venerdì 22 dicembre 2017

Musica e non sense



La serata prende avvio con un ricco happy hour al “Taxi Blues”.
E, finalmente, un hh come si deve!!
Negli anni della mia adolescenza e gioventù, l’happy hour non esisteva, solo l’aperitivo, ovvero al bere erano accostati un pugno di patatine e qualche oliva.
Poi venne l’happy hour e fu un trionfo di carne e pasta e salumi e formaggi.
Da alcuni anni, invece, sarà per risparmiare, sarà che l’happy hour lo trovi ovunque, la carne è pressoché sparita, la pasta è scadente e troneggia la verdura.
Dunque, ben venga la nuova sede del Taxi Blues, proprio a due passi da casa mia, dove l’happy hour, già provato più volte in questi mesi, è un trionfo di opulenza culinaria!!

Proseguiamo, io e Monica, con un salto alle “Dolci Melodie”, dove il caffè è da sempre squisito e l’accoglienza sempre affabile, dove non può mancare un seppur piccolo “peccato di gola”.

Siamo pronti per il teatro.
Sì perché Lupo, dolcissimo, per l’anniversario del nostro matrimonio: il 21 Dicembre, ci ha regalato due biglietti per lo spettacolo “The Dual Beatles Nonsense Circus

Ed è serata di grande godimento, tra alcune delle più belle canzoni dei Beatles, reinterpretate e cantate con un impasto di voci fortemente accattivante e prezioso, e brevi scenette tratte dall’irriverente repertorio dei Monty Phyton.

I Monty Phyton, sul finire degli anni ‘60, riprendendo le orme lasciate da Lewis Carrol e dai fratelli Marx, stravolsero la comicità spargendo a piene mani il nonsense, ovvero il paradosso e l’assurdo, intanto che irridevano mentalità e costumi della borghesia, della società inglese e degli standard televisivi.
Il loro umorismo, apparentemente sconclusionato, mentre sbeffeggiava le ipocrisie della società, mentre mostrava un nuovo e paradossale punto di vista da cui osservare la vita attorno a noi, in realtà invitava a non ritenere giusta, esatta, una sola lettura, una sola interpretazione delle cose, perché tutto può essere capovolto.

Negli stessi anni, o meglio, già negli anni ’60, i Beatles ribaltarono ogni corrente musicale allora in voga e non solo musicale, presentandosi con un look eccentrico e fuori dagli schemi.
Le loro musiche, negli anni a seguire, avrebbero influenzato l’hard rock, il metal e la psichedelia; il loro look avrebbe dato vita ad un completo cambiamento nelle pettinature e nell’abbigliamento di milioni di giovani.
Erano gli anni dei grandi moti ribellistici e rivoluzionari, di Marthin Luter King e delle “Pantere Nere”, della “primavera di Praga”, della nascita del fenomeno Hippy, dello sbarco sulla luna, ed I Beatles furono sempre parte integrante di quegli anni. Tanto che il compositore Aaron Copland ebbe a scrivere: “Se volete conoscere gli anni Sessanta, ascoltate la musica dei Beatles”.
In italia si esibirono in un’unica tournee, nel 1965, ed io ebbi il gran piacere di vederli, al Velodromo Vigorelli, con il mio amico Paolo e accompagnati da mia sorella Anna, di cinque anni più grande di noi, perché quelli erano tempi in cui era impensabile che un tredicenne andasse da solo ad un concerto; di più, erano i concerti stessi ad essere impensabili. Una tournee che raccolse poche adesioni, di contro all’enorme successo che i Beatles già avevano in tutto il mondo. Ma l’Italia, e non solo quella canora, è sempre stata un passo indietro!!

Lo spettacolo è coinvolgente, frizzante, scenette e brani musicali si intrecciano e si susseguono a ritmo incalzante. Qualche sbavatura non fa che rendere ancor più vicini gli interpreti. Il buon umore, in sala, è palpabile e gli attori/cantanti “costretti” ad un bis dopo l’altro.

Ancora una volta, la “Dual Band” si dimostra capace di coinvolgere ed emozionare. Gli artisti in scena paiono essersela goduti a loro volta e questo non fa che rendere ancor più forte, intenso, il legame con chi li applaude, a ringraziarli per una bella serata.

Serata divertente, che mette il buon umore, ma, tra le pieghe dei testi, dei gesti, lascia intendere uno spessore culturale, un approccio diverso alle cose.
E, forse, nella bellezza inconfutabile delle loro musiche, nello spasso esplosivo dei loro sketch, è questo che Beatles e Monty Phyton volevano comunicare.

 



venerdì 15 dicembre 2017

Ad ognuno, che sappia, i suoi fiori del male



Lascio a casa Monica e Lupo, contenti di godersi la finale di X Factor e mi avvio vero lo spazio Avirex.

Il bello di abitare a Milano, e pure in una zona prossima al centro, è proprio l’aver a portata di … “gamba” più d’una occasione di semplice svago o culturale
Così, venti minuti di camminata, e sono seduto in poltrona, pronto per “Charles Baudelaire, come i fiori”.

Baudelaire è un poeta che lessi negli anni dell’adolescenza, in un confuso e variegato mescolarsi tra i deliri di Charles Bukowski e le fragili poesie di Jacques Prevert, la scoperta dell’immenso e sconosciuto Dino Campana e il misticismo di William Yeats.

Ho sempre amato le poesie, di un amore ormai difficilmente comunicabile in questi tempi in cui esse sono finite nel dimenticatoio, quand’anche appartenute ad artisti di grande valore. Figuriamoci a chiedere a chiunque un dialogo sulla poesia contemporanea, anche solo italiana. Tolto il nome di Alda Merini, temo che siano ben pochi a conoscere qualcosa della poesia italiana contemporanea. Lode dunque al mio vecchio compagno di liceo Marco Saya che, da anni, ha fondato una minuscola casa editrice aperta ai nostri poeti contemporanei. Troppo poco, però, perché il mondo della poesia sia poco più che una nicchia.

