“Che peccato.... Dopo
tanti anni e tanto lavoro sono arrivato ad elaborare un Tai Chi veramente
interessante ed unico, molto migliore di quello dei miei insegnanti, e quasi
tutte le persone che avrebbero potuto capirlo ed eseguirlo bene, come (omissis), se ne sono andate sbattendo
la porta o hanno smesso.... Che spreco....Ed a che serve la vera arte quando è
autistica ? Solo trasmessa acquista senso....”
Così scriveva, giorni addietro, un praticante e docente che
io stimo molto, lo stesso che, una quindicina di anni fa, mi guidò lungo il
percorso di una delle più interessanti espressioni del Kenpo Taiki Ken.
Condivido le sue parole, che potrebbero essere le mie,
tolta l’affermazione “molto migliore di
quello dei miei insegnanti”, in quanto, semplicemente, ritengo che quanto
io ora vada proponendo sia diverso,
non migliore. Una “diversità” che offre
domande e possibili soluzioni, un percorso che altri, i miei stessi insegnanti
di prima e di adesso compresi, non offrono. Semplicemente, io faccio della
pratica marziale un esplicito percorso
di individuazione, sorta di terapia di crescita e trasformazione, e lo
faccio con un metodo anche questo diverso, in quanto fondato sulla maieutica, sull’arte del domandare. Insomma, ci si
mena sì ma per quel “Conosci te stesso” chiave di volta,
io ritengo, per dare un senso a questo nostro fragile ed incerto vivere.
Menarsi per menarsi, non solo non mi interessa ma, sono
convinto, di per sé non porti certo al “Conosci te stesso” o a qualche
progredire sulla strada della consapevolezza e dell’autodeterminazione. Che è
ciò che a me preme di più.
Ma di questo ne ho già scritto più e più volte.
Qui, preferisco cogliere il senso di quell’affermazione “a che serve la vera arte quando è autistica
? Solo trasmessa acquista senso...”.
Da un lato, sento, sento dentro, pelle e cuore e corpo
tutto, la gioia profonda per quel che vado imparando e la voglia altrettanto
profonda di condividerlo con altri. Un piacere di donare, altruistico e genitoriale
in senso transazionale :“Né l’adulto, né
tanto meno il bambino, sono capaci di amore. L’adulto è troppo occupato a
sopravvivere e a dominare l’ambiente, per occuparsi degli altri e quindi per
amare. Il bambino non è nemmeno capace di amare se stesso, figuriamoci se è
capace di amare gli altri. L’amore che il genitore nutre e vive nei confronti
degli altri è per lui fonte di piacere”. (G.C. Giacobbe).
Dall’altro, mi chiedo quanto questa sia una necessità. Come
a dire, solo se svuoto la tazza del pur prezioso liquido che la contiene,
permettendo ad altri di abbeverarsi, potrò riempirla di altro e nuovo liquido
probabilmente ancor più prezioso.
Poi, a questa duplice considerazione, si aggiunge un
dubbio: perché l’arte non condivisa dovrebbe, per forza, essere autistica?
L’arte si intende come connessa alla capacità di
trasmettere emozioni e “messaggi” soggettivi, è l’espressione del sé e del
proprio io. Se non la mostro e la tengo tutta per me è ancora arte? E’ pratica artistica?
O è arte monca, autistica appunto?
E se anche fosse tale, è da considerarsi negativamente?
Perché, se suono, canto, danzo, per me e per me solo, ho da
considerarmi meno e meno artista che ad esibirmi in pubblico?
Al di là di possibili, e magari risibili, riflessioni
teoriche (teoretiche?), forse la nota di rammarico che io colgo nella frase
riportata all’inizio di questo post, risuona come tale davanti all’esiguo,
sempre più esiguo, numero di adepti disposti ad accompagnare, a seguire l’artista,
che il succitato Maestro lì denuncia.
Anche qui, mi sento di condividere la nota di rammarico, di
malessere, perché anche io, allo Z.N.K.R., vado vivendo la stessa sensazione di
abbandono per gli allievi anziani che se ne sono andati e per i nuovi che non
arrivano e, insieme, di spreco per il prezioso gioiello che ho tra le mani
senza avere a chi darlo.
Con un sostanziale e fondamentale distinguo.
