Pur profondamente contrariato
che la salute sia andata in vacanza, trascurando di essermi compagna, non
intendo rinunciare, per quel e per come posso, a vivere la mia quotidianità.
Eccomi
alla sala Gnomo, all’interno dell’Università Cattolica, alla presentazione di
due libri dedicati alla
Vulnerabilità
Interessante la presentazione, dove una delle autrici
ricorda l’impulso che Brené Brown (1), nelle sue conferenze in
rete, le diede nell’affrontare la vulnerabilità come risorsa. D’altronde anche
io nei video della Brown trovai ispirazione e slancio per meglio definire il
mio passaggio da una pratica marziale che, pur già staccandosi dai concetti di
forza e durezza abbracciando invece flessibilità e dolcezza, ancora non aveva
bene chiari i concetti teorici dentro i quali completare una pratica siffatta.
(2)

Fare della vulnerabilità
un’occasione di crescita e potenza, fu per me percorso immediato anche se non
agevole. Percorso in cui più volte persi la direzione. Percorso lungo il quale
persi anche più di un allievo, smarritosi perché accanto ad una ricerca continua
che eludeva dogmi e certezze ora fioriva anche una epistemologia (3) del
tutto nuova e lontana da quanto l’ambiente marziale dava per scontato, per
assodato, per sicuramente condiviso. Un percorso di ricerca e di avventura non
adatto a chi chiedeva certezze e rassicurazioni e, probabilmente, in cui io non
fui in grado di sostenere i più deboli, i più fragili, mostrando loro, col brivido
di attraversare le insidie del “bosco” (4), anche quanto ciò li avrebbe
arricchiti e fortificati.
Sì che la Tradizione marziale, checché ne dicano machisti,
muscolati, palestrati, fautori del “No pain no gain”, dei mille
piegamenti (piegamenti, non flessioni!!) sulle braccia e delle sfiancanti serie
di esercizi per gli addominali, dei volti truci e mai sorridenti (5),
delle tecniche (waza) ripetute cento e mille volte, ha inscritto
in sé concetti quali flessibilità, adattabilità, adesione e trasformazione
della forza dell’opponente volgendola a proprio vantaggio.
“L’Aiki
è un mezzo per raggiungere l’armonia con un’altra persona in modo tale che tu
possa
farle fare ciò che desideri”
(M.
Ueshiba 1883 – 1969 fondatore dell’Aikido)
“La
forza interna è più sottile e meno immediata, ma non per questo meno potente.
Essa incorpora aspetti come la fluidità, la consapevolezza e la capacità di
adattamento. Comprendere e applicare la forza interna richiede dedizione e
disciplina, poiché non è visibile e palpabile come la forza esterna”
(https://www.makoto.it/post/equilibrio-tra-forza-esterna-e-forza-interna-una-filosofia-delle-arti-marziali)
“La
flessibilità può neutralizzare la forza bruta che fa di questa disciplina non
solo una semplice arte marziale o uno sport ma una vera e propria filosofia di
vita.”
(J.
Kano 1860 – 1938 fondatore del Judo)
Ma torniamo alla presentazione
dei due libri.
In particolare, mi lascia perplesso il ripetuto accostare
“vulnerabilità” a successo. Come se la dolcezza forte della prima fosse di per
sé garanzia di una prestazione vincente, come se la vulnerabilità fosse un’arma
in più in vista del successo.
Espongo i miei dubbi, suscitando subito la risposta piccata
di una delle autrici. La comprendo.
- Da un lato è questo il momento in cui è lei sul palco, è
lei una delle “regine” dell’evento, e questo mio avanzare dei dubbi incrina
l’aura di momentaneo potere che le viene dato; difficile mantenere
l’equilibrio, accogliere prendendosi il tempo di “masticare” quanto arrivato e
poi donare una riflessione pacata; difficile, insomma, accettare concretamente
di essere vulnerabili!!
- Dall’altro, viviamo tempi in cui il pensiero collettivo è
sempre teso a spronarci al successo, al superamento dei limiti, all’emergere
dall’anonimato, dunque viene immediato, viene facile, quasi inconsapevole,
accoppiare qualsivoglia stato emotivo ad un finale sempre positivo, sempre di
successo. Beh, uno dei libri reca in copertina proprio questo mefistofelico
accoppiamento!!
Eppure, per me, la forza
dell’essere vulnerabile sta proprio nel rischio di essere travolti, schiacciati
dalla prepotenza, dalla concreta possibilità di non raggiungere il traguardo
perché frenati da ostacoli insormontabili.
Per tanti anni “vulnerabilità”
ha fatto il paio con debolezza e gracilità, con uno stato emotivo da celare
agli altri e di cui vergognarsi a fronte de “L’uomo che non deve chiedere
mai” (6), dell’arroganza e prepotenza come manifesto di
riconoscimento ed affermazione.
Io credo invece che riconoscersi vulnerabili è autentica
forma di audacia, di coraggioso amore per il rischio, di consapevolezza che può
accadere di fallire accettando il fallimento come una delle possibili risposte
della vita. Essere vulnerabili è essere autentici.
