni, per la “pagnotta” uno fa tanti sacrifici, dunque ci sta rischiare di perdere un occhio, incappare in gravi malattie dettate da traumi ripetuti tipo la encefalopatia del pugile, fino a morire mentre si combatte sul ring o nell’ottagono. Scelte legittime, ma non facciamo finta che picchiarsi a sangue sia una passeggiata!!

 


 

 

 

martedì 21 febbraio 2023

Nietzsche e la spada del samurai

L’esperimentazione è essenzialmente l’atto, o il genere di atti, che si riserva il privilegio di fallire. Il fallimento di un’esperienza rivela più della sua riuscita” (P. Klossowski)

E’ che nella pratica della spada, nella pratica dell’acciaio affilato, riaffiora l’intuitivo, l’inconscio per come ci parla e ci agisce, piuttosto che cercarne un significato univoco.

Il duello di spade per porre fine a tutti i duelli è quello che ci chiama per nome; io, noi, guerrieri improbabili nel terzo millennio di nero e blu vestiti.

La paura è il motivo per farci desistere, sistema corpo infettato di cattivi sentimenti, e sai che mentre la vitalità prende a disfarsi è la forza del cuore che si allontana.

Sono fendenti e falciate, sono agguati violenti nei Rinto Kata o rapide e mortali estrazioni nei Natsu no Sora Kata.

Il colpo apre il tuo cranio a questa lama affamata, vampate di calore irradiano la colonna vertebrale che si fa onda gigantesca, onda potente, sopra fianchi pesantemente ondulatori.

La simulazione di una morte data apparecchia i tuoi morti spiriti e la tua tremula carne, che poi è brutale violenza mentale, efferata estirpazione di cuore.

Plasmare in sé forme spezzate”, scriveva Friedrich Nietzsche, è l’oblio capace di lenire l’accumulo di ricordi.

Contro lo svilirsi della vita e la povertà di ogni esperienza che sappia di frivolezza e narcisismo, lì si erge la domanda di quale rapporto etico tra vita e morte, tra potenze di vita e potenze di morte.

Sono riflessi sporchi e incerti che comunque percorrono ogni estrazione di spada, ogni fendente di spada. Altrimenti che staremmo qui a fare, armati di acciaio affilato? Altrimenti cosa ci differenzierebbe dalle solite scuole che ripetono e ripetono e ripetono mille e più volte tecniche imposte nella memoria ed agite come bambini d’asilo ad una recita scolastica? Agite, per giunta, impugnando lame giocattolo, spade di tolla, di latta, deboli e non affilate?

Davanti alla spada che ti guarda minacciosa, dentro di te, inizi a sgretolarti; la mia presenza, spada minacciosa a guardarti, gela il sangue nel tuo cuore: è caduta ogni tua sicurezza, ogni tua protezione; nell’intorpidire i tuoi sensi sto addentando la tua anima.

Certo, è solo una simulazione, ma io e te sappiamo che uno dei due, a breve, sarà steso a terra, senza vita, e il suo corpo non sarà più lo stesso, né lo stesso il respiro. E’ solo una simulazione?

Sempre Nietzsche, nel suo “Lo stato dei greci – l’agone omerico” scriveva del carattere aperto, contingente, imprevedibile di ogni forma di scontro, scontro che non deve finire mai, tantomeno con una vittoria definitiva e una sconfitta altrettanto definitiva.

Ancora il filosofo tedesco a ricordarci la semplicità davanti al peggio, la sua disinvoltura, e dunque ad offrirci una visione illuminante del duello, di ogni duello.

Non so perché ricordi del pensiero nicciano affiorino a lampi in questa sera di Kenshindo, sudato e impegnato allo spasimo.

Forse perché ogni duellante di spade, oggi, nel terzo millennio, è soprattutto un ribelle, un visionario, che disvela nella banalità e nel conformismo imperante l’intollerabile, lo sgradevole, ogni compromesso al ribasso che tende a mantenere i rapporti di forza e potere esistenti, a mantenere la subalternità e l’obbedienza massificata: “Noi abbiamo preso atto del dovere di mentire secondo una salda convenzione, di mentire cioè tutti insieme in uno stile vincolante per tutti” (F. Nietzsche).