Così, mi lascio cullare dalla magia del teatro dove due giovani attori, Francesco Errico e Margherita Forte, portano in scena momenti di vita insieme tra Baudelaire e la compagna Jeanne Duvall, un po’ attrice e un po’ prostituta, nella Parigi ottocentesca.
Sono gli anni della paralisi alla mano e dell’alterazione estrema indotta da vino e droghe, delle angosce profonde e della noia, delle parole a germogliare come fiori.
Sono gli anni che vedono alla luce “I fiori del male”, raccolta in grado di suscitare tanto scandalo, nella bigotta società del tempo, che il libro viene i processato per immoralità, costringendo l’editore a cassare alcune poesie.

Mi godo lo scorrere dei versi, mentre Charles e Jeanne intrecciano duetti amorosi e conflittuali nel loro tran tran quotidiano.
Dentro, salgono emozioni che nessuno, fuori che me, può mai conoscere; una melodia solo mia, sorta di eco di un’eternità che si sospende su giorni che a volte sono di grazia, altri di rabbia. Un sottile riandare a posti a cui sono appartenuto, in cui io ed un altro di me abbiamo camminato insieme.
Come se fosse possibile avere l’occasione di diventare qualcuno di nuovo, qualcuno che io, o altri, potrebbe amare di nuovo.

Le luci, in sala, si spengono. E’ il tempo degli applausi e degli inchini dei due protagonisti.
Lei, di una fisicità prorompente, ancora sul viso i segni del dramma vissuto che ha saputo trasmettere, nonostante un impasto vocale spesso non limpido.
Lui, dignitoso in una parte che avrebbe richiesto, a mio parere, una presenza scenica ben più pregnante e poi colpevole di una serie di incidenti linguistici.

“Due passi” nelle ombre che avvolgono il parco sotto casa e nel traffico sempre sostenuto di corso Lodi.
E’ ora di abbracciare il senso della casa, della famiglia.

martedì 5 dicembre 2017

Il Ribelle Guerriero



Poi le cose accadono, ci accadono addosso, ci accadono contro: Il distacco di una persona cara, un imprevisto collasso economico, un accidente fisico, l’insuccesso ad un esame universitario, la perdita del lavoro.
A volte, le cose accadono, ci cadono addosso, ci cadono contro, come una lenta agonia, un tormentato crescere di malessere: una relazione che si fa povera e ci intristisce giorno dopo giorno; la crescita di un figlio che sempre più si rivolta alla nostra educazione, ai nostri valori; una passione che va a scemare; una salute che “le ingiurie del tempo” sempre più espongono a cadute e malanni; un futuro che si snoda ai nostri occhi monotono e noioso; il crescente rimpianto per quel che non è stato, quel che non abbiamo scelto.

Sono accadimenti che ci conducono in uno stato di malinconia, di malessere, a volte ad un senso di impotenza, altre di rabbia, altre ancora sfioriamo il mondo della depressione. Sono i momenti lunghi, troppo lunghi, del volto rigato di lacrime, degli occhi bassi, dell’autostima che finisce sotto i piedi, o dell’arrabbiatura scomposta, dei gesti inconsulti, delle imprecazioni e delle persone, fisicamente o metaforicamente, sbattute per terra, malmenate.

Eppure, per l’autentico Ribelle Guerriero, questi accadimenti insani, perniciosi, sono anche e soprattutto un viaggio nei luoghi sotterranei, dove dominano le nostre parti ombra, dove spiriti invisibili ad occhio umano e mostri antichi ci aspettano sornioni.
Questi accadimenti, per il Ribelle Guerriero, sono l’occasione, dura ma imprescindibile, per entrare nella sua cantina privata, quella polverosa e buia, quella dove si sono accumulate le ingiunzioni dei genitori, le scorie degli anni precedenti, i sogni mai realizzati, le aspettative tradite, le costrizioni castranti del pensiero dominante, ma anche le tue risorse più genuine, quelle animalesche e potenti, quel tuo spirito libero che hai lasciato addormentarsi in nome di mille e mille compromessi.

Lasciarsi soggiogare da questi accadimenti, che siano unico pesante colpo di martello o lento dissanguarsi, significa entrare riottosi nella cantina e lì trovarci solo gli strumenti perché la tortura si faccia ancora più crudele, perché la caduta sia ancora più rovinosa, perché gli specchi opachi e polverosi rimandino di te un’immagine incerta e malferma.
Accogliere questi accadimenti, che siano unico pesante colpo di martello o lento dissanguarsi, accettarli come parte essenziale di ogni viaggio di vita, significa entrare in cantina a testa alta e lì trovarci, con vecchi orpelli in disuso e rimandi crudeli alla tua incompletezza, alla tua vigliaccheria, anche le forze della tua individuazione, della tua ennesima rinascita.

Hai solo da lasciarti andare, andare davvero, perché il gusto pieno delle emozioni ti inondi tutto. Perché tu posa lasciarti pervadere dai sapori melliflui della nostalgia e da quelli acidi della rabbia, dalla forza irragionevole delle tue pulsioni e dall’estremismo onirico delle tue visioni.
Così, lasciarti andare in uno stato che il Taoismo chiama “sung”, come a dire denso e presente; denso e presente nel tuo essere fisicoemotivo, nella tua carne e nel tuo respirare.

Nessun controllo, solo, ti lasci andare, ti affidi.

Perché il Ribelle Guerriero si fida anche di quel che non sa, di quel che non conosce. Apprezza la forza disperata della paura, usa la vulnerabilità come sciabola affilata; si affida al fluttuare instabile del piacere anche quando questi si immerge in una profondità priva di luce fino a scomparire, perché il Ribelle Guerriero sa aspettare che torni a galla, torni ad essere mare d’onde cristalline.

