giovedì 28 luglio 2016

Il richiamo della spada


“Si sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto. Quando non è possibile vedere, almeno è possibile sapere”
(R. Daumal)

 

 

Sì, a volte succede che io mi perda, ma non mi sono ancora arenato definitivamente.
Forse perché so che desidero provare tanto, se non tutto; so che voglio vedere più lontano, tanto lontano da vedere persino dentro di me.
Magari a cammino sbandato, tra un confine mal disegnato ed un pugno di innocue certezze.

E mi chiedo, oggi, impugnando l’acciaio luccicante della mia “Lama Danzante”, quale sia il nodo che soffoca, il buco in cui precipitano gli allievi, quelli che abbandonano la pratica dell’acciaio, di Kenshindo, dopo fulminanti ed esplicite dichiarazioni d’amore.
E’ vero che una flessione, un abbandono tra i praticanti, è fatto fisiologico. Forse è anche un bene, perché si allontanano gli illusi, quelli qui portati dal mito del samurai invincibile o del maestro Jedi di rara saggezza.
Per quelli i quali arrivano a vivere la pratica come una costrizione, come un noioso ripetersi di gesti e riti, smettere è sicuramente un bene e forse, sottolineo forse, una enorme possibilità. Ovvero la possibilità, se ci riflettono su, di comprendere in quali altre noiose routine, in quali altre opprimenti gabbie, sono rinchiusi: in famiglia, col partner, al lavoro, e come sia possibile, anche lì, in quelle quotidiane gabbie subite e non più liberamente accettate ed amate, smettere, anche da lì andarsene.
Anche se, a ben ricordare, non mi sovviene nulla di tutto ciò, nessun successivo passo liberatorio, trasformatore, nei volti di spadaccini transitati e poi allontanatisi dalla Scuola.

Per quelli che hanno praticato non solo i primi mesi, ma hanno sudato e si sono spesi per anni, forse il nodo, il buco, è stata la ricerca di una impossibile assoluta perfezione tecnica che non facesse loro pesare l’arma in mano; il delirio di onnipotenza che vorrebbe finalmente la stuoia tranciata di netto e non invece la propria lama affondare pigramente nell’urto o, per contro, l’infantile ricerca di un materiale sempre più duro (!?) su cui potersi sfidare che tanto, tagliare o spaccare, per loro era la stessa cosa; il turbamento per il malessere, quella spazzatura interiore che la pratica dell’acciaio ogni volta portava in superficie, sapore amaro.

Sì, a volte succede che io mi perda, ma non mi sono ancora arenato definitivamente, come non si sono arenati ancora quelli che, con me, non smettono di impugnare acciaio.

Ancora una volta, è la vita che si pone in testa, a volte feroce come le immagini che si riflettono sul luccicare dell’acciaio, combattimenti d’autorità dichiarata, altre dolce come un sorriso di bimbo, innocenza socchiusa sul mondo.

L'uomo, sin dal suo primo impugnarla, ha fatto confluire sulla spada gravi significati che andavano ben oltre il suo utilizzo in combattimento. Essa, nel suo essere strumento di difesa e di offesa, è con ciò portatrice del dualismo tra il bene e il male, a seconda dell'uso che se ne fa. Da tali concetti, originarono il Codice Cavalleresco in Occidente ed il Bushido nipponico, entrambi come Codici d'onore.
La sua dualità racchiude il maschile e il femminile ed è da questa unione degli opposti che la spada trae la sua forza. La lama, nel suo luccicare, è come uno specchio in cui lo spadaccino può vedere riflessi i suoi pregi e le sue perversioni.
Stando alle tradizioni iniziatiche sia orientali che occidentali, il guerriero che impugni la spada è in grado di unire il fisico e lo spirituale, con ciò unendo l'essenza della spada a quella di se stesso in perfetto equilibrio. Solo armonizzare questi aspetti permette di definirsi autentico guerriero.

Nostalgia di antichi valori virili? Illusioni sciocche di chi non sa adeguarsi al presente? Mitizzazione di pratiche semplicemente volte ad uccidere e niente più?
Può darsi.
So, impugnando “Lama Danzante”, che fenderò senza collera e senza astio, che lascerò erompere dal mio animo le acque dell’angoscia e saprò incontrare l’ebrezza della vitalità.
Probabilmente, i rapporti, anche quello con noi stessi, deperiscono e avvizziscono fino a morire, non quando cessiamo di amare, ma quando, prima ancora, abbandoniamo ogni magia immaginativa e, con ciò, smettiamo di stupirci, di scoprire e scoprirci.
Allora, il senso forte di un katana, di un acciaio lucido e possente, tra le mani.

 
"...prima di pensare ad azioni esteriori, spesso dettate solo da momentanei entusiasmi, senza radici profonde, si dovrebbe pensare alla formazione di sé, all'azione su sé, contro tutto ciò che è informe, sfuggente o borghese."
(J. Evola)

  
 
 
 
 


lunedì 25 luglio 2016

Ogni volta la Fenice


Pranzo offerto da Stefano
per il suo passaggio a shodan – 1° dan
Battignana. Domenica 24 Luglio

 

Sotto il bel sole delle colline alessandrine, l’acqua della piscina davanti, la buona tavola ed il gruppo di artisti marziali ed amici. Che desiderare di più?

So che col tempo, tutto se ne va via, nel pozzo dell’oblio a dimenticarsi di volti, voci e gesti. Anche se il cuore, i cuori degli artisti ed il cuore della Scuola, batte ancora, forte è la tentazione, sempre, di non andare a cercare più in là, di lasciar stare come se andasse bene così.
Ma così non è, non è mai stato in questa Scuola, in questo clan di artisti eretici guerrieri.

