giovedì 28 maggio 2020
martedì 19 maggio 2020
Un incontro straordinario

Affondare nel terreno, accelerare il moto ascendente tramite
un’energia spiraliforme che non trovi freni o intoppi o sacche di resistenza
grazie ad un corpo flessibile. Flessibile dentro e fuori. Libero e “vuoto”.(2)
Per
questo è importante lavorare Fushime Taiso, laddove la mappa
neurologica primordiale, alle radici, la possiamo esplorare compiutamente.
Laddove, in caso di mancanze, di strappi o immaturità nel percorso di crescita
ontogenetico (la maturazione infantile) in cui si riflette quello filogenetico
(della specie) riscontriamo, una volta
adulti, deficit di movimento sino ad una asfissia nella percezione
sensoriale.
Dalla posizione fetale alla “stella marina”, movimento
abbozzato che l’ombelico indirizza alle parti connesse, ai quattro arti, passiamo
ai movimenti spinali testa - coda (pesci), poi a quelli omologhi, in cui gli
arti agiscono simultanei e simmetrici (anfibi).
Quando l’essere, l’animale, esce definitivamente
dall’acqua, ecco i movimenti omolaterali, asimmetrici sullo stesso versante di
un arto superiore ed uno inferiore (rettili), a seguire i controlaterali, l’arto
anteriore di destra si muove in avanti insieme al posteriore di sinistra e
viceversa (felini), fino alla salita alla stazione eretta (bipede) e … ritorno.
Da bipede ecco, appunto, l’importanza di scaricare il
peso a terra per poi esprimersi nello spazio, recuperando un pieno uso del
bacino / femori e della colonna vertebrale in cui, nei millenni, il mancato uso
degli arti superiori (anteriori) per la deambulazione, la parte “alta” si è
impigrita fino a concedere poco o nulla alla qualità del movimento.
Simbolicamente,
dalla Terra verso il Cielo.
Dall’accoglienza del femminile all’avventura di scoperta
tipica del maschile. Sorta di separazione, di rescissione traumatica, violenta,
dal cordone ombelicale, dal maternage
come condizione necessaria per divenire maschio adulto. Certo, poi, ogni volta,
torniamo alla terra, al femminile, per poi riprendere il viaggio in una sequenza
senza fine.
Eppure,
in questa affascinante sequenza così come l’ho descritta, sequenza di
straordinaria efficacia motoria e pure marziale, di combattimento,
manca
ancora qualcosa.
Manca,
meglio, ora scopro un ancor più
raffinato andamento corporeo che si traduce in azione e gesti ancor più fluidi,
ancor più rapidi; scopro un nuovo,
un diverso rapporto con la Terra, con il femminile, con la Madre.
Non una separazione netta, agita come strappo. Piuttosto
un’accoglienza che mentre mi accoglie, accoglie il mio pesare ed io mi lascio
accogliere, al contempo mi permette di allontanarmi, di esplorare nuovi spazi,
di scoprire l’avventura del maschile senza
lo sforzo, che è traumatico, del distacco.
E’ un incontro foriero di esplorazioni che nascono
spontanee, senza traumi, senza sforzi e danzando l’armonia dell’ambiente.
Scopro,
nell’azione corporea (3), che, dal
semplice e primordiale movimento di irradiamento ombelicale fino al balzo
sull’avversario, posso ora agire ancor più fluido, ancor più rapido.
Scopro, nell’elaborazione
psicologica, che il distacco dal materno può essere una potente delizia, un
delicato e audace slancio nel maschile, nel paterno.
Scopro che la
separazione, ogni separazione, non necessariamente, anzi, deve essere
trancio doloroso.
Scopro
che faccio meno fatica ed ottengo di più.
Che è
il succo, il cuore, di ogni pratica motoria, corporea, dunque anche sportiva se
l’intellighenzia sportiva fosse realmente tale e non un mondo chiuso nella sua
ignoranza! (4)
Che è il succo di ogni pratica marziale, combattente,
lottatoria, laddove la rapidità del successo sull’avversario col minor
dispendio di energie stabilisce chi vive e chi muore.
Che è il succo di ogni pratica terapeutica, di ricerca
del benessere e del bellessere.