Allora, come in un insight improvviso ed imprevisto, ritroverai le tue intuizioni vincenti, la tua prorompente vitalità, il tuo erotismo più pieno e rotondo.
Allora saprai emergere dalla cantina, Ribelle Guerriero ferito e malconcio ma ancora più forte, ancora più bello. Aspettando il prossimo accadimento, che sia unico pesante colpo di martello o lento dissanguarsi, come ennesima prova del fatto che tu vivi, né dormi né sopravvivi, ma vivi, anche contro tutto e contro tutti.
Tu che vivi e pratichi un autentico Spirito Ribelle




venerdì 1 dicembre 2017

Ci salverà un pugno ed una fatica



Ed arriva perfettamente puntuale lungo la traiettoria del braccio, attraverso il pugno appena guantato.
Riesco a sentirlo impattare il volto, occhi che strabuzzano

Una voce dentro chiede “Chi è lo schiavo, chi è il padrone?
Sarà quella voce a rubarmi la passione, a lasciarmi un buco dentro?

Non è che io creda di non essere abbastanza forte; non è che io creda di non sapere trovare una soluzione. So di poter contar su di me.
E’ che ci sono più mondi a contendersi l’egemonia del mio pensiero, del mio cuore. E faccio fatica, ancora fatica, a non considerarmi il mio peggior nemico.

Ritorno col pensiero agli sporchi, ma così esaltanti, anni della mia adolescenza, della mia giovinezza. Mi guardo, ora, muovermi in tondo, appena appena sudato, mani alzate “in guardia”, a proteggere ed insieme ad offendere.
Chi saranno mai i giovani, e i meno giovani, che portano su di loro il peso di ogni tentazione, di ogni orrore, fino a scuotersi ventre e cuore?
Io, uomo allo specchio di me stesso, volto a fare, forse, la cosa giusta; volto al combattimento, al conflitto, che sia di esempio, di sprone per i giovani ed i meno giovani che arrancano, a volte consapevoli, altre no, sotto il peso di ogni tentazione, di ogni orrore, fino a scuotersi ventre e cuore.

Mi vien da ridere pensando ai goffi tentativi che la scuola fa per spiegare, per contenere, il fenomeno del bullismo.
Più in generale, mi lascia basito lo scorrere insensato di violenza che attraversa questa società, come lo scorrere di effimere mode e meschini modi, quei sotterfugi malsani e quel fuggire codardo, quelle prevaricazioni mascalzone sui più deboli e quel girare il capo dall’altra parte fingendo di non vedere, quel sostenere una debolezza ed una piaggeria che ci stanno portando tutti al decadimento come se fosse questa la “Via”, il nostro destino tutto. E, dall’altra parte, quell’esposizione di muscoli e facce truci, di idee machiste che non sanno cogliere la forza dirompente ed il valore guerriero della flessibilità e dell’emozionarsi.

 

Grazie Lucio per questo intenso film – documentario: Eat your enemy

http://www.cultureunplugged.com/documentary/watch-online/play/8690/Eat-your-Enemy

 

Si parte da alcune domande sulla violenza e si viaggia attraverso destini di uomini che hanno fatto del male. Si incontrano esperienze di “recupero” che tanto farebbero bene alla nostra scuola, presunta verginella, a volte iper servizievole mamma protettrice di bulli e delinquenti, altre matrigna del tutto incapace di amore.

Gli appassionati marzialisti incontreranno esperti del calibro di Jan Kallenbach, l’uomo a cui si deve l’introduzione massiccia del Kenpo Taiki Ken in Europa, o la figlia di Wang Xiangzhai, il creatore dello Yi Quan, da cui Kenichi Sawai originò il Kenpo Taiki Ken.

 

A volte mi commuovo, verso delle lacrime, anche qui, in Dojo, perché sto con Perls ed il suo “Ogni volta che accade qualcosa di reale… questo mi commuove profondamente
Succede quando sento il freddo incontrarsi e scontrarsi col caldo, quando la sofferenza esplode in gioia dissennata o, al contrario, è la gioia degli occhi a tradire la sofferenza del cuore.
Succede, ed è sempre bello. Anche quando accade qui, nel luogo delle “Formazione guerriera”, della formazione al confliggere.

Succede, per maschi e femmine vere.

 



martedì 28 novembre 2017

Non siamo soli


Noi, qui, allo Z.N.K.R., osiamo fare un passo oltre la mente, oltre le convenzioni, oltre le banalità di un insegnamento dogmatico e la superficialità di una pratica grossolana.

Sappiamo di godere di un metodo che permette di pensare la complessità del reale, invece di ridurre la realtà negli angusti confini di ciò che già sappiamo, ciò che ci rassicura.

Varcare i confini dell’ovvio, di una mente ordinaria, di un sapere goffo e semplicistico, è l’arma vincente in qualsiasi campo, pratica marziale compresa.

Chi non lo fa, resta stretto nei confini dettati dalla paura, dal sapore confortante dell’ovvio, dell’ordinario, dell’accettato e condiviso dalla massa; resta in una zona dove si illude di controllare la realtà, mentre questa è ben altro e si trasforma senza che lui se ne accorga o mentre lui finge di non accorgersene.

Andare oltre le convinzioni comunemente accettate, oltre la “mente comune”,
   è una scelta di autentica ribellione.
Significa abbracciare il mondo delle emozioni, il pensiero intuitivo, il fisicoemotivo come terreno di pratica olistica, onnicomprensiva.

Significa abbracciare il sapere immaginifico, agganciare immagini per addentrarci in un percorso che si vada ad esplicare nella realtà dei sensi, consolidandosi e forse perdendo la viva idea di partenza per trasformarsi in altro, in prassi trasformatrice.

Una certa parte di saperi, di pratiche, di “mondo”, ha preso da tempo questa direzione: alcuni procedono rapidamente e divengono guide creative riconosciute nel loro ambiente e non solo; altri procedono più lentamente, meno esposti e perciò meno conosciuti, ma anche loro contribuiscono a lanciare frecce di pratiche e di sapere antagonista, persino alternativo, al monotono vociare uniforme delle amebe.

E lo sappiamo che noi, allo Z.N.K.R. non siamo soli.

Andate a guardare su You Tube le performance di Daniela Lucangeli (grazie, Monica, per avermela fatta conoscere) e rimarrete esterrefatti, là dove psicologia e neuroscienze si incontrano per offrire un panorama sull’apprendimento autenticamente innovativo.

