Dopo una serata “in solitario” a Teatro,
dove ho ammirato Play, il vivace spettacolo di danza ed acrobazie dei Kataklò
(1), eccomi con Monica al cinema per il tanto pubblicizzato
Green book
La pellicola prende il suo titolo dalla guida automobilistica,
chiamata appunto Green Book, dove erano elencati gli alberghi e i ristoranti
nei quali potevano avere accesso le persone di colore.
Siamo negli anni ’60 U.S.A., gli anni
della segregazione razziale e dei primi tentativi di uscirne.
E’ un film ispirato ad una storia vera,
ben equilibrato, con un’ottima regia e degli attori all’altezza, il che
permette una ricostruzione fedele e accurata del contesto sociale di quegli
anni.
Un film sempre in equilibrio tra humour
e pathos, godibile dal primo all’ultimo minuto.
La trama, sostanzialmente, è un processo
di avvicinamento e riconoscimento reciproco tra due uomini / due mondi assai
diversi tra di loro, dove i protagonisti, poco a poco, mettono in discussione i
pregiudizi su cui avevano basato la visione di se stessi e del mondo,
giungendo, nell’immancabile happy end finale, ad una superiore consapevolezza.
Quella di Green Book non è una favola in
quanto si tratta di eventi veri, ma, durante la visione della pellicola, si
percepisce una specie di magia che la attraversa, un sentore di buoni
sentimenti che inevitabilmente trionferanno.
Un buonissimo sapore che funge da artefice
magico, demiurgo creatore capace di epifania, visione, illusione.
Se, senza dubbio, questa visione
ottimistica, cosi ben descritta nel film, è quella che in questo momento è
cruciale per costruire un mondo migliore per tutti, per affrontare le barriere
di separazione ed odio che, anche nella nostra Italia, contribuiscono a creare
quel clima violento ed ottuso simile a quello che fa da sfondo al film, non
posso non pensare che, tolto il godimento per la bella pellicola e il mio
personale auspicio perché tutto, anche da noi, si risolva in un disneyano happy
end, la questione reale, quella cruda e veritiera, sia ben più complessa ed
aspra.
D’altronde Green book non credo avesse
altri proponimenti che quelli di un buon intrattenimento, con una morale
tipicamente hollywodiana o, per dirla con la nostra cultura, alla “volemose
bene”.
Sono convinto che solo sperimentando e
costruendo una visione d’insieme, potremo tarare il nostro modo di pensare in
un mondo ogni giorno sempre più globalizzato e interdipendente, dove il nostro
personale stare bene riesca, in qualche modo, a sopravvivere dentro scelte
prese lontano da noi e sopra di noi.
Ma questo sarà possibile solo tenendosi
lontani da quella retorica umanitaria che è una sorta di catechismo morale, una
vera e propria ideologia del “bene” che va invece rimessa in discussione in
ogni campo.
Personalmente, come scrive anche Eduardo Zarelli, mi pongo ben equidistante da
quella sinistra che, perdendo la ragione sociale per identificarsi nei diritti
delle minoranze, eleva lo sradicamento universale individualistico a condizione
moderna del liberalismo, come da quella destra che, identificandosi nello
strapotere del mercato, porta con sé “l’esercito di riserva del capitale (cit.
Karl Marx) e la delocalizzazione dello
sfruttamento del lavoro. Entrambe ci allontanano dal tentativo di risolvere i
conflitti nell’effettivo rispetto della dignità della persona e delle
collettività, accettando anche là dove il conflitto sia insanabile.
«L’umanità diventa
più vicina e unita, mentre le differenze nelle condizioni delle diverse società
si allargano. In queste circostanze, la prossimità, invece di promuovere
l’unità, origina tensioni, mosse da un nuovo contesto di congestione globale» scriveva Zbigniew Brzezinski, politologo USA.
Ma, in effetti, questo, al regista Peter Farrelly e a chi
lo ha prodotto, non credo interessasse più di tanto: hanno fatto un bel film,
che ha incassato soldi e premi.
Ben fatto!!
1. Anche in questa occasione ho sperimentato, da semplice
spettatore, diversi approcci corporei allo spettacolo. In particolare, ho
lavorato sulla respirazione traendone sensazioni interessanti e mutevoli
proprio in ragione del come andavo a respirare.
Ammetto di non comprendere come, dopo quanto ho scritto
nel mio post su Bansky, in particolare la “Parte 2”, nessuno si sia fatto avanti
per un chiarimento, un confronto. Eppure ognuno di noi è corpo 24 ore al
giorno, sempre!! Eppure sentirsi consapevolmente corpo, sé fisicoemotivo, è un
tratto distintivo mio e della Scuola che ho fondato. Eppure questo approccio a
360 gradi è totalmente innovativo e condiviso da una sparuta minoranza di
ricercatori a fronte dell’ignoranza dilagante. Nessuna curiosità in materia?
Boh?!