E di periodi di travaglio, di transizione, in cui gli allievi si sono disorientati, fino a perdersi, fino ad andarsene sbattendo la porta, ne abbiamo attraversati tanti, nel passare dal karate Shotokan duro e rigido della scuola  Shirai a quello avvolgente della scuola Kanazawa, nell’abbandonare la certezza di uno stile codificato e riconosciuto per scavare nelle incerte origini del Kara – te di Okinawa al seguito del Maestro Tokitsu, nel tirare forte a contatto praticando quello che allora si chiamava “Contact”, nell’abbracciare un metodo flessuoso e potente come lo Yoseikan Budo del Maestro Mochizuki, nell’attraversare il Kenpo Taiki Ken del Maestro Yamazaki Ansai, e poi ancora …
Ogni passaggio, ogni guado, sono stati momenti di incontri serali, di lezione, spesso difficili, a volte noiosi, anche perché lo scotto del nuovo da innestare, del nuovo da imparare e masticare e digerire lo pagavano, in pedana, soprattutto gli allievi: io vedevo, avevo sufficiente comprensione di dove andare, ma erano loro le prime, innocenti ed incaute cavie, di questa nuova svolta, di questo nuovo viaggio che io, a mia volta, stavo imparando. Non posso non assumermi la responsabilità di lezioni e serate noiose, difficili, di allievi che non sono riuscito ad incuriosire, di allievi a cui non ho saputo chiedere la pazienza dell’attesa mentre pretendevano certezze.

Ma, entrare allo Z.N.K.R., praticare Arti Marziali rispettandone l’autentico spirito, di più, scegliere di accompagnare un eretico e stralunato ricercatore come me, mai sazio di certezze e sempre volto al dubbio, significa SEMPRE mettersi in gioco.    

Perché colui che ricerca il “sapere”, vive nel costante incomodo che affiora dall’accostare ciò che è e ciò che percepisce di dovere e potere essere. Il guerriero, ossia chi compone l’arte del confliggere, vive una costante trepidazione che è ignota a chi non ha assaporato il sapore della conoscenza e le sue infinite forme che sono trans – forme, che sono l’identificare il male, la sconfitta, con la fissità, perché egli sa che la sua vita è solo quella che ha vissuto.
Ciò che irrora il guerriero, ossia chi compone l’arte del confliggere, è l’esaltazione che origina dal senso di stupore che accompagna ogni sua scoperta, forte della consapevolezza per cui ogni evento esterno, dunque anche un cambio di rotta, di passo, di agire corpo, si sintonizza con la figura psicologica, fisicoemotiva, del momento: “La verità esterna è una verità interna”, scriveva Ernst Bernhard, pediatra, psicoterapeuta e studioso del pensiero asiatico.
Lo stupore, anche quando percorso da oscuri turbamenti, è un temporaneo stato di estasi, di coscienza espansa, nel momento in cui incontriamo un mistero e ne entriamo in contatto. Ed ogni nuovo stupore origina quella inquietudine che è ricercare, aspirare ad un nuovo stupore: ogni porta aperta su una stanza, ci mostra mille e mille porte verso altre stanze.

So che col tempo, tutto se ne va via, anche i ricordi più cari, anche i volti a cui più ti sei affezionato, eppure mi spiace per chi non è rimasto a lottare per un sapere diverso, che il tempo, i raffronti, ha ogni volta mostrato più forte, più efficace.
Forse, non a tutti è dato stupirsi, come io non ho sapientemente aiutato tutti a sapersi stupire.

Stupirsi, lasciare le certezze per coltivare dubbi, è una pratica che tanto devasta e demolisce quanto esalta edapre verso nuove conquiste; sorta di Fenice condannata all’eterna resurrezione, di potere in grado di ribaltare i punti di vista e lasciar intuire soluzioni impensate, vitalità nascoste ed energie profonde laddove altri non vedono che il nulla, la superficie, o poco più.

Allora, guardo questa tavolata di guerrieri, compositori dell’arte del confliggere, e mi compiaccio di loro o almeno di quelli che tra di loro mi sono accanto ogni giorno, nel percorso, nell’arte dello stupirsi, e non escludo, chissà, con l’arrivo in Dojo di nuovi aspiranti ricercatori, di rivedere in pedana qualche volto, qualche sguardo già visto che abbia in sé, nuovamente, il seme dello stupore.

 

“Quando guardo una montagna, aspetto sempre che si converta in vulcano”
(Anonimo)










venerdì 22 luglio 2016

Cena sociale Luglio 2016


Le ombre della sera, a spalmare di nero i contorni di una veranda, di una tavolata, che spicca decisa e chiassosa.
Le mie gambe hanno percorso tanta strada, le mie mani hanno toccato tanti volti, i miei occhi hanno incontrato tanti occhi e tutto questo è rappresentato qui, in questa tavolata.

Perché il mondo Z.N.K.R. è dove ho visto tutti costoro e quelli, a decine e decine, che ci sono passati prima.
Perché il mondo Z.N.K.R. è parte importante della mia vita, che si è mischiata e mischiata ancora con la vita tua e di chi c’è stato prima.

Nastro lungo quasi quarant’anni che si fa beffe di ogni logica, piantando in una metropoli dal gusto così “trendy & cool” un clan dal sapore antico; dalle pratiche di lotta che attingono ad un medioevo lontano nel tempo e nella geografia; dalle relazioni improntate ad una maschia e virile sincerità che non disdegna lo scontro, il diverbio perché sa che la pace, quella vera, nasce dal sapere gestire i conflitti, non nel negarli, dalle diversità accettate anche quando queste significhino prendere la porta ed andar via. Tanto la porta resterà sempre aperta.  

Onda anomala, in un piatto stagno di mediocrità e conformismo. Onda che solleva e trascina ed invade e non si ferma mai.

Luogo dove chi entra, nel farsi guerriero, sa che per essere coerente con se stesso, avrà da rompere ogni schema mentale che lo rinchiuda nell’ovvio e nello scontato; sa che agli occhi altrui apparirà incoerente e folle perché non allineato al buon senso comune; sa che chi lo conosceva prima stenterà a ri – conoscerlo, ad accettarne il cambiamento e questa sarà la prova più dura, quella su cui molti sono caduti per non rialzarsi più, soprattutto quando sei tu stesso  a faticare a ri-conoscerti.