Guardate qua, questo breve video
e scopri un percorso didattico straordinario, che tanto odora anche di Z.N.K.R.
Ed io non posso che ringraziare il Maestro Aleksandar Trickovic, per la strada che, ormai più di sette anni or sono, mi ha aperto: un’ulteriore svolta lungo il mio percorso marziale, iniziato nel lontano 1976; una svolta sul terreno della pratica corporea che io ho agganciato alle mie conoscenze e pratiche di aiuto e guida alla crescita individuale forgiando un metodo, un fare, una formazione al confliggere, una terapia di crescita per l’individuo, del tutto unica in Italia, che fa dello Z.N.K.R. una Scuola del tutto unica in Italia.

Sì, davvero non siamo soli.

Noi, Z.N.K.R. “Spirito Ribelle, siamo una forza selvatica ed intuitiva

Selvatica, perché il suo sapere è quello dell’istinto; delle pulsioni ri - conosciute, mai negate ma sapientemente gestite; del dono di sé a chi ci sta accanto ed alla comunità.

Intuitiva, perché con Albert Einstein sosteniamo che “La mente intuitiva è un regalo sacro e la mente razionale è un servitore fedele. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il regalo”. Infatti l’intelligenza intuitiva è lasciare emergere a livello cosciente tutto ciò che sappiamo già, al fine di risolvere un conflitto e prendere delle decisioni rapidamente. Non si tratta di ragionare, ma di saper ascoltare il nostro inconscio e le nostre emozioni.

Per questo praticare le Arti Marziali come noi facciamo allo Z.N.K.R. è un percorso non riconducibile alle logiche di potere delle organizzazioni quanto piuttosto è un rifarsi alle piccole e vivaci Scuole della Tradizione, al concetto di tribù; è un percorso non manipolabile, non strumentalizzabile: o ci stai dentro o altrimenti vieni risucchiato dall’omofonia, dal conformismo dominante tra dissennati sforzi fisici e gestualità rozze e confuse o elaborate seghe mentali sorrette da deboli e pavide ginnastiche.

Ribellarsi cambia radicalmente le tue condizioni di vita e cambia il tuo mondo.

Qui, da noi, allo Z.N.K.R., ribollono quant’anni di esperienza nel campo delle pratiche corporee e marziali innestate su un mio personale percorso di vita di strada, di autentica formazione al confliggere di strada (1); convivono pratiche e studi di aiuto al “cliente” sviluppate in un preciso corso di studi che mi ha visto specializzarmi ormai oltre un decennio fa e cimentarmi poi con decine e decine di persone; si intrecciano esperienze di stati di coscienza espansa, suggestioni immaginative, scoperte fisicoemotive e relazionali.

Il nostro “spirito Ribelle” è per autentici protagonisti, autentici eretici cercatori di sé e del proprio potere nel mondo, non per passivi replicanti di idee e pratiche di altri.

Il nostro “Spirito Ribelle” è per il praticante coraggioso e creativo, appassionato in tutto ciò fa e in tutto ciò che fa orgoglioso di dare il meglio, di dare il massimo, perché sa che tutto ciò che fa, in ogni momento della sua giornata, porta sempre la sua firma; per il praticante per il quale è imperativo “mai eccedere”, in un difficile equilibrio taoista privo di sforzo testardo perché è proprio lo sforzo che ripete e ripropone gli antichi legami impedendo il nascere di nuovi orizzonti, di andare oltre il comune sentire.

Questo “Spirito Ribelle” ti entrerà dentro, sarà tuo e ti sposterà da dove ti trovi….

 

(1) Che un conto è “tirare” in palestra, in un ambiente protetto, un altro è battersi per strada. Tolti pochi casi eccezionali, individui che nascono” combattenti”, ritengo ci siano solo due altri modi per imparare a cimentarsi nel combattimento.
Uno è formarsi nella delinquenza o, di contro, nelle forze dell’ordine. L’altro è formarsi nell’estremismo politico o sportivo; in quelle “formazioni” che, a mani nude o con spranghe e coltelli, si scontrano nelle strade senza arbitri e allenatori e regole e strette di mano e uno di fronte all’altro e parità di peso e poi tutti insieme in doccia, evviva!! No, questi estremisti della politica, questi ultras dello sport, “combattono” davvero, per davvero farsi male fino anche ad uccidere. Che piaccia o no, questi sì che si formano a combattere.
La mia formazione “combattente”, dopo alcuni anni di semplice teppismo di strada, avvenne così. Chi non abbia vissuto gli anni del ’68, può farsene un’idea leggendo l’intenso “La banda Bellini”, scritto dal giornalista Marco Philopat insieme ad Andrea Bellini, il capo del “Casoretto”; oppure “Katanga che sorpresa” (grazie Lorenzo per il bel regalo), scritto di suo pugno da Mario “manina” Martucci, il capo dell’omonimo servizio d’ordine del Movimento studentesco, libro sicuramente meno appassionante ma è certo uno … spasso (?!) per chi come me li conobbe, vedere l’evoluzione di alcuni di quei protagonisti: il gran capo di “Servire il Popolo”, passato dall’ideologia maoista al servizio di padron Berlusconi, il duro sprangatore ora divenuto innocente salvatore di feriti di ogni campo, e tanti altri ancora.




mercoledì 15 novembre 2017

Una strada che abbia un cuore, per uomini veri



Giorni addietro, uno scambio epistolare con un professionista della psiche.
Questi vuole iniziare una pratica marziale, ritenendola pratica in grado di fargli conoscere ed esplorare il “pieno potere del mio corpo”, “la capacità di combattere”; vorrebbe “esplorare a piena potenza me stesso per non frenare temendo esplosioni incontrollate”, chiarisce che “il mio obiettivo non è imparare a ‘spaccare tutto’ ma conoscere meglio me stesso”.

Ecco, di seguito, la mia risposta.

