Il filosofo Merleau Ponty ebbe a scrivere “Io sono
quell’animale di percezione e di movimento che si chiama corpo”,
esplicitando una volta di più che non solo la separazione mente – corpo, ma
anche l’unione mente – corpo, quel beffardo “mens sana in corpore sano”,
non stanno in piedi, non hanno alcuna buona ragione o alcun buon intento.
Infatti,
il
corpo non è qualcosa di cui disponiamo,
ma
siamo noi stessi integralmente corpo.
Purtroppo, in sintonia con i
dettami dell’usa e getta, della mercificazione senza limiti, che non esclude il
corpo, anzi, da questa sua perversione (secondo il sociologo e filosofo Jean
Baudrillard, il corpo è diventato “il più bell’oggetto di consumo) questo
“suggerimento” non ha fatto alcuna breccia nel senso comune.
Così, continuiamo a vedere i soliti runners, i soliti
ginnasti, affollare corsi e sedute, parchi e palestre in cui modellano
l’involucro corpo tirandolo da un lato e piegandolo dall’altro, irrobustendolo
qui e stropicciandolo lì seguendo mode e dettami dal sapore ignorante e
pedestre.
Sulle rive del Brenta, tra
alberi enormi ed acque a scorrere lente, oppure calcando, tra case colorate, il
prato rasato di un giardino vasto e sdraiato.
L’animale Ryu, il Drago, mi percorre tutto,
scoprendomi a modulare il respiro in volumi tridimensionali, cassa toracica
consapevole di avere, con un davanti, anche un dietro e due lati, come a toccare
che sono torace dappertutto. Parrebbe cosa ovvia, ma,
statene certi, non lo è. O lo è solo in teoria, perché la pratica corporea, di
movimento, quanto lo sa? Quanto ne è consapevole?
L’animale Ryu, il Drago, mi percorre tutto,
scoprendomi ad ampliare o moderare la colonna vertebrale già col semplice alzare
di spalle, in un continuum armonioso in cui il tutto non è mai la semplice
somma delle parti ed ogni singolo movimento di una parte investe il tutto. Parrebbe
cosa ovvia, ma, statene certi, non lo è. O lo è solo in teoria, perché la
pratica corporea, di movimento, quanto lo sa? Quanto ne è consapevole?
Così, scivolando tra Ryu,
il Drago, e Tsuru, la Gru, e Tora, la Tigre, calco
il terreno aspettando il vuoto, lo yin, il femminile, per dar vita al pieno, lo
yang, il maschile. Ogni volta è la sorpresa del vuoto a calare il silenzio che
diverrà suono, rumore, presenza nata dall’ignoto.
Troppo spesso abbagliati dalla luce, dal chiaro che
presupponiamo sia certezza, dalla forza che presupponiamo sia energia,
dimentichiamo la vita nel buio, nelle tenebre, nel nascosto, e la sua potente
bellezza.
Che struggente sorpresa, mentre
danzo Tanshu, la danza dell’animale predatore, incontrare il
vuoto, lasciarmi stupire dall’assente, dal mancante, che quella carezza che
manca, quella presenza che manca, quel piede che si fa lieve, persino assente,
sul terreno, è l’unico modo per formarmi individuo adulto presente, abile e
potente. E’ il modo migliore perché energia e vitalità salgano in primo
piano.
D’altronde, alle nostre origini
di feto, non fu lo spazio vuoto a permettere il crearsi del pieno? Non fu un
modesto tubo (neurale) a permettere la creazione di quel complesso sistema di
regia ed attività che è il sistema nervoso da cui origina ogni azione?
Abbiamo davvero bisogno di António
Rosa Damásio, neurologo, neuroscienziato, psicologo, per comprendere che “probabilmente
anche la separazione tra mente e corpo è altrettanto fittizia. La mente è
incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello”?
Possibile che una mente in
grado di superare le leggi della fisica perché capace di immaginare luoghi e
tempi violando dunque quelle leggi, di contro ad un corpo che è, per forza,
sempre nel qui ed ora, sia motivo per ancora percepirci scissi dal corpo?
Non
comprendiamo che ciò che chiamiamo mente
è sempre ed ancora corpo?
Eppure offrire al corpo un
riconoscimento e comprenderlo significa comprendere la realtà che ci circonda;
eppure è la fisicità dell’individuo a rendere praticabile ogni narrazione, ogni
ricordo; eppure sono io corpo che vivo e sento e sono responsabile di
ogni mia azione.
Ed è questa consapevolezza
corporea, questa ricca fisiologia del movimento, in grado di contrastare il
dominio capitalistico dell’alienazione, della reificazione, dello sfruttamento.
La possibile trasformazione sociale, l’utopico “sol
dell’avvenire”, parte da qui: dal senso di ogni individuo per se stesso e per
come si muove, come agisce, che personalità va ad acquisire.
Ma, mi guardo intorno, e so che
è una battaglia persa, almeno per ora.
Tra runners e ginnasti che si accaniscono con ogni
strumento di tortura per modellare a loro piacimento il ventre o le cosce,
ciclisti a sudare sulla bici ferma e inchiavata al pavimento nei folli corsi di
spinning, atleti a sollevare e riporre, sollevare e riporre, sollevare e
riporre lo stesso attrezzo con lo stesso gesto ripetuto e ripetuto in
un’ossessione compulsiva… come se il corpo fosse un oggetto altro da sé, una
maglia o un pantalone che si può accorciare o allungare, che riposto in un
armadio si può lasciare per indossarlo nei mesi a venire!!
Come se ogni gesto, ogni movimento, non fosse portatore di
sensazioni e pensieri ed atteggiamenti che, depositati nel cervello, ne
influenzeranno ogni scelta di vita, faranno di noi un individuo che pensa ed
agisce in un modo piuttosto che in un altro, che in un modo piuttosto che in un
altro monta e smonta i propri giorni come i momenti.
“Le
azioni sono inscritte nella carne ancor prima che l’intenzionalità consapevole
agisca e detti comandi. Insomma, non è che abbiamo un corpo ma siamo corpo”
(G.
Dall’Ava)