“Si
sale, si vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto. Esiste un’arte di
dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto
quando si era più in alto. Quando non è possibile vedere, almeno è possibile
sapere”
(R.
Daumal)
Sì, a volte succede che io mi perda, ma non mi sono ancora arenato
definitivamente.
Forse perché so che desidero provare tanto, se non tutto;
so che voglio vedere più lontano, tanto lontano da vedere persino dentro di me.
Magari a cammino sbandato, tra un confine mal disegnato ed un pugno di innocue certezze.
E mi chiedo, oggi, impugnando l’acciaio luccicante della
mia “Lama
Danzante”, quale sia il nodo che soffoca, il buco in cui precipitano
gli allievi, quelli che abbandonano la pratica dell’acciaio, di Kenshindo, dopo fulminanti ed esplicite
dichiarazioni d’amore.
E’ vero che una flessione, un abbandono tra i praticanti, è
fatto fisiologico. Forse è anche un bene, perché si allontanano gli illusi,
quelli qui portati dal mito del samurai invincibile o del maestro Jedi di rara
saggezza.Per quelli i quali arrivano a vivere la pratica come una costrizione, come un noioso ripetersi di gesti e riti, smettere è sicuramente un bene e forse, sottolineo forse, una enorme possibilità. Ovvero la possibilità, se ci riflettono su, di comprendere in quali altre noiose routine, in quali altre opprimenti gabbie, sono rinchiusi: in famiglia, col partner, al lavoro, e come sia possibile, anche lì, in quelle quotidiane gabbie subite e non più liberamente accettate ed amate, smettere, anche da lì andarsene.
Anche se, a ben ricordare, non mi sovviene nulla di tutto ciò, nessun successivo passo liberatorio, trasformatore, nei volti di spadaccini transitati e poi allontanatisi dalla Scuola.
Per quelli che hanno praticato non solo i primi mesi, ma
hanno sudato e si sono spesi per anni, forse il nodo, il buco, è stata la
ricerca di una impossibile assoluta perfezione tecnica che non facesse loro
pesare l’arma in mano; il delirio di onnipotenza che vorrebbe finalmente la
stuoia tranciata di netto e non invece la propria lama affondare pigramente
nell’urto o, per contro, l’infantile ricerca di un materiale sempre più duro
(!?) su cui potersi sfidare che tanto, tagliare o spaccare, per loro era la
stessa cosa; il turbamento per il malessere, quella spazzatura interiore che la
pratica dell’acciaio ogni volta portava in superficie, sapore amaro.
Sì, a volte succede che io mi perda, ma non mi sono ancora
arenato definitivamente, come non si sono arenati ancora quelli che, con me,
non smettono di impugnare acciaio.
Ancora una volta, è la vita che si pone in testa, a volte feroce
come le immagini che si riflettono sul luccicare dell’acciaio, combattimenti
d’autorità dichiarata, altre dolce come un sorriso di bimbo, innocenza
socchiusa sul mondo.
L'uomo, sin dal suo primo impugnarla, ha fatto confluire sulla
spada gravi significati che andavano ben oltre il suo utilizzo in combattimento.
Essa, nel suo essere strumento di difesa e di offesa, è con ciò portatrice del
dualismo tra il bene e il male, a seconda dell'uso che se ne fa. Da tali
concetti, originarono il Codice Cavalleresco in Occidente ed il Bushido nipponico,
entrambi come Codici d'onore.
La sua dualità racchiude il maschile e il femminile ed è da
questa unione degli opposti che la spada trae la sua forza. La lama, nel suo
luccicare, è come uno specchio in cui lo spadaccino può vedere riflessi i suoi
pregi e le sue perversioni.Stando alle tradizioni iniziatiche sia orientali che occidentali, il guerriero che impugni la spada è in grado di unire il fisico e lo spirituale, con ciò unendo l'essenza della spada a quella di se stesso in perfetto equilibrio. Solo armonizzare questi aspetti permette di definirsi autentico guerriero.
Nostalgia di antichi valori virili? Illusioni sciocche di
chi non sa adeguarsi al presente? Mitizzazione di pratiche semplicemente volte
ad uccidere e niente più?
Può darsi.So, impugnando “Lama Danzante”, che fenderò senza collera e senza astio, che lascerò erompere dal mio animo le acque dell’angoscia e saprò incontrare l’ebrezza della vitalità.
Probabilmente, i rapporti, anche quello con noi stessi, deperiscono e avvizziscono fino a morire, non quando cessiamo di amare, ma quando, prima ancora, abbandoniamo ogni magia immaginativa e, con ciò, smettiamo di stupirci, di scoprire e scoprirci.
Allora, il senso forte di un katana, di un acciaio lucido e possente, tra le mani.
(J. Evola)