 
Credo che tu abbia colto nel segno: ciò che cerchi è l’essenza di una sana pratica marziale.
Purtroppo le Arti Marziali comunemente intese e praticate, tradiscono questo cuore e lo fanno in molti modi.

Chi crede che basti praticare forme e fondamentali e combattimento per diventare forte e saggio. (in virtù di che?)

Chi punta tutto sullo sforzo fisico e sullo scazzottarsi come valvola di sfogo.

Chi vuole solo sentir parlare di coppe e trofei

Chi teorizza di energia e potenza senza mai aver sudato o preso e dato sberle in faccia.

Il modo di muoversi corpo, passa da una mollezza indecente ad una rigidità pinocchiesca o ad una feroce esposizione muscolare.

L’insegnamento è sempre direttivo, imitativo, mai facendo del praticante un protagonista quanto piuttosto un passivo ripetitore: c’è lo stile da imparare, la mossa da copiare, la tecnica da ripetere all’infinito.

Scoprire ed esplorare il proprio potere personale che c’azzecca con tutto ciò?

Combattere non è una finzione da palestra, con regole e comandi e poi tutti a farsi una doccia, né è uno sport; combattere è simulare stati emotivi e tensioni fisicoemotive profonde, perturbanti, in situazioni certo “protette” ma, appunto, di totale simulazione, non di finzione o di divertimento o di cieco sfogatoio.
Combattere è imparare l’arte del confliggere che “Lottiamo tutti. Da quando nasciamo, combattiamo per respirare, aprire gli occhi, camminare, parlare” scriveva Ken Buchanan, pugile, campione del mondo dei pesi leggeri negli anni ’70.

Dunque, il cuore delle Arti Marziali, come, se ho ben capito, tu intendi ed io condivido, è una terapia pulsante perché la capacità di stare nei conflitti, di scoprire e gestire tutto il proprio potere corporeo, pulsioni profonde e magari inconfessate, l’individuo la sappia trasferire in ogni occasione, in ogni relazione del vivere quotidiano, in famiglia, con gli amici, al lavoro.

Purtroppo, tale “cuore” non è la merce cercata nella nostra attuale società, quella del consumo senza uso, dello sfoggio estetico muscolare o intellettuale.
Dunque, nella logica della domanda / offerta, le Scuole che si occupano di “cuore”, di Strade che abbiano un cuore, sono poche, pochissime e sovente hanno vita breve. Nessuna, che io conosca, sta a omissis

Allora, per restare nella tua città, mi permetto di invitarti a cerca una palestra di pugilato: forse la semplicità di questo sport, l’essere ai confini della moda, ti permetterà di trovare un ambiente che in qualcosa sia affine a ciò che tu cerchi.

Oppure in una palestra di Yoseikan Budo (omissis) puoi trovare dinamismo corporeo ed un’attività fresca e pimpante con ancora qualche retaggio della Tradizione, di quel “Budo” che anticamente significò un modo “guerriero” (chi stava, eccome, nei conflitti) di stare al mondo. Non ricordo (e magari non è più lo stesso) chi sia l’insegnante ma, i primi di Dicembre, verrà in Italia il caposcuola, il Maestro Mochizuki Hiroo per un seminario rivolto ad insegnanti e maestri: se l’ingresso fosse aperto agli spettatori, potresti farti un’idea alla fonte, anche se ormai la docenza, in gran parte, lui l’ha passata al figlio.

Confido di esserti stato utile e, se ti andasse, fammi sapere che strada eventualmente tu hai preso.

(omissis)


venerdì 10 novembre 2017

La corazzata Potemkin non è una cagata pazzesca



Serata simil teatrale, a “Il cielo sotto Milano”, dove opera la compagnia “Dual Band”.

Serata dedicata al centenario della Rivoluzione d’Ottobre, meglio presentata come
La corazzata Potemkin non è una cagata pazzesca”,
in un evidente rimando al cinema fantozziano.

Serata con in scena il confronto, che è prima di tutto generazionale, tra la russista Milli Martinelli, donna quasi centenaria, saggista e traduttrice di opere di Turgenev, Tolstoj, Bulgakov, e lo studente tredicenne Lupo Kriss Santambrogio, che è pure mio figlio.
Con loro, in vesti diverse, la Dual Band stessa ed alcuni collaboratori, e, di sottofondo, la pellicola di Ejzenstejn.

E già portare ad un adolescente, a tutti gli adolescenti, il messaggio, e quale messaggio? di un evento così complesso e davvero rivoluzionario, pare cosa improba.

Perché come si può descrivere il cuore, di più, cosa è rimasto del cuore di quell’evento, ai giorni nostri? Ma anche come è possibile, sempre che possibile lo sia, coinvolgere giovani e giovanissimi, i nostri giovani e giovanissimi, perché prestino un’attenzione non puramente intellettuale o, peggio, limitatamente scolastica, ad un evento così terribile e sconvolgente?

C’è chi ha scritto di “comunismo interiore”, che per me significa coltivare dentro il cuore, dentro la pancia, quegli ideali di libertà e comunione, e manifestarli, nel mio piccolo, con le relazioni e le modificazioni dell’ambiente a me più vicino: Quello che è stato, per oltre trent’anni, lo ZNKR di via Simone D’Orsenigo, autentico Dojo di tutti, autentica casa di tutti.

Ma resta il dilemma “Che c’entra, che c’azzecca con i giovani d’oggi?”.

La società del consumo senza uso, dell’apparire sfrenato, della perdita del senso di collettività; questa società di non personalità, di fragilità psicosomatica rimpiazzata da una trasformazione camaleontica, con la quale plagiare i tratti senzienti attraverso irrazionali adesioni alle migliaia di slogan introdotti negli encefali imbelli di una società di pavidi.
Dove quel poco di collettivo rimasto è tutto virtuale: sono gli hashtag pro o contro quello e le pagine fb.
Sono quegli assembramenti improvvisi, ma fa più “tendenza” chiamarli flashmob, dai pallidi tratti umanitari, pacifisti, tanto simili al segno di pace scambiato al termine della messa, usciti dalla quale, ognuno torna al suo privato. Sorta di “sintonia feticcia e sincronica” ho letto giorni or sono a firma “Il Poliscriba”, per un arco di tempo talmente breve che la comprensione tra umani nemmeno viene presa in considerazione, passando invece sotto l’arco di trionfo del: “Quel giorno ero Charlie, Pinco, Pallo e ogni indignazione possibile/fruibile e, soprattutto, io c’ero”.