Un “distinguo” che è fatto dalla mia considerazione critica
sui tempi che andiamo vivendo e sui valori che in essa imperano, dove si
confonde il tenore di vita con la qualità della vita, la sbruffonaggine con il
coraggio, la licenza con la libertà, dove giustizia è uguaglianza per tutti
anziché uguaglianza per uguali.
Tempi e valori per niente consoni ad una pratica artistica
profonda e con intenti terapeutici in cui “la
salute di un individuo dipende dalla possibilità di essere creativo, cioè di
‘autorealizzarsi’, e coincide con l’espansione fiduciosa delle proprie
potenzialità, con il dispiegarsi delle caratteristiche neoteniche proprie della
specie umana” (A. Carotenuto) ; tempi e valori condivisi da una informe
massa di amebe soggette al primato dell'economia, del denaro, del produttivismo
e del consumismo senza l’uso, dove sono i “mercanti”, nelle loro diverse
sfaccettature, ad occupare il posto d’onore, dove la voce dei mediocri è
inarticolata ma assordante
Dunque, se di questi tempi e dei loro abitanti ho
un’immagine siffatta, come posso stupirmi che le mie prestazioni artistiche,
antagoniste, di più: alternative, siano sconosciute quando non scansate? Né
coltivo in me alcun delirio di onnipotenza, ovvero la pretesa di convincere
della bontà / qualità della mia prestazione artistica.
Di contro, e di … equilibrio, sia per stare lontano da
atteggiamenti snobistici o da “mosca cocchiera”, proprio io che cerco e
propugno la consapevolezza, so che essere
consapevoli esige che si viva presenti, quanto al luogo e al momento, e non
altrove, nel passato o nel futuro. La persona consapevole è viva perché sa che
cosa prova, sa dove si trova e quale momento sta vivendo. Sa, evviva!! che
quando sarà morto, mari e montagne ci saranno ancora e lui no e perciò vuole
guardarseli e goderseli il più possibile.
So anche che l’esperienza e l’esperire di ogni individuo
sono sempre il frutto del suo contesto, dunque mi tengo stretto questo mio
essere minoranza nella pratica artistica marziale, come lo fui e lo sono negli
altri ambiti del mio vivere, da quelli più superficiali (capellone negli anni
’60; skin head -appellativo dato ai militanti di destra mentre io di destra non
ero proprio-, rasato insomma, già a metà degli anni ’70 e sempre in quegli anni
vestito quotidianamente in tuta quando la tuta era appannaggio solo dei professori
di educazione fisica nel mentre che si recavano al lavoro, praticante di
jogging, uno che corre insomma, per le strade ed i parchi di Milano quando allora
il jogging nemmeno si sapeva cosa fosse, ecc.) a quelli più profondi.
A ben guardare, credo rimangano due prospettive, per l’uomo differenziato, per il ribelle che non si piega
all’italcafonaggine: passare al bosco, come l’anarca di Ernst Junger, compiendo
sul piano individuale le prospettive degli antichi stoici (“Vivi nascosto” e “Sopporta e astieniti”), oppure lavorare in solitario, pur aperto ai
pochi che ne siano incuriositi, per coltivare questa mia arte che così tanto
amo.
Non so se sarò autistico io e quel che andrò a praticare.
Il dubbio mi rimane.
Mi rafforzano, con tutto il rispetto per il pensiero di
Gramsci, quel “Pochi ma buoni” attribuito
al di lui antagonista al congresso di fondazione del P.C.I. Amedeo Bordiga; le
asciutte osservazioni del filosofo e “sciamano” Gurdjieff sul preferire qualche
fetta di torta data a pochi che le briciole ai molti; l’illuminante frase di
Fritz Perls, uno dei padri della Gestalt terapia: “Sarò con te. Sarò con te con il mio interesse, la mia noia, la mia
pazienza, la mia rabbia, la mia disponibilità. Sarò con te (…) ma non ti posso
aiutare. Sarò con te. Tu farai quello che riterrai necessario”, fino alla
dissacrante “Io sono la mia vita e tu la
tua. Io non sono in questo mondo per rispondere alle tue aspettative e tu non
sei in questo mondo per rispondere alle mie. Tu sei tu e io sono io... e se per
caso ci incontriamo allora è splendido! Altrimenti non ci possiamo fare niente!”
Post illustrato con opere, ed un ritratto, di Basquiat. Al Mudec di Milano, in questi giorni, una interessante mostra su quest'artista.