Non sempre mi conosco, quasi un artista nelle mie danze
di melanconia che mi entra dentro e un poco mi incanta.
Come a danzare, schivate e calci e pugni e leve
articolari, il mio viso stesso dentro il vento, scrutandone il domani, il
destino medesimo.
So che questa è danza di presente, ma so che, come ogni
presente, raccoglie le tracce del passato e anticipa il futuro.
E allora resto qui, ammantato di melanconia, sbattuto tra
l’impotenza di un sogno e la lettura di una semplice verità.
E’ il giorno di Pasqua, quella che considero la festività
più bella perché si immola l’agnello, ovvero si compie un sacrificio; scorre
tanto sangue, ovvero ci si purifica; ci si libera del faraone e ognuno di noi
ha uno, cento, mille faraoni dentro di cui liberarsi.
E’ il giorno di Pasqua, la famiglia lontana, ed io in
questa realtà milanese a ritagliare fette di spazio, danzando il mio Tai Chi
Chuan tra gli angoli di un verde che conosco, quei giardini “Marcello Candia”
che sono spesso il palcoscenico di una mia rappresentazione.
Come sto? Sto bene.
Solo con me stesso a inventarmi un po’ qui e un po’ là;
un gioco che non è mai vecchio, anzi, si rinnova ogni volta che busso alla
porta del Tai Chi Chuan e gli chiedo di farmi compagnia.
E’ un gioco che sempre si rinnova, che non ha mai fine,
piccola illusione che si fa vera e concreta.
Ogni anziano ha la sua minuscola follia. Ogni bimbo la
sua magia. Ogni adulto “guerriero” le sue personali battaglia da combattere e …
vincere, o, almeno, non perdere.
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