Se le rivoluzioni efficaci stravolgono il quotidiano, virano su idee nuove per dare risposte ai bisogni dell’uomo, cosa è rimasto, se è rimasto, della rivoluzione d’Ottobre?

La serata, pur con qualche caduta di ritmo, scorre densa ed interessante. Le immagini, le poesie lette, gli interventi tutti, concorrono, pur nel pugno d’ore concesso, a rendere interessante la scoperta e riscoperta dell’evento, a darne un affresco dalle tinte forti.
Ma a me resta quel dilemma, quel senso di continuità che non riesco a trovare.

Per me fu più facile, quasi naturale, con i moti del ’68, ed i libri e le assemblee ed i pestaggi a spranghe e coltelli e le cariche della polizia e gli ideali vissuti al massimo, trovare, vivere, un naturale, sfrontato e certo ingenuo continuum.
Per altri, negli anni a venire, per i giovani a venire, la Rivoluzione d’Ottobre fu solo un goffo treno di immagini, nemmeno così impressionanti che già iniziavano a sbiadire, con tanti convogli di parole, frasi, slogan, libri adocchiati solo nei titoli.

Ma ora, ai ragazzi nati nell’ultima decade del duemila, a quelli che sono giovani adesso, che siamo al terzo millennio, e saranno uomini adulti tra altri dieci anni, come faremo a spiegare che no, la corazzata Potemkin non è una cagata pazzesca? Di più, ci permetteranno mai di spiegarglielo loro così proiettati in un futuro totalmente diverso, estraneo al ventesimo secolo?

Probabilmente la Rivoluzione d’Ottobre finirà nel dimenticatoio, finirà ancorata solo nei libri di scuola, come l’impero romano ed il Risorgimento, pagine di nomi ed eventi senza alcuna anima, alcun cuore.
Probabilmente la mia generazione è l’ultima a tessere, dentro e fuori, di comunismo ed anarchia e socialismo, tessere dentro il cuore, privatamente e, perdinci, pure inutilmente, pure da sconfitti.

Si chiude la serata, Lupo è stracontento.
I suoi occhi chiari che sorridono sono l’epilogo migliore, almeno per me.



 

venerdì 3 novembre 2017

Ombre che danzano



Tu non segui l’esempio, sii tu stesso l’esempio”. Queste parole sono scolpite indelebili nel mio modo di proporre la pratica marziale, a comunicare all’allievo di dimenticare chi sia per lui testimone a cui rimettersi per essere invece lui stesso attore e testimone di quel che fa, del clima culturale che lui stesso va contribuendo a costruire in Dojo, attore e insieme testimone, in un processo di relazione e relazioni che travalica il luogo “Dojo” e la stretta pratica marziale, della società e dell’epoca in cui è calato.

So che insieme, io lui, il gruppo tutto dei praticanti che mi circonda, stiamo costruendo un sogno, non credendo a nessun altro e con la convinzione di demolire tutte le mura issate attorno.
Nulla, stereotipi “marziali”, paccottiglia diffusa ovunque a piene mani da macho men dallo sguardo truce o simil soldatini in divisa acquistata al mercatino dietro l’angolo (e la giovane età testimonia che nemmeno la naja, l’obbligo di leva, hanno assolto), o da efebici intellettuali del verbo mistico a cui mai una goccia di sudore o un paio di sberle sul muso hanno fatto visita, offusca il nostro incedere.

Noi sappiamo che gli uomini sono prima emozione, poi pensiero e solo dopo logica riflessione.
Quando siamo faccia a faccia, in un reciproco guardarsi attento, a tentar di capire se stiamo andando “a male” o, come sembra, stiamo rivoltandoci dentro, respirando in altri mondi, sguazzando di calci e pugni in altri mondi. Mondi che poi siamo ancora noi, noi dentro.
Perché, quando siamo faccia a faccia, stiamo vivendo in questi altri nostri, personali, mondi.

A volte, sono strappi di adrenalina, altre, sono melodie cinetiche, altre ancora sovviene la tentazione di volgere lo sguardo, e non solo quello fisico, verso il basso e tornarsene fra “nani e ballerine”.
Il freddo che sta fuori, sappiamo non ci sarà dentro, nemmeno l’appiccicoso buonismo per cui un “No” debba sempre essere educato, persino esitante, ma nemmeno il “va ffa…” sbraitato per ignoranza codarda.
Solo, tentiamo di non negarci al sogno, coltivandolo ed accudendolo perché, fuori di qui, fuori dalla metafora del dojo e del lottare, non svanisca, piuttosto intendendolo vivere ad occhi aperti, a cuore aperto.

Serenamente coraggiosi, siamo.

E ci chiediamo adesso, qui ed ora, dove siamo, cosa stiamo facendo, come faremo a capirlo, se divelliamo ogni indicatore di direzione, ogni obbligo di direzione.
Allora, ombre nere sguscianti a tracciare macchie indistinte contro questi muri così bianchi, bianchissimi, almeno per quel pugno di ore, non siamo più, non siamo mai, spettatori esterni, ma siamo insieme l’opera e chi l’opera va edificando.

Fuori di qui, tra le vie di Milano e altrove, il mondo altro non si è mai fermato, il consumo senza uso e i battaglioni di amebe la fanno da padroni.
Noi qui ci siamo vestiti di sangue e sudore, di ferocia ed amore, di fragile forza umana, di sorrisi e incessante ricerca interiore Se poi sarà stato solo un breve delirio, una fuga in avanti simile a “mosca cocchiera”, o se invece antichi valori inizieranno a ri – costruirsi dentro ognuno di noi per essere portatori sani di un mondo diverso fuori, allora nessun tempo, nessuna energia, sarà stata spesa invano.