“Per quanto tu sia bravo,
puoi sempre migliorare,
ed è questa la parte
emozionante”
(Tiger Woods)
(Tiger Woods)
Un
sentito grazie ad Eleonora che, prendendomi per mano, mi ha permesso questa
scoperta.
1. Pratica sensazionale di efficacia ed efficienza ben più
progredita di chi ancora pratica privilegiando gli arti al lavoro del corpo
tutto, ma pure di chi ancora pratica affidandosi al ruotare dei fianchi o alla
contrazione / decontrazione muscolare delle gambe.
2. “Possiamo allora
dire che lo spazio incorporato, vale a dire tutti i volumi che percepiamo al
nostro interno, si espande leggermente tutt’intorno a noi, nello spazio
peripersonale (…) e che lo abitiamo e
lo utilizziamo molto meglio se affiniamo la consapevolezza della sua dinamicità”
(M. Della Pergola).
3. Non sono ancora in grado di spiegare compiutamente in
forma teorica questa evoluzione: dall’agire descritto nelle prime righe a
quanto vado scrivendo in quelle a seguire. So come fare, come proporlo ad
altri. So come trasformare in questa innovazione ogni esercizio, ogni gioco già
praticato: dai Fushime Taiso agli spostamenti, dalla forma Tai Chi Chuan ai
push hands, dai colpi di braccia e gambe alle proiezioni al suolo. Ma, al
momento, non ho ancora trovato come passare dalla pratica all’elaborazione
teorica scritta, o, quanto meno, ad una elaborazione tanto esaustiva quanto
sufficientemente sintetica da essere ospitata in un blog!!
4. Ancora largamente maggioritaria è la pletora di docenti,
allenatori e praticanti che sostiene il “Ho
le spalle contratte” invece di “ Io
sono spalle contratte”. Sorta di schizofrenia
che scinde Io e corpo, che guarda al corpo come corper, oggetto di scienza, oggetto posseduto, oggetto da misurare,
invece che leib: corpo del mondo
della vita, essere corpo.
Dal Platone (Atene 428-347 a. C.) del valore universale
delle idee, per cui diviene necessario negare corpo e sensazioni, alla nascita
del capitalismo con le teorie comportamentiste ( primi del ‘900) per cui, dato
l’inserimento sistematico delle macchine nel ciclo produttivo, era imperativo
sapere ciò di cui un individuo è capace attraverso osservazione e misurazione,
fino al dominio della tecnica dei giorni nostri (dove ogni essere umano è
trattato come se fosse soltanto una macchina, cioè un mezzo), ecco il percorso
dell’alienazione del corpo, ecco le palestre ed i corsi in cui il corpo è da
modificare, da modellare, in cui persino un’arte complessa, profonda e
pulsionale come il combattimento viene insegnata / praticata seguendo il foglio
simil IKEA per montare un mobile!!.
sabato 16 maggio 2020
Giri Haji. Dovere e Vergogna
Un
poliziesco anglonipponico, incentrato su un sicario della yakuza scappato dal
Giappone e sul fratello detective, piombato a Londra a cercarlo.
Una Londra fatta di meandri speso sordidi e sottobosco di
uomini e donne che faticano a trovare una propria dimensione autentica nella
sempre più caotica e malevola città.
Nella serie, agiscono personaggi tutti grande spessore,
nessuno secondario né alla trama avvincente degli accadimenti né allo scavo
psicologico delle loro debolezze umane. E non è facile trovare una serie in cui
tutti, ma proprio tutti, i partecipanti contribuiscano all’intensità dello
spettacolo.
Mi ci
sono accostato per semplice curiosità per poi imbattermi, oltreché in uno
spettacolo avvincente e godibilissimo, nel binomio che dà il titolo alla serie:
“Dovere/Vergogna”,
che sono i due elementi che qui tutti i personaggi hanno
in comune.
Ogni personaggio, infatti, è legato da un obbligo in cui
albergano le cicatrici di disonori passati.

Stesso è per la vergogna, correlata, nei primi, alla
percezione che si ha di se stessi. La vergogna si presenta come un senso sgradevole
di nudità, di trasparenza: si ha la sensazione di essere stati scoperti e di
conseguenza si vorrebbe diventare invisibili, sparendo per sempre dagli sguardi
altrui.
Nella cultura giapponese, vergogna (haji) più che imbarazzo è disonore.