Artisti capaci di stare in equilibrio sopra burroni scoscesi di Ombre minacciose; di scorrere lungo l’intensità del contatto fisico accogliendo a piene mani l’efflusso delle mozioni; creatori e dispensatori di una fervida produzione immaginativa.

E le voci, in questa serata di festa, si sovrappongono, il buon vino scorre.
Se ci fosse un dio serpente a divorare le stelle, ad ingoiare la luna, avrebbe le fattezze di una bestia senza pancia né grida. Ma le stelle illuminano la notte, la luna resta appesa ad un filo invisibile. Perché nessun dio serpente c’è ad annientare quanto siamo e quanto siamo stati. Nessun oblio sarà così forte da sradicare memoria ed esperienza.

Qui, una ventina attorno ad un tavolo, ma decine e centinaia sparsi ovunque a raccontare, ognuno a suo modo, chi poco e chi tanto, cosa è, cosa è stato, vivere Z.N.K.R.
Che la festa continui !!

 

“Ogni bambino è un artista. Il problema è come rimanere un artista una volta che si cresca”
(Pablo Picasso)




domenica 17 luglio 2016

Lonely Nights


Sabato 16 Luglio
Concerto d’arpa e non solo, con tema la prevenzione del suicidio

 

A volte ho ancora paura del cammino. So che voglio vedere, voglio conoscere gli angoli più oscuri di me stesso. E forse tutto andrà bene là, dove il vento freddo mi porterà. Oppure no.
Ancora a una volta, e i ricordi di un cammino che non fu in solitario si fanno sempre più sbiaditi, lontani come sono nel tempo, sono solo, passo dopo passo.
Il mio sguardo vulnerabile va alla luna, pallida e distante, a cui mi rivolgo ogni notte che il peso della ricerca, del cammino, della voce fuori dal coro, diventa pietra sulle mie spalle. Notte del mio scontento, tu sei una faccia di purezza bianca che si staglia tremula sul contorno altrimenti nero dei palazzi e dell’imbroglio delle strade dove uomini e donne trattengono a stento la loro dignità, tentati dal barattarla per un piacere, un vizio, una punta di potere o di effimera notorietà.
Niente può fermare il tempo e la traiettoria del viaggio, che sia di corsa o di passo stanco.
Se anche avessero deciso di farti il vuoto attorno, di allontanarti dal consesso sociale, forse per le parole forti, forse per quelle pratiche che denunciano il dolore, quello vero, forse per le acide correnti notturne che ti agitano nel sonno, costoro non vedono oltre la tua presunta fragilità, non sanno scorgere la tua dolce forza.

... sono nato con un cuore d'acciaio
E’ questo che penso, che sento dentro.
Che ogni ricercatore, ogni eretico, ogni guerriero di pace, famoso o no che sia, è un solitario.

Saranno le note, a volte lamentose a volte violente, dell’arpa, sguardo di donna dalle forme suadenti sul pubblico, in questa “Lonely Nights”: notte di musica e riflessione scavata dentro il dramma dei suicidi.
Saranno questi suoni antichi, a volte piegati al ritmo moderno del rock metallico.
Saranno loro, a portare l’odore acre di questi anni morti, a incontrare una moltitudine di destini che, se poi uno sparisce, si perde, chi se ne accorge?
Non è per niente facile condividere, con la musica, queste “Lonely Nights”, notte e note nere dedicate alla prevenzione del suicidio. Sempre che un suicidio si possa davvero prevenire.

... devi alzarti, trasformare i tuoi errori in oro
Chissà cosa ha spinto questo pubblico eterogeneo a venire qui. Soprattutto, chissà come sta, cosa prova questo pubblico eterogeneo affacciato sull’anfiteatro della “Casa della Musica”, in Cesano Boscone.
Chissà se qualcuno di loro ha incrociato gli uomini e le donne consumati e scavati e condotti via, senza ritorno, da una storia personale di fragilità e dissenso; quante illusioni schiantate contro le fauci di una vita cannibale e le scelte errate non fatte ma da cui si è stati fatti.

C’è ancora speranza, ci deve essere speranza, dicono con sufficienza gli intellettuali che si addormentano nelle loro case perfette senza essersi mai nemmeno sbucciati la pelle nella follia della lotta.
Io, invece, note dolci e violente di arpa tutt’intorno, affermo che c’è la determinazione, l’istinto dello scontro e dell’acciaio, la bellezza tenera di ogni sentimento romantico, di ogni emozione fragile che nella fragilità si celano radici di sensibilità e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, unici a consentirci di comprendere e condividere gli stati d’animo e i modi di essere esistenziali degli altri da noi.
Forza, acciaio e tenera fragilità, profonda vulnerabilità. Questi sono per me gli ingredienti della pozione magica in grado di sostenere il mal di vivere, quel veleno corrosivo che ti entra dentro e lentamente ti fa perdere e scomparire fino a varcare la soglia ultima del suicidio; gli ingredienti che, pur nella solitudine, ti fanno comunque sentire che c’è un mondo da vivere attorno.

Certo, alla conoscenza della propria forza e della propria fragilità, indissolubile mistura che, come nel vortice del TAO, sempre gira, si mischia, caffè e latte che, una volta cappuccino, niente e nessuno potrà mai separare, rimandare all’origine, non si giunge se non camminando sui sentieri che portano alla nostra interiorità. Sentieri, un percorso, che costa fatica seguire, perché ci sbattono in faccia le nostre emozioni e le nostre sensibilità e quelle angosce dalle quali sarebbe più comodo fuggire ignorandole e vivendo come se non fossero in noi.
Invece ci sono e sono noi.

Allungo la mano dentro la mano di Monica, che ha accettato di accompagnarmi in questa insolita notte.
A volte, la solitudine pesa meno se hai qualcuno accanto. A volte, è più facile non perdersi se hai qualcuno accanto, anche solo per uno dei mille minuti del tuo vivere.

