Guerrieri che si scontrano, figure antiche, arcaiche.
Un brivido fatto di muscoli e sudore e respiro intenso.
È una ruota che gira, continua a girare.
Riaffiora il mio dolore e quella rabbia che,
dall’adolescenza, non mi ha più lasciato.
Inutile parlarne, lo so di non essere innocente.
E, appunto, la ruota gira e continua a girare.
Lasciandomi andare, i piedi nei morbidi tappeti, le
figure di divinità asiatiche a campeggiare ovunque, un senso di profonda
accettazione del mondo e delle cose.
Come se davvero fossi un praticante di pace e davvero
potessi affrontare quello che vedo e provo raccogliendo manciate di serenità.
E’
questo il mio praticare Tai Chi Chuan ora.

Tra Ting Jin,
l’abilità di percepire l’altro al contatto, e lo schiudersi del “Sorriso
Interiore”, tra la costruzione di una postura e di un portamento equilibrati e
funzionali e l’immersione nell’alchimia taoista.

Ora, ancor più di prima, lontano, persino avverso, alla dromocrazia,
quel potere folle ed insensato della rapidità, che ovunque sta uccidendo ogni
attimo goduto, ogni pausa, ogni vuoto fertile, che ci priva del godere dello
straordinario nell’ordinario.

A volte la ruota mi porta a sentire “Qua”, il bacino, e a lavorare sul corpo e sui fattori di movimento
quali peso, spazio e tempo. Altre, mi fa attingere alle forze vitali interiori e alla loro
capacità curativa.
Una ruota che, immobile, gira tra pratiche corporee
definibili e definite aperte, forse, un domani, al possibile uso del Chi, e pratiche che nel Chi e nella cosmogonia taoista subito si
tuffano a piene mani.

Che sia l’uno o che sia l’altro, entrambi così profondi e
puliti, danzo la mia personale vitalità della vita, danzo quello che è Il mio
Tai Chi Chuan oggi
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