Come scrisse Ruth Benedict, in “Il crisantemo e la
spada”, la cultura della vergogna sarebbe la pressione ad agire nello stesso
modo. Per il giapponese, lo stimolo di partenza proviene dall’esterno, sicché
l’autocontrollo o l’autocensura, contrariamente alla mentalità occidentale, si
attivano non per fedeltà a una propria morale interiorizzata, ma per evitare il
rimprovero esterno.
L’incontrarsi
e lo scontrarsi dei personaggi, a Londra come in Giappone, crea sotterranee e
malcelate commistioni tra queste due visioni che lacerano sia i singoli che le
relazioni tra gli stessi, il tutto mentre la vicenda procede tra sparatorie,
massacri, agguati e fughe vertiginose.
Allora
lo scorrere degli eventi, mentre mostra il limite di karoshi “la morte per
eccesso di lavoro”, ovvero la spinta all’onorare ad ogni costo impegni e
scadenze, mostra anche la decadenza mortifera insita nella
deresponsabilizzazione e nell’eccesso di godimento; di come tatemae / honne,
l’apparenza che fa da scudo alla sostanza, possa rivelarsi una trappola
soffocante tanto quanto l’occidentale mostrarsi e fare quel e come ci pare, in
nome di un liberismo avido ed egoista, sia traghetto verso disperazione e
dissoluzione.
Danziamo, puntata dopo puntata, tra il preconcetto nostro
di cercare sempre una causalità lineare e quello asiatico di cercare invece un
senso ad ogni esperienza.
Abitiamo la compostezza di kijo, il dolore riservato,
persino elegante, di contro alla sguaiata esposizione senza ritegno dei
sentimenti, ed intanto ci domandiamo se il primo non sia paura, fuga dall’ascolto
di sé ed il secondo una spiacevole ma necessaria catarsi.
La
serie non lascia certezze allo spettatore, o almeno questa è la mia
impressione. Questo perché la parabola di ognuno dei personaggi è narrazione in
divenire.
Se davvero la
realtà è mondo intenzionato, allora l’individuazione, il percorso di
ognuno, è a carico di ognuno di noi, in cui l’altro, l’ambiente, non può essere
né scusa né colpa per le nostre scelte. Che si venga da una formazione
tradizionale o da una che la tradizione ha dimenticato, ognuno ha da fare i
conti con i sensi di colpa e le ambizioni, i progetti, che lo abitano. Ognuno
ha il suo substrato inconscio, più o meno contaminato dal retaggio della storia
umana, da quello che è chiamato “inconscio collettivo”.
Dal
punto di vista occidentale, che per forza di cose; nascita, educazione,
relazioni ecc. è il mio, per così dire, “naturale”, viene da chiedersi, questo
sì abbracciando la concezione orientale, il senso di questa rapidità, che è
superficialità, della comunicazione, dell’avere tutto e subito, della frenesia
del consumare quand’anche senza usare, e che in fretta deragliano nel consumo
usurante di noi stessi.
Guardare
la e le storie qui raccontate è ripensare ai nostri atteggiamenti, al nostro
fare fisicoemotivo, significa comprendere il senso di ciò che sta accadendo
attorno a noi, che sia ancora latente o in bella mostra, ma che intuiamo essere
trasformazione in corso della collettività
verso un futuro ancora tutto da riempire ma dai contorni acidi e maligni.
Allora ognuno di noi è e sarà responsabile verso di sé come verso gli altri,
responsabilità che è rispetto e cura, pazienza e gentilezze, tanto quanto
fermezza e coraggio, audacia.
E’, per me, per le mie scelte, Spirito Ribelle, ovvero pratica di disubbidienza ed opposizione
all’abbruttimento ed al servilismo di un presente che vuole condurci verso un
prossimo futuro dominato in toto dalle leggi del profitto e della
mercificazione, dell’alienazione.
D’altronde “ Niente
se ne va prima di averci insegnato ciò che dobbiamo imparare” (Buddha)
Una
nota di merito alla musica. Non tanto per i gradevoli brani musicali, quanto
per le percussioni, i tamburi, che colpiscono e tracciano, improvvisi, lungo l’intero
arco della narrazione. Semplicemente sublimi.
Giri
Haji
su
Netflix
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