giovedì 1 maggio 2025

Metamorfosi e mistero. Il mondo di Leonor Fini


Palazzo Reale

Io sono Leonor Fini

Mattinata di sole, ancora pochi i turisti nei pressi del Duomo. Con Susy, da Bassano del Grappa in rapida trasferta a Milano, eccomi ad ammirare la mostra di questa artista intrigante, fuori dalle righe, in totale distonia con lo spirito dei tempi.

Una vita segnata, già dall’infanzia, da eventi traumatici: La separazione non pacifica dei genitori; la fuga a Trieste, dall’Argentina, della madre con lei al seguito; la ricerca disperata del padre per riaverla con sé, con tanto di intervento poliziesco; la madre che per anni la traveste da maschio per renderne più difficile l’identificazione; in ultimo, una malattia che la costringe per due mesi bendata e al buio.

Ce n’è abbastanza per vedere crescere una persona insicura e disturbata.

Una persona che si vede corpo mutevole e performativo, che dipinge spesso figure ibride, tra l’umano e l’animale, entrando a piene mani nel campo della metamorfosi e della trasformazione dell’identità, che trova nell’attività di costumista e scenografa per teatro e cinema la via per trattare il corpo come mezzo espressivo e narrativo.

La sua stessa vita fu una forma di espressione artistica. Si presentava alle feste ed agli appuntamenti con abiti eccentrici e di stampo teatrale, facendo della sua immagine una narrazione visiva. Narcisista ed egoica fino all’estremo, come dichiarava lei stessa, probabilmente copriva una insicurezza di fondo cercando sempre di stupire gli astanti, di farsi notare, di non essere racchiusa in nessuna definizione.

Leggo i pannelli che ne spiegano l’opera e trovo goffe le affermazioni di lei come capace di mettere in discussione il genere, l'identità, l'appartenenza, i modelli consolidati di famiglia, la mascolinità e la femminilità. Sorta di ultra femminista ante litteram.

La sua infanzia ci mostra i traumi, i “mostri”, le paure che l’hanno formata. Proprio quei pannelli che scrivono del suo rapporto con Freud e la psicoanalisi come fanno a non prendere in considerazione una lettura travagliata, sofferta, di chi cercava compagnia solo di uomini efebici, glabri, giovani e così distanti dalla figura di maschio adulto, di… padre? Di chi amava farsi ritrarre sempre in pose affettate, costruite, mai sincere, tanto che un suo caro amico le scriveva implorandola di lasciarsi vedere invece di nascondersi continuamente? Che, di suo pugno, scriveva quanto qui sotto:


 












Tant’è, questi sono anni di strampalata cultura woke, di asservimento ai capricci individualisti, di isterica attenzione ai diritti privati mentre crollano le difese di quelli collettivi e sociali, di crisi grave di ogni senso di collettività e comunità. Sono anni ben riassumibili nella battuta del comico Eros Brousson: “
Pazzesco che una volta si dovessero aspettare nove mesi per sapere se il figlio che si aspettava era maschio o femmina. Adesso devi aspettare venticinque anni e non è neanche detto, magati poi è un unicorno o una maniglia”. Sono anni di trito superomismo di massa fatto passare come fulgido coraggio di andare oltre i propri limiti. Sono anni in cui appare evidente che la più gran dote di cui un individuo possa attrezzarsi e di cui molti, troppi, mancano, è il totale disinteresse nell’assecondare il bisogno di gratificazione immediata del pubblico, quello reale e quello virtuale quanto mefistofelico dei social. Sono anni in cui il pensiero dominante arruola tutto e tutti sotto la bandiera del politicamente corretto, del soggettivismo come presupposto per una società di individui soli e alienati, dell’acquiescenza verso un Paese dominato da poteri forti e pensieri deboli.

Le opere della Fini, via da ogni giustificazione a posteriori, sono intense, spesso grevi. Mi suscitano emozioni profonde, rimandano a tormenti e oscuri spazi. Impossibile restare indifferenti.

La sua intera produzione, dipinti o costumi che siano, è un cammino nell’inconscio, un affacciarsi su mondi sospesi tra sogno e realtà. Le sue figure femminili, un misto di potenza minacciosa e rassicurante presenza, paiono uscire da un universo parallelo, fatto di sensualità e insondabili misteri.

Il corpo è simbolo di trasformazione incerta, ambigua, immerso in un mondo privo di certezze. C’è un istrionismo evidente in tutte le sue opere, un aspetto drammatico come parte di chissà quale antico rituale sepolto nei secoli, di cui lei si presenta come sacerdotessa.

Sì, sono immagini le sue, ma trasmettono e coinvolgono stati d’animo, emozioni sotto pelle che mi interrogano su cosa sia la realtà oggi e quanto in essa giochi la mia presenza nel definirla; suggeriscono che in tutte le cose viva il loro contrario, che nella luce ci sia l’ombra e quanto la seconda ci appartenga.

Mostra bellissima, ricca di opere.













Chissà se coloro che si occupano di corpo e movimento, in particolare di corpo e movimento nel conflitto, nel “marziale”, vanno a confrontarsi con altre manifestazioni artistiche, si arricchiscono del rapporto “artistico” anche fuori del loro “orto” traendone momenti di riflessione sul loro fare di corpo. Anche se ne dubito, per quanto posso sapere direttamente da loro o leggendo le loro esternazioni in rete.

Mi auguro, però, che i praticanti Spirito Ribelle non siano altrettanto chiusi nel loro “orto”. Che esplorino il mondo tutto dell’arte. Che, mio parere sincero, non si lascino sfuggire la mostra di Leonor Fini.

Io sono Leonor Fini

Palazzo Reale. Milano

dal 26.02.2025 al 22.06.2025








 

 

 

 

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