Priva del punto interrogativo, questa frase campeggiava all’ingresso del campo di sterminio di Dachau.
Azzzzzzzzzzzzzzz……….
Tutti noi abbiamo sotto gli occhi il crescente divario tra la ricchezza di una elitè privilegiata ed il progressivo impoverimento della maggioranza degli italiani. Meno sotto gli occhi, ma basta poco per accorgersene, monta sempre più lo scontro “orizzontale”, quello tra ”poveri”: vecchie generazioni contro nuove generazioni, lavoratori dipendenti pubblici contro lavoratori dipendenti privati, lavoratori a contratto indeterminato contro lavoratori a contratto precario, lavoratori contro disoccupati, ecc. che ha sostituito quello “verticale”, indirizzato contro chi detiene il potere. (la vecchia lotta di classe, quella che, solo a nominarla, pare di essere veterocomunisti trinariciuti, vecchi residui di un tempo che fu; persone, insomma, un po’ nostalgiche ed un po’ fuori dal mondo. D’altronde, quando un componente del nostro attuale governo, 249.000 euro di reddito dichiarati, sostiene di non essere ricco…)
Divisioni laceranti, diseguaglianze vistose, incertezza quando non sconforto verso il futuro sono i sintomi di malattie in cui siamo calati, malattie che minano la convivenza civile e la stessa democrazia.
Se questo quadro mi pare ampiamente condivisibile … ecco, io ho qui intenzione di inserirvi alcuni schiaffi di pennellate, alcuni tratti di colore che mostrino nel quadro figure, ombre del tutto sommerse, fino, forse, a ripensare quel quadro in un modo del tutto diverso. Forse ad abbandonare quel quadro … ma, chi mi conosce lo sa, io sono un un eretico e frequenti nostalgie marxiane mi prendono.
Allora, senza farla troppo lunga, ecco le prime audaci pennellate.
Tutta la nostra vita la organizziamo ed altri ce la organizzano in funzione della riuscita a vendere il nostro lavoro. Una scuola che si vuole sempre più prossima alle competenze richieste sul luogo di lavoro senza alcuna attenzione verso la crescita, la formazione dello studente; risultati elettorali che, nella promessa di posti di lavoro, premiano non il politico, che di mestiere fa quello, ma chi, sceso in politica e però di mestiere fa “il datore di lavoro”, ovvero ha sfondato nella vita (vita = mercato del lavoro) è ritenuto più affidabile nelle sue promesse di posti di lavoro; corsi di aggiornamento proposti dal gestore e valutati dal cliente non in base ai contenuti ma ai crediti formativi che essi danno: crediti che, simili ai bollini del supermercato, permetteranno di ottenere il regalo finale ( l’orziera o il posto di lavoro); un governo di emergenza i cui componenti non sono stati scelti in base alle loro capacità di offrire il bell’essere all’individuo (1) bensì al loro essersi imposti sul mercato del lavoro nelle sue diverse sfaccettature o di essere teorici affermati di questioni inerenti il mercato del lavoro.
Insomma, tutta la nostra vita ruota attorno al mercato del lavoro, ad essere merce appetibile, facilmente collocabile sul mercato del lavoro. Quel che mi colpisce, ogni volta che, per la mia professione, conduco colloqui di lavoro è che Tizio, disoccupato, prima ancora che giustamente in crisi per la mancanza di sostentamento economico, lo è perché si sente inutile, non sa che fare, si considera un perdente, un emarginato ( potremmo dire un extra comunitaro (!?), ovvero uno fuori dalla comunità di chi lavora, che è l’unica comunità generalmente condivisa ) perché, da disoccupato, è fuori dal mercato del lavoro e perciò entra in depressione, entra in crisi di identità.
Del mercato del lavoro abbiamo fatto il nostro dio. E questo proprio in anni in cui esso viene a ridursi, in cui ce n’è sempre meno (2). Bella contraddizione, vero ? C’è sempre meno lavoro e noi siamo ben considerati, ben identificati, solo se siamo della collocabile merce lavoro.
Ecco che una delle principali condizioni per riconoscerci, per identificarci, diviene l’essere dentro o fuori il mercato del lavoro. L’essere buona o cattiva merce, l’essere capaci o meno di sconfiggere l’altro nella corsa a vendersi. Ecco una prima radice di conflitto, conflitto insanabile se accettiamo le premesse.
Scrive PG. Reggio nel suo “Il quarto sapere”: “Il ritorno a casa dell’esperienza è l’apprendimento, la comprensione”, ovvero apprendimenti da usarsi poi nel vivere d’ogni giorno, nelle relazioni quotidiane e nella propria quotidiana storia. Io che lavoro, che sono una buona merce lavoro, traggo esperienze da questo mio stato che riverso in modi di vivere quotidiani a cui tu, che non lavori, non hai accesso.
