Lascio a casa Monica e Lupo, contenti di godersi la finale
di X Factor e mi avvio vero lo spazio Avirex.
Il bello di abitare a Milano, e pure in una zona prossima
al centro, è proprio l’aver a portata di … “gamba” più d’una occasione di
semplice svago o culturale
Così, venti minuti di camminata, e sono seduto in poltrona,
pronto per “Charles Baudelaire, come i
fiori”.
Baudelaire è un poeta che lessi negli anni
dell’adolescenza, in un confuso e variegato mescolarsi tra i deliri di Charles
Bukowski e le fragili poesie di Jacques Prevert, la scoperta dell’immenso e
sconosciuto Dino Campana e il misticismo di William Yeats.
Ho sempre amato le poesie, di un amore ormai difficilmente
comunicabile in questi tempi in cui esse sono finite nel dimenticatoio,
quand’anche appartenute ad artisti di grande valore. Figuriamoci a chiedere a
chiunque un dialogo sulla poesia contemporanea, anche solo italiana. Tolto il
nome di Alda Merini, temo che siano ben pochi a conoscere qualcosa della poesia
italiana contemporanea. Lode dunque al mio vecchio compagno di liceo Marco Saya
che, da anni, ha fondato una minuscola casa editrice aperta ai nostri poeti contemporanei.
Troppo poco, però, perché il mondo della poesia sia poco più che una nicchia.
Così, mi lascio cullare dalla magia del teatro dove due
giovani attori, Francesco Errico e Margherita Forte, portano in scena momenti
di vita insieme tra Baudelaire e la compagna Jeanne Duvall, un po’ attrice e un
po’ prostituta, nella Parigi ottocentesca.
Sono gli anni della paralisi alla mano e dell’alterazione
estrema indotta da vino e droghe, delle angosce profonde e della noia, delle
parole a germogliare come fiori.Sono gli anni che vedono alla luce “I fiori del male”, raccolta in grado di suscitare tanto scandalo, nella bigotta società del tempo, che il libro viene i processato per immoralità, costringendo l’editore a cassare alcune poesie.
Mi godo lo scorrere dei versi, mentre Charles e Jeanne
intrecciano duetti amorosi e conflittuali nel loro tran tran quotidiano.
Dentro, salgono emozioni che nessuno, fuori che me, può
mai conoscere; una melodia solo mia, sorta di eco di un’eternità che si
sospende su giorni che a volte sono di grazia, altri di rabbia. Un sottile
riandare a posti a cui sono appartenuto, in cui io ed un altro di me abbiamo
camminato insieme.Come se fosse possibile avere l’occasione di diventare qualcuno di nuovo, qualcuno che io, o altri, potrebbe amare di nuovo.
Le luci, in sala, si spengono. E’ il tempo degli applausi e
degli inchini dei due protagonisti.
Lei, di una fisicità prorompente, ancora sul viso i segni
del dramma vissuto che ha saputo trasmettere, nonostante un impasto vocale
spesso non limpido.Lui, dignitoso in una parte che avrebbe richiesto, a mio parere, una presenza scenica ben più pregnante e poi colpevole di una serie di incidenti linguistici.
“Due passi” nelle ombre che avvolgono il parco sotto casa e
nel traffico sempre sostenuto di corso Lodi.
E’ ora di abbracciare il senso della casa, della famiglia.
Nessun commento:
Posta un commento