“… e
invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di
gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e
dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarsi con più
facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni,
nei
modi di essere esistenziali, degli altri da noi”
(E.
Borgna 1930 – 2024 psichiatra e saggista in ‘La fragilità che è in noi’)
Chiunque pratichi davvero
l’Arte del combattimento, leggendo quanto sopra, ha già capito l’importanza
della vulnerabilità, di abitare un registro emozionale delicato non solo
come parte integrante del vivere, ma anche come premessa fondante la capacità
di essere individui autentici e, in quanto tali, capaci di accogliere e
comprendere l’altro e l’ambiente.
Sarà scelta autonoma di ognuno che farsene di tale
comprensione: Per prevaricare l’altro o per creare una relazione soddisfacente
per entrambi.
Chiunque eserciti pratiche
conflittuali di contatto ha già capito, spero, come esse possano essere di
autentica qualità, di autentica crescita e trasformazione, solo ed
unicamente se esperite a partire da emozioni delicate e sensibili. E a culo
i vari macho man che affollano il teatro delle Arti Marziali portandovi
il loro celodurismo, il loro pesante bagaglio di certezze e verità
assolute, il loro “Uomo che non deve chiedere mai”.
Anche perché, come ci ricorda la filosofa Simone Weil: “La
nostra carne è fragile: qualsiasi pezzo di materia in movimento può
trafiggerla, lacerarla, schiacciarla, oppure inceppare per sempre uno dei suoi
congegni interni. La nostra anima è vulnerabile, soggetta a depressioni
immotivate, penosamente in balìa di ogni genere di cose, e di esseri
altrettanto fragili o capricciosi. La nostra persona sociale, da cui dipende
quasi il sentimento dell’esistenza, è costantemente e interamente esposta al
caso”. (in ‘Attesa di Dio’).
1. Brené Brown 1965 –.
Accademica e ricercatrice. https://brenebrown.com/
2. Come sa chi mi accompagna da
tempo, il mio procedere è sempre prassi – teoria – prassi di contro a
chi invece privilegi teoria – prassi – teoria.
“Il rapporto teoria-prassi rappresenta uno dei nodi
cruciali dell’epistemologia pedagogica. Si tratta, indubbiamente, di un
rapporto da concepire in chiave di unità dialettica: la teoria, senza prassi, è
vuota; così come la prassi, senza teoria, è cieca. In altre parole, una teoria
senza relazione con i problemi delle pratiche educative finisce per risultare
astratta ed inefficace; ma, al tempo stesso, una prassi che si esaurisce nel
far fronte in maniera immediata a tali problemi, senza lumi teorici, rischia di
vagare nel buio, di andare per tentativi.” (M. Baldacci in ‘Teoria, prassi
e “modello” in pedagogia’)

3. ‘Nella filosofia del sec. 19°,
la parte della gnoseologia che più in particolare si occupava dei metodi e dei
fondamenti della conoscenza scientifica. In un’accezione più moderna e
corrente, che prescinde dalla priorità dell’indagine gnoseologica e preferisce
insistere sull’esemplarità della scienza positiva, s’intende per epistemologia
l’indagine critica intorno alla struttura e ai metodi (osservazione,
sperimentazione e inferenza) delle scienze, riguardo anche ai problemi del loro
sviluppo e della loro interazione, sinon. quindi di filosofia della scienza;
può riferirsi anche all’analisi critica dei fondamenti di singole discipline:
epistemologia della matematica, e. della fisica, ecc., o della conoscenza in
quanto tale (e. genetica, e. evoluzionistica)’.
(https://www.treccani.it/vocabolario/epistemologia/)
4. Letteratura, fiabe e psicoanalisi ci ricordano l’importanza
dell’attraversamento del bosco come metafora della discesa nel nostro sé più
profondo per uscirne adulti autodiretti, coraggiosi, vitali ed erotici: “Andate
nel bosco, andate. Se non andate nel bosco, nulla mai accadrà, e la vostra vita
non avrà mai inizio” (C. Pinkola
Estés, scrittrice, poetessa e psicoanalista). Che, nelle Arti Marziali
realmente tali, è il necessario attraversamento e la compenetrazione tra Bujutsu,
la pratica di uccidere per non essere uccisi, e Budo, la Via per
divenire un uomo migliore: “Termine utilizzato nel XX secolo per designare
le arti marziali con un fine prevalentemente ‘pacifico’ che indicava, oltre a
discipline fisiche e di combattimento, anche dei concetti di natura etica,
filosofica e morale” (L. Frédéric in ‘La Arti Marziali dall’A alla Z’)
5. “C’è una gran differenza tra il vivere con una
espressione gentile ed il vivere con una espressione truce. Col passare del
tempo non solo cambierà l’espressione degli occhi, ma cambieranno anche il viso
della persona e la sua visione della vita“ (K. Tohei 1920 – 2011 Maestro
10° dan Aikido in ‘ La coordinazione mente – corpo’)
6. Nota pubblicità televisiva degli anni ’80 che offriva
un’immagine di quella mascolinità, che oggi definiremmo tossica, per cui si
riconosce un vero uomo dal fatto che non debba chiedere nulla ma prendere ciò
che vuole.