 



mercoledì 13 luglio 2016

Fermo. L’elogio dell’ipocrisia


“Quando la maggior parte di una società è stupida, allora la prevalenza del cretino diventa dominante ed inguaribile”.
(Fruttero e Lucentini)

 

Come non essere d’accordo sull’esecrare l’insulto razzista?
Come non guardare con un certo disagio l’ignoranza razzista?
Come non prendere le distanze da chi è razzista?

by rae marshall
Però…mentre personalmente condanno quell’individuo, di poca cultura e pochi mezzi economici, che ha dato il via ai tragici fatti di Fermo, mi chiedo perché ben pochi si siano chiesti da dove nasca tanta violenta acredine razzista. Ovvero, da dove nasca la percezione di essere in difficoltà davanti ad una presunta invasione di extracomunitari, di essere come “sotto assedio”.

Di più, mi chiedo perché nessuno abbia denunciato, col razzismo dettato da ignoranza e povertà, anche quel razzismo in giacca e cravatta, o anche tailleur, che ha dato il “via”, che sta alle origini del razzismo della povera gente.
Perché nessuno scoperchi le carte degli sporchi affari che l’ENI, sin dal 1962, ha perpetrato in Nigeria ( toh, del tutto – o forse no?! - casualmente la terra d’origine del morto di Fermo), distruggendo un intero paese ed affamandone la popolazione.

A ma pare proprio una forma di “razzismo” andare in terra d’Africa ed impoverirne cultura ed economia per i propri profitti.

Allora, se ci fosse, ma è solo una mia fantasia, un tipo “per bene” in giacca e cravatta, ma anche in tailleur, che va sciorinando discorsi e prediche contro il razzismo, accusando gli italiani di essere razzisti, io quel tipo “per bene” non lo starei ad ascoltare.
Non lo starei ad ascoltare
by pourin
- se, ed è solo una mia fantasia, avesse avuto un nonno presidente di quella stessa ENI e proprio negli anni in-cui essa avviò la sua avventura in Nigeria (costituisce un’aggravante, ma solo per me, che quel nonno sia stato messo lì perché amico intimo di tal Mattei, di cui si sa la nota preferenza data ad assumere amici e conterranei, tanto che l’acronimo di una delle società da lui controllate, la Snam -Società Nazionale Metadonotti- veniva così parodiato in Siamo Nati A Matelica, visto il numero dei dipendenti marchigiani; che quel nonno sia stato una personalità di spicco della Democraza Cristiana *).
- se, questo tipo “per bene” in giacca e cravatta, ma anche tailleur, avesse costruito la sua rapida, rapidissima carriera, sui potentati economici di un’azienda “razzista”, potendosi permettere viaggi in tutto il mondo, una laurea presa con soli sei mesi di studio all’anno, un prestigioso e ben remunerato lavoro dopo l’altro.

Ecco, non celo la mia distanza, la mia antipatia per qualsiasi rozzo razzista. Ma quanto odio, odio ferocemente, chi, di suo o di famiglia e senza mai prenderne le distanze, di quel razzismo è figlio e ne ha tratto vantaggio. Anche se ora, in giacca e cravatta, ma anche tailleur, finge di dimenticarsene e predica accoglienza ed amore fustigando duramente chi da segni di razzismo **.

Gran brutta società, gran stupida collettività, quella che non condanni ogni forma di razzismo. E’ che, però, solo la “forma” più sempliciotta, debole ed ignorante, sta nel mirino. “Lor signori”, in giacca e cravatta, ma anche in tailleur, quelli che ne sono stati o ne sono la fonte, restano splendidi intoccabili e fanno pure i maestrini !!

 
"Quando vedo sbarcare questi con 'sti fisici, capisco che l'Europa non ha capito niente della situazione in Africa.
Ci sono milioni di persone che non riuscirebbero ad affrontare una passeggiata di cento metri, tanto sono malridotti, figuriamoci una traversata. Senza contare che col costo di un imbarco, ci vivrebbero in mille per un mese.
Stiamo facendo ponti d'oro a gente che non lo merita, quando basterebbe investire una metà di ciò che si spende all'anno per sistemare questi trecentomila, per salvarne milioni in Africa. Ma capisco che certe realtà è meglio non vederle, soprattutto perché non fanno comodo agli interessi politici ed economici di nessuno".
(Giobbe Covatta, testimonial Amref -https://www.amref.it/)

 

 (*) La Democrazia Cristiana è quella, partiamo dagli anni ’40 e risaliamo per oltre mezzo secolo, degli scandali di don Cippico, che riciclava valuta attraverso i canali del Vaticano; di Giuffré "banchiere di Dio", che incamerava miliardi per le "opere di religione"; della casata dei Torlonia, che vendeva le "zolle d'oro" di Fiumicino; dei profittatori di Stato come il senatore e ministro Trabucchi, quello delle banane e poi del tabacco messicano; dei  "grandi elemosinieri", Valerio e Cazzaniga, i quali, dal giro internazionale del petrolio, gonfiarono tangenti per i partiti al governo; degli sportelli bancari dei santuari del capitale, custoditi da Arcaini e Ventriglia, fiduciari di ferro della DC; dei “baroni ladri” delle commesse militari, ovvero  i fratelli Levebvre e Camillo Crociani, per non parlare di Andreotti, condannato in corte d’appello e in cassazione per “associazione a delinquere”, ovvero per essere stato uomo di “cosa nostra”. Ma l’elenco di democristiani  condannati per reati gravi, è lunghissimo, comprendendo, tra gli altri  Gianstefano Frigerio, corruzione; Arnaldo Forlani, finanziamento illecito; Alfredo Vito, reati contro la Pubblica amministrazione; Paolo Cirino Pomicino, finanziamento illecito ai partiti e fondi neri Eni e con questa ennesima citazione Eni chiudo l’elenco che è sterminato.
Secondo alcuni, l’unico merito della DC è stato fare da baluardo ad una possibile presa di potere del PCI. Se anche fosse, il prezzo pagato è stato alto, altissimo e inquietante.