Io, noi Spirito Ribelle, ognuno a modo suo, non ci stiamo. E l’immenso pensiero ribelle e visionario di Nietzsche si muove dentro di noi e ci chiama all’azione. Anche questa sera, sera di Kenshindo.

 

 



 

 

 

 

 

 

 

giovedì 16 febbraio 2023

Di narrazioni corporee

Tutto sommato mi ritengo bravo a non andarmene, a non fuggire; a volte mi dilungo a vedermi lottare da solo in questo mondo di troppi stimoli e stimoli pure vacui, insulsi, o semplicemente funzionali alla povertà etica e culturale che richiede questo capitale, questa società di consumo e consumatori senza uso.

Tutto sommato un po' mi dispiace non trovare più da anni, presso un Sifu o Sensei famoso o un giovane sconosciuto, quella spinta a cercare, quella perla preziosa da inanellare, quel “qualcosa” di sapere marziale con cui arricchire il mio percorso, iniziato da quasi cinquant’anni e mai interrotto, nel Bujutsu e nel Budo, qualcosa di “marziale” che mi faccia progredire e migliorare.

Tant’è, so sempre ricorrere al sapere moderno, quello estraneo alle Arti Marziali, ormai ridotte a rami secchi, a pratiche alla cinobalanico, per citare Carlo Emilio Gadda e non apparire volgare.

Eccomi dunque ad iniziare un ciclo di seminari di Danzamovimentoterapia Espressivo Relazionale. Le docenti, che già conobbi ai seminari col fondatore, Vincenzo Bellia; un piccolo gruppo di praticanti, tra neofiti e chi già conosce l’approccio; la sala di Eclectika, nella via che fu della mia infanzia.

In un mondo di voci distanti, di corpi estraniati, qui ognuno danza da solo ma sempre in mezzo agli altri, ognuno si prende e si sorprende.

Le voci, là fuori, sono quelle che dicono a me come ad altri che non saremmo mai e poi mai andati lontano, che i particolari più profondi galleggiano in superficie, che gli occhi sfuggono ad altri occhi e i volti non si ricordano mai.

Ma oggi, qui, non è così. Almeno nelle tre ore di corpi e cuori danzanti non è così, qui si condivide l’espressione emozionale di corpi che, da estranei, si incontrano, si toccano; di somiglianze e ricordi che narrano ognuno la propria storia ed ogni storia, frammenti e pause, è anche la storia dell’altro.

Bruce Lee ebbe a scrivere “L'espressione di un artista è la sua anima resa manifesta”, curioso che tutto ciò non lo trovi ormai più nelle pratiche marziali così come proposte e insegnate ora, ma in pratiche corporee altre. Queste sì ricche di cura e di attenzione al sé corpo, al suo posto nel rapporto uomo / ambiente, all’assunzione di responsabilità verso il suo modellamento interiore (Neijia Kung Fu) attraverso esercizio e movimento.

Curioso e triste, per antiche pratiche di sapere e di combattimento spogliate della loro ricchezza e vendute da imbonitori incerti tra il muscolare trucido e roboante e lo snocciolare tecniche asettiche e iterative, cadaveri insomma.

Tocca a me, tocca a noi Spirito Ribelle, mettere le mani nel cuore antico e ancora pulsante di queste pratiche di sapere marziale, corroborandole con chi e con cosa, pur non “marziale”, di quel cuore conosce e condivide ritmi, pulsazioni e sentimenti. Proponendole allora energiche e potenti, per guerriere e guerrieri del terzo millennio, per donne e uomini vitali ed erotici.

Allora, avanti con i prossimi seminari!!

 


 

 

 

 

 

mercoledì 8 febbraio 2023

E gioca ogni … spesso!!

Souishou - Push Hands, che sono mani che “accettano e premono”, sono “costruzione di un elastico scudo difensivo e offensivo”, sono “territorio condiviso di relazione” (T. Santambrogio  “Souishou - Push Hands” in  http://tiziano-cinquepassineldestino.blogspot.com/search?q=souishou), sono uno dei fondamenti nella pratica di diverse Arti del combattimento: Taiki Ken, Tai Chi Chuan, Wing Chun, Karate d’Okinawa ecc.

Questo, ossia la loro importanza, la loro seriosità, non significa che non ci si possa formare alla loro pratica divertendosi, giocando. Anzi!!