Quanto di conflitto insanabile, di steccato insormontabile, andiamo a costruire nel momento in cui accettiamo l’identificazione attraverso l’essere una merce lavoro ? Io sono io perché lavoro, tu sei altro da me, diverso da me perché non lavori e, in situazioni di scarsità di lavoro, questa mia identificazione mi fa osteggiare che anche tu entri nel mercato del lavoro ( e se il tuo ingresso espellesse me ?), mi fa temere un’identificazione che comprenda anche te. (3)
Tutto questo mentre gli individui difficilmente riconducibili allo stato di merce, sono, per legge di mercato ! ( non, dunque per una “una lotta di classe” del tutto assente, per una presa di coscienza che tolga il mercato del lavoro dal piedistallo in cui è ora ), sempre di più: disoccupati stritolati in uno stato di disoccupazione che il pensiero dominante fatica sempre più a tacere essere strutturale; migranti impossibilitati ad essere convertiti in merce, tuttalpiù ridotti a sotto merce, scambiati di nascosto e sotto prezzo nel “mercato nero”.
Ecco, questo non opporsi al mercato del lavoro come regolatore delle nostre vite, questo accettare la scarsità come misura e criterio del possibile ci porta nella direzione ben descritta da Enzo Spaltro: “se ho fiducia di essere soddisfatto io ho desiderio, se non ho questa fiducia ho bisogno (…) Il rinvio dei desideri e la loro inevitabile trasformazione in bisogno rappresenta un elemento di partenza per il ciclo conflittuale” (”Il significato della rivoluzione”).
“Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza”, scriveva Carlo Marx. Ma prendere per buona questa frase senza rompere il mefistofelico giocattolo del mercato del lavoro lo vedo impossibile. Allora, con intimo terrore, guardo la foto di Dachau e quella scritta che lì campeggia “Arbeit macht frei”: Il lavoro rende liberi.
1. “La ricchezza poi non è solo materiale, va intesa sempre più come benessere – soggettivo e come miglioramento della qualità della vita” E. Spaltro “Psicologia e Lavoro” Aprile – Giugno 2004.
“Se il benessere ce l’hanno in pochi mentre la stragrande maggioranza della popolazione permane in condizioni di malessere diffuso, lo sviluppo non avviene velocemente, anzi rallenta. Oggi è chiaro che finché alcune parti del pianeta soffrono la fame, le altre parti rallentano lo sviluppo. Se il benessere è diffuso ce n’è per tutti. Se è concentrato ce n’è per pochi” E. Spaltro “Psicologia e Lavoro” Luglio – Settembre 2005.
2. Nel bel libro di Robert Cialdini “Le armi della persuasione”, viene bene spiegato questo meccanismo. C’entra solo in parte, ma qui mi piace ricordare l’inkazzatura che presi nel leggere il trucco adottato dalle case produttrici di giocattoli per incrementare le loro vendite. Prima di Natale, la casa XW pubblicizza il gioco Y. Mio figlio lo inserisce nell’elenco dei giocattoli che chiede a Babbo Natakle ed io, diligente, giro per negozi a comperarlo. Giro infruttuosamente perché il giocattolo Y è esaurito, mentre abbondano i giocattoli Q, Z, R … Compero uno di questi e, sorpresa, subito dopo Natale il giocattolo Y ricompare in massa nei negozi. Che faccio ? Non lo compero perché a mio figlio ho già comperato Z ? Certo che caccio altri soldi per il malefico Y!!! Ai tempi, imprecavo contro la dabbenaggine di produttori e distributori. Poi, una dozzina di anni oro sono, lessi questo libro e capii. La casa XW pubblicizza ed ingolosisce con Y, diffondendone però pochi esemplari, mentre diffonde in massa i vari Q,Z.R, magari prodotti obsoleti, così il povero pirla (io) compera uno di questi, tanto poi, quando subito dopo Natale la casa XW inonderà i negozi del giocattolo Y, la casa produttrice sa che io andrò comperarlo !!
3. “ In contrasto con ‘comunità’, che generalmente indica una comunità di lavoro identitaria, chiusa (…) il termine comunanza (in mancanza d’altri) può essere impiegato per indicare una forma di socialità non basata sulla compra – vendita del lavoro, aperta all’alterità e libera dall’ossessione dell’identità.” A. Ponzoni, nell’intervento al Seminario: “Non di solo lavoro”.