 

(**) E se la signora “per bene”, frutto della mia fantasia, si trovasse, non a Ciudad Juarez in Messico o a Cape Town in Sudafrica, ma semplicemente a Milano, alle 22.00, sola, a passare per piazzale Gabrio Rosa o a prendere un treno alla stazione di Porta Genova? Ah già, ma alla signora “per bene” questo non è successo e non succederà mai. Lei continuerà la sua vita agiata e preziosa mischiandosi con il “volgo” solo, e ben protetta, in occasioni in cui possa far calare dall’alto la sua superiorità ed il suo giudizio.



 

lunedì 11 luglio 2016

L’acciaio del guerriero di pace


Seminario Kenshindo 9 Luglio 2016
Agriturismo “Il Bivacco”

 

 
 “…le Eresie virili per così dire, si ritrovano a dover riconquistare la loro specificità, minacciata dall’egualitarismo spinto e dalle logiche di mercato che sulla massificazione fondano il loro dominio”
(in “Polemos vol. II”)

 

 
Scriveva Andrea Venanzoni, che l'uomo, da secoli, indirizza gran parte della sua energia per trincerarsi dietro quelle che Carlo Marx chiamava “sovrastrutture” (uberbau) ovvero, in linguaggio semplice: “comode bugie”, solo per coprire la sua vera natura di bestia, legata ad istinti primordiali e naturali. Questa ipocrita negazione, è esponenzialmente aumentata col passare del tempo e con i progressi della civilizzazione.
L'uomo moderno, per negare, ricorre a bugie sempre più contorte. Viviamo in un mondo in cui da un lato si predicano amore, pace, fratellanza, accoglienza e poi, dall'altro, ci si crogiola, solleticando i peggiori appetiti, guardando in TV il plastico di Cogne o l'ennesimo dettagliato servizio sul delitto di Yara Gambirasio, (siamo a quello che Andrea Venanzoni chiama “cortocircuito pornografico”). Dall’altro, lasciamo che i governi, anche in barba alla Costituzione, esportino ovunque guerre e massacri foderandoli di bugie colossali travestite da dotte e generose teorie sull’esportare la democrazia, girando sguardo ed orecchie al sentire dei danni provocati da “bombe intelligenti” o delle colossali ruberie con le quali i “nostri” business men spogliano e depauperano intere nazioni (vedi l’ENI in Nigeria) innescando così bibliche migrazioni di popolazioni affamate ed incazzate verso le nostre coste.

E, allora, che ci facciamo noi, individui del terzo millennio, con il lungo acciaio del katana in pugno?Sorta di generosa pratica guerriera che orienta la lama verso la regione possente che vive, magari sopita ma mai del tutto scomparsa, nel mondo interiore di ognuno di noi, per ridestarne il fuoco e il sapere ancora possibile, ancora risvegliabile, attraverso la disciplina, il combattimento, lo sguardo di un uomo che ingaggia lo sguardo di un altro.
Là dove, nello sfoderare l’arma letale, nel sibilarne l’acciaio a pochi centimetri dal collo del compagno o nel soddisfarne la fame assassina tranciando di netto stuoie e bambù, si compie il rito vero, autentico, feroce, del cacciare se stesso.

Sorta di guerrieri a sangue freddo, che esplorano e portano alla superficie lo stato naturale dell’essere umano, scandalizzando gli inetti pacifisti quanto i praticanti delle spade di latta perché sbattono un’immagine adulta e coraggiosa in faccia a una cultura e ad una collettività in cui i modelli dominanti sono deboli perbenisti, anomalie gender, conformismo di massa e trasgressioni di massa, mondi e pratiche virtuali.

Da troppo fastidio questo mio parlare di loro come di criminali per bene?
Disturba questo mio disprezzo verso le parole di amore universale e new age come se i giacobini della violenza, perché senza ghigliottina, non siano tali?

E noi, noi pochi, pochissimi, siamo qua, in uno spiazzo d’erba nelle campagne pavesi, a tirar d’acciaio, lustro e affilato.
Siamo chi siamo, maschi e femmine, che la Via della conoscenza e della trasformazione non fa distinzioni; la pratica del confliggere, del combattere, non subordina, non discrimina, solo chiede a maschi e femmine il coraggio umile di penetrarsi fino in fondo, mentre tranciamo stuoie e bambù e maschere di cartapesta indossate ogni dì.
Siamo arrivati qui come eravamo, ognuno con la sua canzone, triste o sfacciata, noiosa o divertita, a volte così uguale alla mediocrità mondana a volte così diversa da far quasi tenerezza.

Io, che pure sono il Sensei, il “nato prima”, la guida di questi uomini e di queste donne che da anni mi accompagnano, cercatori a loro volta, a loro volta cacciatori di sé, di tutte le strade possibili non so quale sia quella giusta, sempre che una sola sia la giusta. Nemmeno so di incroci e svolte, che troppi sono gli ostacoli lungo il cammino.

Il viaggio di un guerriero, di un cercatore, non è l'illusione di attimi pericolosi sulle coste del nord Africa, dove mitragliatrici e filo spinato tutelano la quiete delle ville e dei bagnanti; non è lo stordirsi di binge drinking  come omologazione al resto del gruppo; non è l’ossessivo e compulsivo ritmare di pollici sulla tastiera di un computer o sulla console della play station; non è il corso di sopravvivenza o le iperboli narrate sui forum di Arti Marziali; non è fuga né sfogatoio né pretesa di onnipotenza.
Il viaggio del guerriero, del cercatore, è la gioia del tempo, è direzione che non prevede sosta, è solitudine nel gruppo.

Così, io non so mai, finito lo scivolare dell’acciaio, il suo incontrare l’Ombra di ognuno, che succederà dopo. Perché ogni guerriero, ogni cercatore dello Z.N.K.R. non porta il katana al fianco per divertimento, prestazione o tornare a casa contento.
Lo fa perché, per alcune ore o per tutta la vita, ha scelto di essere vento, che nessuno può comprare, nemmeno l’uberbau, le balle che ci raccontiamo per tacere di noi e del nostro spirito predatorio, nemmeno il pacifismo di maniera che parcheggia l’auto sulle strisce pedonali e gongola curioso nel fermarsi a vedere il sangue dell’incidente stradale buttando anche un occhio alle cosce nude della ragazzina che corre lì accanto, nemmeno lo spirito vigliacco di chi scappa davanti al pericolo e “chi se ne frega” se altri ci muoiono dentro.
Lo fa e basta, che sa di vivere.