Vittoria o sconfitta non importa, l’etica del Bushido ci impone la nobiltà nella sconfitta stessa, se la battaglia l’abbiamo ingaggiata.



venerdì 27 ottobre 2017

Del corpo e delle emozioni



La chiusura della storica sede di via Simone D’Orsenigo, con relativo trasferimento in via Labeone e modifiche della “struttura” della Scuola stessa, mi lascia con più tempo libero per i miei interessi extra, o meglio, “para” Arti Marziali.
“Para” perché, in linea di massima, la mia passione principe, le Arti Marziali e la pratica fisicoemotiva, mi indirizza verso temi e terreni comunque riconducibili alla corporeità, al confliggere come momento ineludibile di crescita, di conoscenza di sé.

Eccomi allora partecipare ad alcune delle serate che il Centro Studi di Terapia Gestalt, la scuola in cui mi sono formato counselor nel Marzo del 2007, propone lungo tutto l’autunno.
Prima un incontro sull’ipnosi ericksoniana e il mondo dei sogni, poi una serata sul Wingwave coaching.
Ora è la volta di Cristina Tegon, counselor, esperta di terapia corporea, nonché shiatsuka e massoterapista, docente ai corsi di counseling, che ci coinvolge in una serata a tema “Quando le parole non hanno niente da dire”.

Siamo in otto, in cerchio in sala, pronti a sperimentare i primi accenni di comunicazione corporea, di espressione emozionale attraverso il corpo.
Per me è bellissimo entrare nuovamente nel mondo delle relazioni silenziose, del contatto di sguardi.
Sento l’emozione di contatti velati dal mistero e dall’incertezza, dalla sospensione di ogni giudizio. Contatti che tracciano disegni incerti, in cui quanto di me si mischia, si sovrappone su quanto di un altro sconosciuto che mi sta di fronte.

Ogni volta che accade qualcosa di reale… questo mi commuove profondamente”, scriveva Fritz Perls, il fondatore della terapia gestaltica. Ed ogni contatto è sempre un luogo di emozioni profonde. Impossibile sfuggirvi, tuttalpiù ci è possibile provare a negarle, oppure rinchiuderle a forza in qualche interno anfratto sperando che lì restino sepolte per sempre. Ma non è così: le nostre emozioni, quello che siamo “dentro”, torna regolarmente a trovarci, evade dalla cella in cui l’abbiamo rinchiuso e bussa forte, forte per farsi riconoscere ed accettare, forte per incrinare maschere di facciata e sicurezze ostentate. Allora, di nuovo, le ributtiamo dentro, in un alternanza, in un “braccio di ferro” senza sosta che, in realtà, ci logora e ci impedisce di vivere appieno. E’ una sotterranea nevrosi che è indice del tradimento perpetrato a spese della propria visione della vita, della propria autonoma prospettiva della realtà.

Non così per me.

E questa sera è l’occasione per calcare nuovamente lo spazio delle emozioni scoperte, gestite, condivise. E’ l’occasione per riandare agli intensi anni di formazione gestaltica in cui corpi e sguardi si sono toccati, si sono incontrati e scontrati; in cui le parole, pur necessarie, hanno sottostato agli impulsi del corpo inteso come “korper”, parola tedesca intraducibile in lingua italiana se non come “io sono corpo”.
Un paio di semplici giochi, che il tempo è quello dato, mi consentono di vibrare appieno, di lenire la mancanza di contatto umano di cui mai sono sazio.

E penso a luoghi altri da questo, a, che palle!!, quando, al primo incontro, ti chiedono “Che lavoro fai?” (voglia di sbattergli in faccia un paio di righe prese dal “Piccolo Principe”), quando vacanze e trasmissioni TV e frequentazioni di social e cellulari ostentati e “Vai in palestra?” e rigidità corporee esibite in un mix di tatuaggi sconclusionati e sciocchi insieme a inutili muscoli ipertrofici o in carcasse amorfe, decadenti, orribilmente gonfie o stortignaccole di corpi che svelano “corper” in fuga da ogni autentico sé che abbia davvero il coraggio di fare i conti con le proprie pulsioni, sono la norma, sono la regola. Appunto, “Che palle!!
Ogni incontro è per l’individuo anche un nuovo incontro con se stesso, occasione incredibile per approfondire, conoscendo l’altro, la conoscenza di se stesso, osservando le proprie reazioni e cercando di individuarne e comprenderne le motivazioni profonde.
Perché perdere una siffatta splendida opportunità?

Ma questa sera, almeno in parte, quest’opportunità io non l’ho persa, nello scambio con la giovane e sorridente fanciulla che mi stava davanti, né con la metafora squisitamente fisica dell’albero.
Peccato che Cristina non abbia voluto accogliere il desiderio dei più di continuare ancora un poco, giusto per non lasciarci in piena “agitazione emozionale”. NO, così non si fa.
Chissà che queste esperienze, queste “Pillole di Gestalt”, in prossime occasioni, si smarchino da un “brusco coito interrotto” per lasciare a chi si è dato partecipando, il gusto di un distacco, di un post contatto, per dirla in termini gestaltici, meno affrettato e più salutare.

Salgo in auto e torno verso casa.
Comunque, bellissima serata, sia per le emozioni del “Qui ed ora”, sia per gli intensi ricordi che sono affiorati in superficie, ricordi di un triennio che mi ha turbato, sconvolto e mostrato di me e delle mie relazioni un mondo in parte sconosciuto, in parte che io non volevo riconoscere. Grandi e reali insegnamenti di vita.

Accantonate alcune delle prossime serate, scelgo, a metà Novembre, di esserci alla serata dedicata alla “Danza tribal fusion”… il viaggio continua e non si ferma mai.

