Occasione ghiotta per vedere uno dei tanti film che ho in
“parcheggio”, vuoi perché troppo violenti, vuoi perché troppo “seri” per
condividerne la visione con un cucciolo di nemmeno dieci anni.
Scelgo “Di nuovo
in gioco” pellicola del 2012, splendidamente interpretata da un “mostro
sacro” come Clint Eastwood.
La commozione sale più e più volte, gli occhi si
inumidiscono, mentre vedo scorrere, sullo schermo, immagini e conflitti tra
padre e figlia, l’invecchiamento inarrestabile del primo, l’affacciarsi al
successo professionale della seconda, in un clima, tra i due, di ricerca e
rimbalzo, avvicinamento e incomprensione.
Film che, grazie alla metafora dello sport e della sfida sportiva,
permette allo spettatore di capire i
confini, ed il diritto, di ognuno di
essere come è, quello che è, senza per questo alienarsi la relazione con
l’altro. Relazione conflittuale, anche aspra, ma pur sempre un “annusarsi”, uno
stare insieme per come si riesce.
Certo, perché ciò avvenga, occorre scrutare nel proprio
passato, mettere coraggiosamente le mani dentro di sé, accostarsi alla propria
Ombra, pur inquietante che sia, aprirsi ad emozioni e sentimenti mandando a
volte “in soffitta” logica e pensiero, pena lo sguazzare nell’anaffettività
arida e desolante.
Film che, giocando sull’imminente cecità del
protagonista, offre squarci di spazio sull’uso degli altri sensi, primo tra
tutti l’udito. Come a dirci che ciò che ci appare alla vista non sempre è il
cardine per ogni nostra scelta e che c’è altro, di sotterraneo, di intimo, di
personale, a cui potremmo affidare le nostre scelte.
Film che ci offre pure un nostalgico, ma non insensato,
confronto tra l’aridità della macchina, dei numeri, delle percentuali e la
vivida incertezza emotiva del proprio “sentire”, dell’esserci fisicamente, con
tutta l’approssimazione che ciò comporta in scelte e decisioni. Condizione
quest’ultima indispensabile perché quelle scelte abbiano un cuore ed al cuore,
alla “pancia” dell’altro sappiano risuonare.
Probabilmente, un finale “buonista” depotenzia
parzialmente il film, ma è una produzione U.S.A., con lo sport ( il baseball )
a reggerne la trama e, dunque, l’happy end è di rigore.
Poi, nel finale, mi piace comunque che la protagonista
femminile, nello scegliere (e lasciarsi scegliere) il partner per una storia
d’amore, lo trovi in un aitante giovanotto in cui sì vivono alcuni tratti
paterni, ma in questi, contrariamene al genitore, sia presente la capacità di
aprirsi emozionalmente, di condividere incertezze e paure. Non una “coazione a
ripetere”, un pedissequo imprinting paterno sotto altre spoglie. Infatti, in
quel giovanotto, lei trova i forti e maschi tratti paterni, ben coniugati con
la disponibilità a stare nei conflitti emozionali, ad accettare e condividere il
loro disordinato succedersi.
Beh, un bel film, in cui , a tratti, ho rivisto sprazzi
delle mie attuali difficoltà a relazionarmi con mio figlio Kentaro, relazionarmi
ad un suo passato, da cui mi tenne lontano il “cartellino rosso” subìto ad
opera di una moglie un po’ disinvolta nelle scelte, che ritorna nei suoi
discorsi attuali, nelle sue logiche di relazione con me, ci ritorna colorato di
tinte non facili, spesso fastidiose e corrucciate.
Un film che, col senno di poi, avrei potuto anche
proporre a Lupo. Meglio così, però, altrimenti sai come mi avrebbe sfottuto per
tutti i miei momenti di commozione !!
Un film che, come sempre per questo genere di pellicole,
consiglio a tutti i padri, a tutti i maschi che si sono voluti dare nella
filiazione e, con ciò, ad un figlio hanno voluto dare l’incredibile piacere del
vivere. E a tutte le donne, perché, se mai ne avessero dubbi, leggessero la potenza e il coraggio che alberga,
nascosto o meno, nel maschile. Purché disposte, s’intende, ad accoglierlo.