

Un vero “pugno nello stomaco” anche per chi la TV, fiction o documentary, ha abituato al peggio della brutalità umana.
Sorta di “Art Brut” fattasi esplicita, mi induce a riflettere su come, sovente, siamo portati a vedere la violenza scartando da subito l’ipotesi di essere noi le vittime. Noi quelli denudati, irrisi, violati, torturati, impotenti davanti alla prevaricazione di altri.
Golub guarda, dipinge e denuncia: pittore di vicende pubbliche, di cruenti avvenimenti sociali, proposti all’emozione nuda dell’osservatore.

Sulla via del ritorno, la “Fondazione” è a dieci minuti a
piedi da casa, scorro la vista su una serie di locali tutti lustri e patinati:
è il pranzo dei rampanti “colletti
bianchi” milanesi.
Poi, il modesto ingresso della “Osteria Tajoli”.
Vecchio locale della Milano anni ’60, una delle mie
abituali mete, in “dolce compagnia”, quando avevo vent’anni. Sempre unico
giovane tra tutti adulti ed anziani dai capelli bianchi, sempre orgoglioso
dello stupore sul volto delle fanciulle con cui mi accompagnavo nell’annusare
un ambiente così autenticamente milanese e nell’essere trasportate tra le
melodie di Claudio Villa, Arturo testa, Luciano Tajoli, rigorosamente suonate a
cantate dal vivo dal gestore.
Tutto tranne il gestore, che trovo alla cassa e con cui scambio due parole sul tempo che fu.
Un bel pugno di ore, tra arte e cucina semplice. Proprio
ciò che piace a me.
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