 

Post illustrato con opere di Henri Matisse, uno dei miei pittori preferiti
 



martedì 10 ottobre 2017

Outfit



Ecco cosa ti chiedo, ecco cosa chiedo a te che hai appena varcato la soglia del Dojo: lascia fuori le tue convinzioni, le tue credenze, persino le tue aspettative.
Come fai con le scarpe, che riponi accuratamente nella scarpiera, per poi attraversare la sala a piedi scalzi o in comode e informali ciabatte, così fa con le tue convinzioni. Lasciale lì, le ritroverai di nuovo all’uscita, terminata la serata, se vorrai ancora indossarle. Nessuno te le porterà via e forse sarai tu stesso, nell’indossarle, a sentirti meno comodo, quasi a disagio, ricordando quell’ora o due in cui hai camminato libero, libero hai percorso una strada del tutto nuova, inesplorata, libero ti sei scoperto corpo agente, corpo vivente, corpo integro.

Certo che è difficile. Sei entrato qua con i tuoi schemi mentali e motori, le tue certezze, a volte una fragilità nascosta dietro espressioni da “duro”; spesso una maschera sul volto, maschera a cui si adeguano, schiavi passivi e infelici, i tuoi gesti, la tua corporeità tutta.

Tocca a me aiutarti a scoprire che i movimenti non sono un semplice meccanismo, un mezzo per raggiungere uno scopo, perché le azioni motorie esercitano un ruolo fondamentale nella formazione della mente, delle idee, condizionano ogni nostro apprendimento.
Movimenti, schemi motori, contatto fisico, sviluppano e plasmano la logica mentale, “melodie cinetiche” le chiamava Alexander Lurija, creatore della neuropsicologia.
Anche solo immaginare un gesto, un azione, attiva nel cervello la corteccia premotoria, nel lobo frontale.

Tocca a me accompagnarti in quella che le neuroscienze ora chiamano “Stimolazione bilaterale degli emisferi”, “Stimolazione neurosensoriale polimodale”, e già secoli or sono l’intuito taoista la chiamava semplicemente “Equilibrio del Tao”.

Allora ti invito a mimare nell’aria, con le braccia, il segno dell’infinito, dell’otto rovesciato, e già solo così, con un gesto semplice e povero, emisfero destro ed emisfero sinistro iniziano a dialogare, ad entrare in connessione. (1)
Sì perché il nostro cervello non è una struttura completamente formata e immodificabile, ma un processo dinamico, in continuo mutamento e sviluppo.

Ogni volta, ad esempio, che incontriamo qualcuno, con qualcuno ci scontriamo, si attivano numerosi sistemi neuronali e aree del cervello. Sono esperienze che, scrive il neuropsichiatra Jean Michel Oughourlian, concorrono a influenzare e modificare, la nostra stessa personalità. Si tratta di un “rapporto mimetico” definito da Oughourlian con il nome di “terzo cervello”. Al cervello cognitivo e al cervello emotivo si aggiunge così il “cervello mimetico”, il terzo cervello, il quale mette in evidenza il rilievo della relazione e della reciprocità. E’ il cervello del sistema dei neuroni specchio, dell’empatia, dell’amore e dell’odio.

Se Perls, il fondatore della terapia gestaltica”, scriveva “Contatto è saper apprezzare le differenze”, ecco che qui, in Dojo, nel contatto che a volte è reciproco aiuto altre è scontro diretto, impari a cogliere e coltivare le differenze, quelle tra te e l’altro ma, prima ancora, quelle che scorrono, si rincorrono, si azzuffano, si mescolano, dentro di te.

Sempre che tu abbia il coraggio, l’azzardo, di lasciare fuori di qui le tue certezze e la tua maschera, o, almeno, tu sia disposto a provarci. Tu sia disposto a fare della tua fragilità, che nascondi e ti spaventa, la leva per creare una forza enorme, inimmaginabile. (2)
Sempre che io sia in grado di accompagnarti, senza annoiarti né stancarti, senza lasciarti deluso per i successi che stentano ad arrivare o spaventato per i successi che, arrivati così inaspettatamente, tanto ti turbano.
Sempre che tu abbia voglia di riaccendere in te quella fiammella guerriera che arde dentro ognuno di noi e che, sovente, le nostre scelte piccole e conformiste, quelle deboli ed insicure che si sono piegate di fronte ad un percorso di studi da prendere, ad un posto di lavoro da lasciare, ad una donna o ad un uomo a cui dire “Basta”, ad un figlio che ci spaventava far nascere, hanno ridotto ad un misero lumicino.

Ti va di ardere nuovamente?

 

 

 

1. “Possiamo dunque pensare al cervello rettiliano di MacLean come corrispondente dell’Es di Freud, cioè degli istinti primordiali, così al cervello paleo mammaliano come sede dell’Io e alla neocorteccia come il luogo del Super-Io, preposto quest’ultimo, come ci ricorda Raffaello Vizioli, alla coscienza morale, alla critica e al giudizio. Si tratta di una concezione che MacLean ha verificato scientificamente, che Platone ha intuito e che Freud ha percorso su altri fronti” (Guido Brunetti)

 

2. L’immagine è atto fondamentale nel processo formativo dell’uomo. La psicologia ci dice che, a livello di strutture ancestrali, gli istinti vengono condotti originariamente attraverso immagini anticipanti. Questo a suo modo legittima la concitata ricerca, e con essa la smodata attenzione mediatica, che induce uomini e donne di ogni età ad essere sempre più succubi dell’ossessione del corpo, con “un atteggiamento simile a quello dello scultore che mai è soddisfatto della sua statua che ricava dal marmo” (Claudio Lombardo); si tenta, così, di ottenere un corpo diverso dai corpi cosiddetti normali e che sia invece ammirato, o almeno accettato, dal proprio Super Io così gracile ed insicuro, come dalla collettività.
Ma quando l’immagine interiore (autoimmagine) – raffigurata artisticamente nel proprio Io – non ricalca l’immagine esteriore (il corpo) si suscita un disallineamento che si manifesta a livello comportamentale. Quest’ultimo, generalmente porta all’indebolirsi dell’interiorità e, nei casi psichicamente più gracili, genera frustrazione, senso di estraniamento, indecisione, disattenzione, confusione dei sentimenti e anche anaffettività.