«Ciò che per il bambino è gioco per l’adulto è arte»

(R. G. Romano, pedagogista)

Ecco che, nel video, vi mostro alcuni giochi atti a sviluppare, ad affinare, le qualità motorie e fisicoemotive fondanti i Souishou - Push Hands.





“la dinamica del push and pull, spingere (i bastoni) e tirare (i fili): ecco mettere simbolicamente in scena gli uni la dinamica aggressiva, gli altri la dinamica della seduzione, se per sostenere il bastone si deve spingere andando verso l’altro (ad – gredi),e per mantenere il filo in tensione, attirare l’altro a sé (se – ducere)”

(V. Bellia, “Un corpo tra altri corpi”)

Premere / spingere un bastone semirigido, attiva le catene anteroposteriore e anterolaterale; nella relazione duale segna la differenziazione e il confine.

Tirare tenendo in tensione una corda elastica, attiva tutte le articolazioni perché si adattino repentinamente ad ogni cambiamento.

Usare due bastoni o due corde elastiche in contemporanea, completa lo stimolo motorio, mentre il farlo incrociandoli stimola ulteriormente la sensibilità e differenziazione sui diversi piani sagittale, verticale ed orizzontale integrandoli in un insieme armonioso e fluido e interessando lo spazio tridimensionale. Usare contemporaneamente un bastone ed una corda elastica introduce una più complessa integrazione motoria e fisicoemotiva, non solo tra emicorpo destro ed emicorpo sinistro, quanto coinvolgendo al massimo lo spazio mutevole della relazione e la sua gestione. Il tutto divertendosi!!

Un buon riscaldamento con questi due oggetti facilità l’ingresso nella pratica vera e propria dei 

Souishou - Push Hands

Provare per credere!!

 

 

 

 

 

mercoledì 1 febbraio 2023

Il professore sul ring

In un locale della vecchia Milano, incontro Claudio, amico di lunga data come di lunga data lo è come allievo (da quarant’anni circa), a sua volta Maestro di Arti Marziali; quella vecchia Milano che ancora odora di classe operaia, di solidarietà di classe. E’ solo un “odore”, un ricordo vieppiù balbettante, ma mi fa tanto bene in questi tempi di fighetti e radical chic, stupidità e vanità assurti a valori; in una città che nulla ha mostrato del passaggio dalla Moratti del “centrodestra” a Pisapia e poi Sala, il sindaco “dai calzini arcobaleno” che vince le elezioni come rappresentante del “centrosinistra”, lui già uomo di fiducia della Moratti medesima!!

Sul tavolo, un libro in regalo per me

Il professore sul ring

di Jonathan Gottshall

Gottshall, tranquillo quarantenne professore di inglese, intenzionato a scrivere un libro sulla violenza, si mette in gioco in prima persona iscrivendosi ad una palestra di MMA, le arti marziali miste, allenandosi duramente con lo scopo di affrontare un avversario nella “gabbia”, il “ring” caratteristico delle MMA. Gottshall, poi, anche dopo l’incontro, continuerà a praticare MMA anche se solo in palestra e senza mai più scendere in gara.

Lodevole l’intenzione dell’autore: Se scrivo un saggio sulla violenza, il cui sottotitolo è “Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli”, voglio sapere di cosa sto scrivendo, lo voglio sapere non solo in teoria, ma sperimentandolo in pratica, su di me corpo. Complimenti per l’onestà intellettuale e il coraggio umano.

Interessante il corposo volume, oltre trecento pagine, denso di riferimenti alle ricerche scientifiche e sociali di altri autori mescolate con le riflessioni di Gottshall; sempre coinvolgenti le sue peripezie tra pugni presi e pugni dati, paure improvvise e slanci di inaudito coraggio.

Un bel libro, da leggere senz’altro.

Scritto questo, passiamo ad alcuni dei passaggi su cui avanzo i miei dubbi.