 “Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso.”
(E. Che Guevara)

 









mercoledì 6 luglio 2016

Di corpo in corpo


“… la sfera cognitiva si sviluppa per astrazione dal sensomotorio ed è illusorio pretendere di sviluppare le capacità mentali senza ancorarle solidamente al vissuto corporeo”
(V. Bellia)

 

Ho già più volte scritto criticando e sbugiardando apertamente l’impostazione ginnica, sportiva, che intende il corpo come una “macchina”; impostazione priva di ogni conoscenza e consapevolezza che, invece, il gesto, l’agire, investono identità e area fisicoemotiva di ciascuno.
Dunque, di questi “parvenu” che imperversano anche nel mondo delle Arti Marziali e dintorni, non intendo più occuparmi.
Qui voglio occuparmi di noi, del nostro fare ed agire corpo, scrivendo alcune righe su come noi intendiamo il corpo stesso.

by SparklingSlushie
Il primo elemento che incontriamo, che è “noi” nel contatto con noi stessi come con gli altri è la pelle.
Elemento fondamentale perché … senza il “confine” pelle non avremmo forma, la quale lascia la propria traccia quale elemento distintivo di confine di sé. Essa è il rapporto immediato tra il nostro dentro e ciò che vi è fuori. Ci basti riflettere sul fatto che tutti i vissuti dall’origine lo sono sulla pelle, che tutto accoglie senza cancellare, infatti la pelle in primis, noi ancora nel ventre materno, era un insieme intersensoriale con pori che si impregnavano di rumori chimico-emozionali e vibrazioni sonore: “memorie autoplastiche” secondo il pensiero della Globalità dei Linguaggi, vera e propria immersione sonoro vibrazionale che è stata il nostro primo sistema di comunicazione.
La pelle, proprio perché organo più ampio del corpo umano, entra in contatto ricevendo ed emanando sensazioni, dialogando tra accettazione e repulsione, così in essa si sedimentano tutte le emos-azioni vissute sin dalla vita intrauterina e per tutto il corso della nostra vita, in una danza senza sosta in cui ogni aderenza suscita memorie sinestetiche e sistemi simbolici.
Nella pratica marziale, fare i conti con la pelle è gradino fondante di ogni progresso, così come la capacità di stare nel contatto di pelle, che è contatto di emozioni, con l’altro.

Sotto la pelle, tra gli altri, troviamo il sistema muscolare, quello che alcuni (V. Bellia) chiamano  l’io posso”. Ovvero ciò che sostiene il manifestarsi, il protendersi verso o contro qualcuno o qualcosa.
Qui, la nostra pratica, si affida alla muscolatura profonda, in particolare alle concatenazioni mio-fasciali
(Struyf, Mezìeres e Busquet), le quali connettono l’intero organismo.
Chi ne sa di più, ha poi strutturato una rete in cui precise tipologie trovano corrispondenza nell’edificarsi di un certo tono posturale e dunque sono manifestazioni della nostra storia personale, oltreché essere collegate a fondamentali schemi di movimento che sono anche modalità di presenza. Questo, fino a costruire un rapporto diretto tra le principali cinque catene e la teoria cinese dei cinque elementi: Ma tale livello di sapere e pratica è troppo avanti per le mie di conoscenze !!
Noi ci accontentiamo di lavorare a partire dalla muscolatura profonda, ossia centrale al corpo umano, considerando quella superficiale il momento finale di ogni azione. Ovvero, non ci importa, anzi, consideriamo controproducente, la sola attenzione al fare del braccio quanto l’ispessimento dei muscoli flessori ed estensori del braccio, perché sollevare quel braccio comprende cercare dei punti di ancoraggio nel corpo, stabilizzare il torace e il bacino, prendere forza dal pavimento, come efficacemente ha mostrato il Maestro Aleksandar Trickovic ad uno dei suoi seminari Tai Chi Chuan. O, per dirla con il neurofisiologo Charles Scott Sherrington, quella “melodia cinetica” che affonda su una specifica e costante disposizione tonica, che del gesto è la tessitura di fondo, perché ogni azione si regge sulla postura.
D’altronde, già cinquant’anni fa Moshe Feldenrkrais scriveva “Più un muscolo è vicino al centro, più grande è la massa spostata dalla sua azione” (“Judo per cinture nere”, introduzione).
Dunque massima attenzione e “formazione” al “motore” centrale, anche se non visibile, piuttosto che dedicarsi all’ipertrofia così ambita ed amata dai nostrani espositori di carne !! (*)

Prima di affrontare la postura, due cenni al sistema articolare, a quello organico ed alle ossa.

Le articolazioni (nel corpo umano se ne contano circa 360) sono il legame tra le parti, l’inclusione di una parte in un insieme armonico. Nel loro insieme, il compito delle articolazioni è di tenere uniti i vari segmenti ossei, in modo tale che lo scheletro possa espletare la sua funzione di sostegno, mobilità e protezione.

Il sistema organico ha un rapporto funzionale prima di tutto con i bisogni di base - nutrirsi, evacuare, recuperare - e subito dopo con qualità come la passionalità, la consapevolezza dell’immediatezza, la sensualità in senso lato, la rotondità, il volume, l'energia. Con esso siamo presenti all’apparato energetico, non governabile anche se passibile di “formazione” (e non di ”allenamento” !!), fondamenta della vita emozionale. Dunque, un sistema essenziale, fondante la vitalità di ogni agire, figuriamo una pratica di lotta e scontro !!

