"Salmoni
che risalgono?"
"Non
è triste? Risalgono fin qua su per poi andare a morire. Se sono destinati a
morire perché faticano tanto?"
"Loro
vogliono tornare nel posto dove sono nati."
Lo
so, succede sempre così. E’ come quando ti scappa da orinare e tu la trattieni
senza sforzo alcuno, poi, entri in casa, e ti sembra che se non corri subito in
bagno, sfondando la porta e buttando giù pantaloni e mutande con la stessa foga
che useresti per salvare tuo figlio dalle grinfie di un bruto, te la farai
“sotto”.
E’
così. Infatti, al secondo giorno di permanenza in quel di Bassano del Grappa,
crollo come un fantoccio, dormo per ore e ore di seguito, nemmeno mangio perché
il sistema nervoso, il “pilota automatico”, intravista la pausa, ha deciso
STOP, basta. Uno zombie.
La sera, però, riesco ad organizzare (grazie
Roberto !!) la visione di una pellicola di cui sono in caccia da tempo: Departures.
Storia
di un violoncellista che, perso il lavoro, diventa una persona che di mestiere
si occupa di comporre i morti, quello che comunemente è definito “tanato esteta”, un film del 2008,
regista Yojiro Takita.
Pellicola
struggente, delicata, commovente. Probabilmente solo un asiatico, in
particolare un giapponese, poteva dedicare, e in questo modo, un film al tema
della morte. Noi occidentali siamo più grossolani sul tema, più portati ad
evitarlo nel suo spessore profondo o a squalificarlo per farne una merce o un
oggetto di spettacolarizzazione mediocre e banale, laddove Heidegger e le sue
dissertazioni sono patrimonio di pochi.
Eppure,
nello stesso Giappone, la figura del tanato esteta è avversata dai più.
Probabile retaggio del concetto scintoista di Kegare ( traducibile con
sporcizia, profanazione), una sorta di condizione di impurità determinata dal
contatto con situazioni spiacevoli.
Dunque un film da leggere, per me, attraverso
diverse lenti.
Quella di infrangere il silenzio sulla convenzione
sociale più radicata e sacra, ovvero non parlare dei morti, arrivando a mettere
in scena la morte stessa. Autentico pugno in faccia per una società, la nostra,
in cui la morte è talmente quotidiana e spettacolizzata e data in pasto ai
media, da sembrare banale, soprattutto se riferita ad altri e non a noi. Per
non parlare dei videogiochi “sparatutto” lasciati in mano ai nostri figli, ai
quali passiamo l’idea che sangue e morte e sbudellamenti siano solo finzioni,
di più, istigandoli a prevalere sull’amichetto nel collezionare pedoni da
investire o persone da squartare o maciullare con seghe elettriche, bombe a
mano e coltellacci. Quegli stessi bambini che non hanno lo stomaco per reggere
una lieve ferita sul loro corpo o la vista di un coniglio spellato !!!
C’è questo filo che unisce l’arte, manuale e
“spirituale”, del suonare uno strumento e l’arte lieve, precisa e raffinata, di
comporre i morti. Come a dire che l’Arte, l’essere artista, si manifesta
ovunque ci sia un interprete all’altezza, altezza emotiva e sentimentale prima
ancora che tecnica.
C’è il processo di elaborazione della morte
del padre, il quale aveva abbandonato il protagonista quando lui era piccolo e
che si rivela nella ricomposizione finale del corpo del padre morto. Sorta di
ricongiunzione e riconciliazione, quanto di ammissione della debolezza umana,
come testimonia l’intreccio di storie minori anche loro intessute di abbandoni
traumatici.
C’è questo legame rappresentato dal dono
reciproco di un sasso; leggenda, favola che il padre gli ha narrato in tenera
età e che rimanda ai segnali muti, alle presenze forti anche quando è
l’assenza, l’allontanamento, a regnare nelle relazioni. Perché basta un segno,
un simbolo, a tenere vivi i sentimenti veri ed autentici, a reggere lo scorrere
degli anni, le fughe e le perdite di senso, financo i silenzi e le sparizioni.
C’è la mediocrità di una donna, la moglie,
che non regge la squalificazione sociale del lavoro del marito e lo abbandona.
Salvo poi tornare una volta che si accorge di essere incinta, ma pur sempre per
comandare al marito di lasciare il suo lavoro. Ci vorranno alcune scene
toccanti ed intense del film, ci vorrà il senso estetico e la profonda arte di
Daigo, il protagonista, per farla ricredere. Plateale esempio della mediocrità
dell’animo umano; di come sia cosi difficile, anche in una relazione di coppia,
dunque d’amore, praticare se non l’arte del dono, almeno il fare “un passo in
disparte” per il bene dell’altro, per il bene della coppia.
Soprattutto, per quanto mi riguarda, c’è un’ora e mezza di infinita poesia.
Ah,
per i più esigenti, la lavorazione del film è durata una decina d’anni, quelli necessari all’attore protagonista per
imparare a suonare il violoncello e per imparare il mestiere del tanato esteta.
Poi
c’è qualche attore che si vanta di essere andato in palestra o di essere stato
a dieta qualche mese per interpretare un film. Ma dai !!
"Grazie
di tutto. Ti raggiungerò!"