Concordato che è in uso nell’ambiente marziale parlare di “combattimento” per ogni scontro, sia in allenamento che in gara, all’autore forse sfugge che di convenzione si tratta. Sì perché il combattimento è ben altro. Di combattimento in ambito civile, ovvero escludendo i militari, dunque di momento in cui rischi la faccia e forse la pelle, sanno qualcosa alcune precise categorie: delinquenti, estremisti politici, ultras del tifo sportivo. Sono loro a combattere senza sapere chi avranno davanti, quanti avranno davanti; a dover affrontare avversari che li attaccano anche di sorpresa, magari alle spalle; a non sapere preventivamente se dovranno affrontare mani nude o bastoni, coltelli, spranghe, tirapugni, pietre ecc. a non avere un arbitro a tutelare la loro incolumità fermando il combattimento quando hanno la peggio. (1)

Apprezzabile il coraggio di chiunque si alleni per darsele di santa ragione, a maggior ragione in contesti sportivi di contatto pieno e regole poche, ma l’esaltazione di Gottshall per la sua scelta e quella per gli incontri di MMA visti come uniche e autentiche prove di ardimento e virilità, cozza con la realtà di quanto ho scritto sopra.

Probabilmente, in questo ha un ruolo l’essere Gottshall una brava ed onesta persona, sovente, come lui stesso scrive, bullizzato da adolescente, che si è sempre tenuto lontano dalla violenza fisica di strada e dalla criminalità, piccola o grande che sia. Altrimenti un distinguo tra “combattimento sportivo” e “combattimento reale” lo avrebbe fatto. Certamente, con questo mio, non voglio indirizzarlo a scrivere un secondo volume dopo aver passato qualche anno a sfasciare auto, scontrarsi con la polizia, lanciare molotov, picchiare a sangue degli sconosciuti, rischiare l’osso del collo in risse di gruppo offendendo e rischiando offese di coltello o chiave inglese. Però potrebbe intervistare hooligans o black block e un’idea se la farebbe, dato che scrive “i nostri scontri sono normati con regole chiare su ciò che è permesso e ciò che non lo è”, mentre in strada davvero “no rules”, non ci sono regole!! Insomma, come lui stesso scrive, i primi anni di MMA /UCF erano un massacro, un autentico rischio di perdere la vita, ma poi il business ha avuto il sopravvento e le regole sono diventate tante, pur in un contesto che resta di botte a più non posso, un contesto dunque, sportivo. (2) Lo stesso Gottshall scrive: “Bulli e criminali non vanno in cerca di mettere alla prova se stessi in scontri corretti, alla pari

Condivido la sua critica alle Arti Marziali Tradizionali, ormai lontane da un’apprezzabile aderenza allo scontro di strada (e pure noiose!!), anche se, in questa critica, si lascia prendere la mano dimostrando una generalizzazione che, per esperienza, so contraddetta da interpreti pochi e Scuole poche che, però, ci sono, eccome!!

La sua formazione USA, poi, gli fa temo perdere la consapevolezza che, piaccia o meno, la società sta cambiando: uomini vieppiù femminilizzati e donne vieppiù androgine, il che porterà, nel giro di un paio di generazioni, a leggere in modo totalmente diverso i comportamenti maschili e femminili in ogni ambito del vivere, sport “violenti” compresi.

Condivido appieno le sue annotazioni sui maschi che cercano sicurezza nell’aumento della massa muscolare, che dell’ipertrofia muscolare fanno un deterrente per eventuali maschi antagonisti (3). Pure condivisibili le sue parole: “I ragazzi che si avvicinano alle arti marziali sono quelli che temono di essere deboli” così come dei suoi compagni di allenamento MMA scrive di giovanotti tranquilli alla ricerca di sicurezza, aggiungendo: “Tutti noi ci andiamo per cercare di acquisire l’abitudine al coraggio”; sincera quanto rivelatrice è la frase: “la ragione che mi ero dato per fare un combattimento era quella di cercare di fare  qualcosa di coraggioso, di redimermi, almeno ai mie occhi, per tutte le volte che  da giovane mi ero tirato indietro”.

Molti sono gli spunti di discussione che il libro porta in figura, per esempio sulla scomparsa dei riti di passaggio e la loro sostituzione con episodi avventati perpetrati dagli adolescenti che la società adulta fatica a comprendere e a inquadrare; sulla enorme differenza anche “tecnica” tra scontrarsi con i guantoni e a mani nude; sull’importanza dei bulli e del ruolo che rivestono nella gerarchia gruppale; sul labile confine tra onore ed orgoglio.