Le ossa, sono ciò che è solido, su cui ci si può sostenere, che indica le direzioni al corpo, ovvero la sua spazializzazione, poi sono anche conduttori di vibrazioni, quindi “il supporto di una sensazione unificata di sé” (“Se la cura è una danza” di V. Bellia).
L’intelaiatura ossea è quella che consente l’incontro con il carapace muscolare. Particolarmente utile, per gestire il muoversi nello spazio, mi fu l’immagine suggerita dal Maestro Tokitsu, di “vedersi” scheletro agire.
by D-k-S

Sintetizzando al massimo, possiamo scrivere che postura è la posizione del corpo e delle sue parti in rapporto alla gravità e all’ambiente.
La postura è un concetto dinamico che si esplica sui tre assi dello spazio nei passaggi dalle varie stazioni: in piedi, seduta e distesa.
Varie sono le qualità che contribuiscono a formare una postura efficiente e funzionale: neurofisiologici, biomeccanici, psicologici, emotivi e relazionali.  L’atteggiamento posturale che una persona prende non è un fatto semplicemente meccanico, ma è anche un significante espressivo delle sue motivazioni e del suo modo di porsi di fronte agli altri e nell’ambiente.
Le relazioni tra personalità e postura chiedono quindi un approccio globale, in grado di amalgamare la componente biomeccanica con quella neuromotoria e psicomotoria.

Semplificando, possiamo elencare tre fattori interdipendenti che condizionano la postura:

 -  quello neuromuscolare: la struttura genetica, l’uso del corpo nella vita quotidiana e nell’attività professionale, l’efficienza muscolo-scheletrica, l’equilibrio;

-  quello emotivo: il grado di soddisfazione / insoddisfazione della propria vita personale;

-  quello biochimico e viscerale.

E qui, con la postura, si riapre un mondo, non fosse altro perché, come scritto più volte,

ogni individuo agisce secondo l’immagine che ha di sé.

Immagine corporea, ovvero contorni, rapporti spaziali tra gli arti, senso cinestetico, ma anche immagine che comprenda sentimenti e pensieri.
Un insieme indivisibile che conferma la necessità di una “formazione” complessa e complessiva. Non a caso, piccolo esempio nostrano, noi non insegniamo un movimento (una tecnica), ovvero a sostituire un’azione con un’altra, quanto miriamo a suscitare nel praticante (metodo maieutico) un efficace ed efficiente modo d’agire, cioè “operiamo sulla dinamica e sul processo dell’attività in generale” (“L’espressione corporea” M. Feldenkrais).

 

“Abbiamo bisogno di pensare con sensazioni nei nostri muscoli”
(Albert Einstein)

 
(*) Nooo, la “tartaruga”, gli addominali scolpiti noooooooooooo. Per chi volesse leggere di un approccio diverso, ancorché ancora soft, in un testo di facile lettura: “Addominali. Fermiamo il massacro” di B. de Gasquet, medico-chirurgo e insegnante di yoga.
Chi, invece, magari più che incuriosito da questa mia ormai quasi ventennale battaglia contro la superficialità ginnica, volesse leggere qualcosa di più “profondo”, può orientarsi sui datati ma sempre ottimi
Pensare col corpo” di Tolja e Speciani (ne è recentemente uscita una nuova edizione, arricchita ed ampliata)
Anatomia esperienziale” di A. Olsen
Il manuale del mezierista” vol. 1 e 2 di G.D. Struyf
O applicandosi alla lettura dei volumi di Moshe Feldenkrais.
Meglio ancora … praticare, cimentandosi col metodo Feldenkrais, la Danza Sensibile ecc ecc





venerdì 1 luglio 2016

Sono un cattivo venditore


La difficoltà non sta nel credere nelle idee nuove, ma nel fuggire da quelle vecchie, le
quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano
in tutti gli angoli della mente”
(J. M. Keynes)

 
Fuggo, mi allontano sempre. Ogniqualvolta il curioso di turno mi chiede “Tu fai Arti Marziali?” io mi prodigo in un evitamento degno del miglior paziente fobico, del più spericolato escapista alla Houdini.
So già, pur privo della preveggenza, che alla parola “Arti Marziali”, il tipo associa
- il muscolato scazzottatore tutto macho man, pesi e sguardo truce;
- l’efebico intellettuale che si nutre di energia e calma interiore ad ogni gesto che fa;
- il (finto) militare in mimetica che ti insegna ad essere invincibile, sconfiggendo torme di avidi aggressori;

L’una o l’altra figura scelta dipende o dal tipo di carenza psicoemotiva che il tipo si porta appresso e che cerca disperatamente di compensare calandosi nei panni di un altro, o più semplicemente dall’avere un amico, un cugino, un conoscente (sempre più spesso, ultimamente, un insegnante, una cintura nera, un presunto ex paracadutista o ex assaltatore esperto di difesa da tutto e di più, quasi mai un semplice praticante: sarà che Arti Marziali & co. sono sulla piazza ormai da anni e gli “esperti” sono necessariamente aumentati, o semplicemente che “esperti”, ora, lo si diventa in un pugno d’anni o con un lieve sovrapprezzo …) che pratica Judo, Karate, Tai Chi Chuan, Krav Maga, Kali, Kudo, Kick Boxing ecc. tanto “tutto fa brodo”.

Lo so, nel far ciò, mi rendo poco disponibile, ma in questi anni dove ogni insegnamento profondo che tocchi il cuore dell’Arte e di chi vi si avvicina è stato, alchimia per bimbi minkia, ridotto ad un pastone per pecorelle o leoni codardi come il personaggio di “Il mago di OZ” prima del suo avvento nelle terre del Sud, non me la sento di impiegare tempo ed energia a spazzar via ogni illusione superficiale per accompagnare, anche solo a parole, il curioso di turno nella forza potente e trasformatrice che è propria di ogni pratica marziale autentica, quella che io, noi, abbiamo abbracciato.

Che si tratti di illusioni di potere e autorevolezza condensate colpendosi a vicenda con chi poi sarà il tuo compagno di doccia o di scampagnate nell’esoterismo di massa o di gite furbastre in battaglie e scontri mortali con uno specchio e guai a romperlo che sono sette anni di disgrazie, che c’entra tutto ciò con quanto vado proponendo io: dalle radici guerriere di ogni Arte di lotta per giungere alla consapevolezza fisicoemotiva, percettiva, studiata attraverso l’azione conflittuale?