Dunque, un libro da leggere, perché, in me, un libro se suscita dubbi, se mina certezze, se avanza teorie non ancora prese in considerazione, è un bel libro, un gran bel libro. D’altronde è quanto io faccio e provo nella mia esperienza marziale, intessuta di dubbi e scoperte, errori e ripensamenti, perché solo così io cresco, anzi, mi permetto di scrivere: Solo così chiunque cresce. Invece, chi coltiva e vanta certezze si tiene ben lontano dal crescere, dal migliorare, si tiene ben lontano dal conflitto in primis con se stesso abitando, invece, la paura di guardare in faccia quella parte di sé che probabilmente non ritiene all’altezza, di cui, forse, si vergogna.

Chiudo riportando alcune sue considerazioni che indubbiamente aprono un … “portone” di successive riflessioni che ognuno di noi, anche chi non pratica, potrà fare dentro ogni ambito del proprio vivere quotidiano e delle relazioni che intesse:

“Le arti marziali miste rendono la mia vita più ricca di asperità. Consentono a un professore un po' smorto come me di vivere con impeto, anche se solo per qualche ora alla settimana”. (omissis) Le MMA fanno davvero male (omissis) anche a me hanno lasciato delle lesioni permanenti al corpo, e forse anche al cervello. Ma le MMA fanno davvero anche molto bene. Hanno migliorato l’immagine che ho di me stesso, mi hanno reso più forte, più in forma e più sicuro di me. (omissis). Il mio fisico ha dei problemi. Facendo a pugni continuo a slogarmi il polso e il pollice sinistri. Ho iniziato a frequentare la palestra con degli alluci perfettamente sani e ora entrambi hanno l’artrite. Ho lottato contro la tendinite d’Achille per circa un anno, e per sei mesi contro uno strappo a un legamento dell’inguine. E la lesione al collo che mi sono procurato mentre lottavo con Clark non è mai completamente guarita, cosa che mi limita nella lotta a terra. Il mio corpo mi sta parlando forte e chiaro, mi sta dicendo che ho già sfidato la sorte ben oltre il limite. Mi sta dicendo che sono troppo vecchio per questo e che devo smetterla, che mi piaccia o meno. Ma io non lo voglio stare a sentire. Non ancora. Non sono pronto a lasciarmi scivolare giù dalle asperità della vita, a scendere nella monotonia delle pianure. E adesso, nel mio piccolo, capisco perché molti fighter vanno avanti ben oltre il punto in cui dovrebbero mollare: è perché il combattimento è una droga, e smettere di drogarsi è difficile., anche se sai che dovresti. Perché, come dice Mike Tyson con la sua brusca franchezza < Fuori dal ring tutto è così noioso >”

 

1. Chi volesse farsene un’idea può leggere l’agile “La banda Bellini” di Marco Philopat, ottimo per capire il clima violento e utopistico del ’68 e dei ragazzi che lo animarono, oppure guardare “Furioza” di Cyprian T. Olencki, intenso spaccato sul mondo degli ultras.

2. In un contesto di combattimento “vita o morte”, tra un predatore umano di 70 kg e un impiegato amministrativo o uno studente universitario o… un professore di inglese anche se di 90 o 100kg che, tre volte la settimana, si allena nelle MMA, su chi punterebbe Gottshall? Io, su chi puntare, non ho dubbi.  Potrei, forse, avere qualche dubbio se il predatore umano affrontasse un professionista MMA di 100 kg, ovvero uno che campa a suon di botte (A meno che “predatore umano” e praticante MMA, per qualsivoglia motivo, non convivano nella stessa persona!!). D’altronde, lo stesso Gottshall, riferendosi agli scontri in palestra, come già citato, scrive: “i nostri scontri sono normati con regole chiare su ciò che è permesso e ciò che non lo è. Ma anche perché le nostre gerarchie di dominanza mantengono le cose su un piano civile” e, negli incontri di torneo, ci pensa l’arbitro a mantenere lo scontro entro limiti stabiliti. Nella vita reale non è così.

3. Da giovane, presto notai come, fermi al semaforo, a far rombare il motore in chiassose accelerate fossero quelli al volante della FIAT Cinquecento “truccata”, mentre chi viaggiava in Porsche non aveva bisogno di attirarla l’attenzione né di mostrarsi rumorosamente: C’entra qualcosa con l’ostentazione di muscoli ipertrofici e la ricerca di una massa muscolare appariscente? Con la ridda di tatuaggi sparsi ovunque che mostrano animali feroci e frasi truculente?