Beninteso, “Liberi tutti”, come si diceva una volta giocando per strada.
Liberi di scegliere lo sfogatoio di una palestra di cazzotti, che ha certamente la stessa dignità di “sfogatoio” dello shopping compulsivo, di una settimana sulla neve, di una solenne sbronza, di un’urlata al compagno d’ufficio, di una tinta ai capelli, ecc.
Liberi di scegliere sottili fenomeni energetici definendoli con gli attributi della massa, di assegnare per dogma ad una figura del Tai Chi Chuan o dello Yoga o del Chi Kung l’attivazione di quello specifico centro energetico (quando nella sala della palestra accanto, con altrettanta convinzione ed autorità magistrale, a quella figura se ne attribuisce uno diverso!!)
Liberi di credere ai risultati di invincibilità che chiunque può raggiungere, purché paghi regolarmente la quota mensile.

D’altronde, scopro l’acqua calda: il passaggio al capitalismo, come mi insegnarono una ventina e più di anni addietro ad un convegno, in una prestigiosa università per neo business men, consiste nel prima creare la percezione di un bisogno a cui segue immediatamente la domanda e poi l’indotto della manutenzione.
Bisogno di sentirsi uomini veri, combattenti veri? Due pugni in faccia e tanto testosterone diffuso nell’aria.
Bisogno di misticismo? Tecniche su tecniche convinti che possano meccanicamente attivare un risveglio energetico.
Bisogno di sentirsi invincibili contro ogni aggressore? Dacci dentro di difesa da pistola (finta), coltello (finto), aggressore (finto). Nota a margine: Avete notato quanti feriti e persino qualche morto, in questi corsi di difesa .. simil para militare ?

Io, invece, credo che l’opzione non sia tra un sistema teorico giusto o sbagliato, tra una pratica in keikogi o una in mimetica, tra una promessa di saggezza o una di invincibilità. Piuttosto, la scelta è sempre tra farsi abbindolare da chi ci racconta cosa bisognerebbe sentire e chi ci accoglie perché noi ci mettiamo nelle condizioni di sentire noi stessi.
Ovvero, tra chi
- dopo le botte date e prese; la posizione tenuta per minuti e minuti o il gesto perfettamente ripetuto; il disarmo perfettamente riuscito sul coltello di plastica ( sì, ma marchiato Cold Steel o Extrema Ratio, uauh!!), continua imperterrito la sua vita con gli istessi ritmi, le stesse insoddisfazioni coniugali o lavorative, la stessa ipocondria, lo stesso angosciato bisogno di sempre;
- e chi sceglie le storie di viverle in prima persona, di immergersi corpo fisicoemotivo, senziente, immaginante, dentro di sé in una discesa in profondità ( agli Inferi?) per risalirne adulto autodiretto che forse, forse, poco o tanto darà uno scossone alla sua vita o quantomeno ne sarà consapevole e si assumerà la responsabilità di tutto quanto sta facendo.

Come mi comporto, allora, col curioso di turno? Gli parlo di un modo di praticare che, a partire da indotti motori e lottatori, sfocia in azioni che coinvolgendo l’individuo nel suo complesso e attingendo all’immaginario, si caricano di significati affettivi, relazionali?
Troppo complesso?

Gli parlo di movimento agito secondo le tre componenti spazio, tempo, energia, ovvero flusso e peso per usare termini presi da Laban?
Troppo tecnico?

Gli dico che noi non abbiamo un programma, tanto meno una progressione lineare, che il programma consiste nel fare a seconda del vissuto e proposto di chi c’è in pedana?
Avete presente la faccia che farebbe (ha fatto …) nel vedersi togliere la certezza del “libro di scuola”, del foglio con le istruzioni per montare il mobile IKEA?

Va bé, al solito, gli dico, quando proprio non voglio evitare, “Vieni e prova un po’ di incontri, se ci piacciamo a vicenda, faremo un tratto di strada insieme, altrimenti ognuno per la sua”.
Siiiiiiiiii, già questo lo lascia perplesso, quando non insoddisfatto: Lui chiede per magari comperare un prodotto ed io gli parlo di incontri, di feeling… che, mi fanno schifo i suoi soldi? Poi, che kazzo vendo io allora? si può sapere o no ?!
Poi, cominceranno le osservazioni su “Quante lezioni di prova posso fare?” (d’altronde ovunque o quasi, ti offrono la canonica lezione di prova, poi o paghi o te ne vai e così gli pare impossibile un posto dove puoi stare senza l’assillo della “lezione di prova”), “Ma io che non ho mai praticato come faccio a stare con uno che pratica già da anni”, “Ma davvero posso venire tutte le sere che voglio”, ma ….
Sicuri che io non faccia meglio a darmela, educatamente, a gambe ?!?!

No dai, non è vero che sempre evito. Piuttosto, in sintonia con il nostro modo di comunicare in pedana, con la maieutica a cui affido la capacità di coinvolgere i praticanti, al curioso chiedo “Cosa sono per te le Arti Marziali?”, “Cosi ti aspetteresti se praticassi Arti Marziali?”, ecc.
Visto che non sono così scorbutico? Anche perché, amando quel e come lo faccio, mi fa enorme piacere se altri, per un mese, per un anno o per tutta la vita, vi si accostano scoprendone quella forza potente e trasformatrice che, tra il desiderio che richiede mistero, la passione che si scontra con frustrazione, la seduzione che abbraccia vitalità, il divertimento che incontra rischio, ci mostra la Via dell’essere adulti coraggiosi e consapevoli, autentici guerrieri.

     
“Uno schiavo che non ha coscienza di essere schiavo e che non fa nulla per liberarsi, è veramente uno schiavo. Ma uno schiavo che ha coscienza di essere schiavo e che lotta per liberarsi già non è più schiavo, ma uomo libero.”
(Vladimir Il’ic Ul’janov, detto Lenin)