Regia di Duccio Chiarini, con Daniele Parisi, Silvia
D'Amico, Anna Bellato, Thony, Sergio Pierattini.
Impressionante, nella sua cruda
realtà, la frase che, più o meno, recita così: “La nostra generazione
ripara, questa getta via”, detta dai genitori del protagonista.
Frase che testimonia, in questo film tenero e struggente,
una svolta epocale.
Non solo abitiamo anni in cui l’oggetto
consumato, al primo intoppo, viene buttato e cambiato, che tanto costa meno
comprarne uno nuovo; addirittura, alcuni oggetti: cellulare, lavastoviglie,
televisore ecc. sono costruiti in modo tale da avere una precisa e limitata
durata nel tempo (1). Fino alla desolante e vieppiù diffusa pratica di
un consumo senza uso!!
Ecco, estendiamo quanto sopra
alle relazioni amorose, che sono il campo d’azione di questa pellicola, ed
avremo il triste e tristo quadro della situazione.
Certo, non sono più i tempi in cui una coppia si obbligava
a restare tale per non suscitare scandalo o perché uno dei componenti (solitamente
la donna) non era autonoma nei mezzi di sostentamento.
Ma da qui a questa pazza altalena di coppie in cui c’è chi si
premura di “scopare” un’ultima volta la partner la domenica che, a lasciarla il
lunedì, soffrirebbe di meno perché distratta dal lavoro; chi, già con un figlio
ed in attesa del secondo, insegue chissà quale giovinezza spensierata tra le
braccia di un amore di gioventù, non è che io veda un miglioramento!!
Sono quarantenni incapaci di
costruire relazioni profonde, e perciò stesso stabili, perché spaventati dalla
responsabilità di affrontare anche i conflitti, le tensioni, che queste
comportano.
In questo teatro di fragilità e contraddizioni, si muove Guido,
“l’ospite” in quelle case, in quelle relazioni e lui stesso “ospite” nella sua
di relazione amorosa.
Anche lui fragile e insicuro, ma animato da una curiosa
tenerezza e da una vulnerabilità che sa essere forza gentile. E sono queste sue
caratteristiche a fargli attraversare lieve i mondi disordinati e, a tratti
dolorosi, delle coppie amiche come del suo stesso mondo. Lo fa senza giudizi,
senza acredine, in una faticosa ma innocente accettazione di quel che è, non
disperando, altresì, di incontrare e costruire quel che sogna.
Nelle prime battute, potrebbe
lasciare sconcertati, persino indispettiti, questo suo emozionarsi plateale,
questo mostrarsi insicuro, incerto e, a tratti, spaesato. Ma sta proprio qua la
sua forza interiore (2): non teme di riconoscersi tenero e fragile, non
teme di lasciarsi scoprire dagli altri così tenero e fragile, ma sarà proprio
questa sua non nascosta vulnerabilità a permettergli di tenere alta la testa e
sincero il cuore nelle avversità della vita.
Niente uomo che “non deve chiedere mai”, niente uomo
(ma anche donna, in una parità tra i sessi raggiunta sul piano
dell’esibizionismo e della sfacciataggine volgare) “vetrina”, semplicemente un
uomo.
D’altronde, questi sono gli
anni del lavoro flessibile che è, in realtà, lavoro precario; di una pretesa flessibilità
psichica che è, in realtà, sminuzzamento e frantumazione psichica.
D’altronde, queste sono le generazioni in cui il complesso
di Edipo ha lasciato il posto ad un narcisismo totalizzante (3), ad una
esposizione tanto massiccia quanto sciocca e superficiale sui social.
D’altronde l’essere umano, quand’anche si sforzi di essere
coerente, è intriso di contraddizioni, debolezze, slanci generosi e tetre chiusure
e solo l’esserne consapevole può permettergli di tenere, comunque, la “barra
dritta” durante la navigazione nella vita.
D’altronde, queste sono le generazioni private e prive di
ogni riferimento ideale, quand’anche fosse ideologico, e di ogni capacità
combattente; cresciute nel mito del progresso illimitato e del pacifismo ad
oltranza.
Sono i nati tra gli anni ’70 ed ‘80, figli del benessere e
della “Milano da bere”, in un mondo che è diverso, in cui le condizioni sono
diverse e dunque questi quarantenni e cinquantenni sono essi stessi diversi:
aperti alle emozioni e forse più acculturati, ma deboli e vili, incapaci come
sono di lottare in ciò in cui credono o, ed è ben peggio, senza più aver nulla
per cui valga la pena lottare e credere.
Ed ecco tornare la figura lei
stessa sconnessa, fragile, ma teneramente forte di Guido che, nella scena
finale, vediamo seduto sul suo vecchio divano, quello che non aveva i soldi per
cambiare ma che gli piaceva lo stesso, con cui si sente a casa e in pace con se
stesso e con gli altri.
A mostrarci che, da adulto consapevole, sa farsi bastare
quel che ha, tanto quanto sa andare incontro, tra cadute e ripensamenti
e debolezze, al suo sogno, piccolo o grande che sia, per costruirlo e
difenderlo.
Perché ognuno può essere adulto consapevole e maturo,
ognuno può essere un combattente, un guerriero, accettando le proprie ed altrui
bugie, le proprie ed altrui miserie, le proprie ed altrui cadute, senza mai farsene
scudo o giudicare, privilegiando alla ricerca del “perché” quella del
“senso” delle cose, senza mai perdere l’entusiasmo di credere e lottare.
Intensa e convincente la
prestazione di Silvia D’Amico, che ho apprezzato sia in pellicole scadenti come
“Il colpo del cane” che in momenti di alta qualità come “The Place”, “Hotel
Gagarin”, “Non essere cattivo”.
Davvero brava.
1. Si chiama “obsolescenza programmata”, ovvero fabbricare un
prodotto con la precisa intenzione di farlo durare poco e alimentare così il
consumo.
2. “Alla conoscenza delle proprie fragilità non si
giunge se non sulla scia dei sentieri che portano alla nostra interiorità, e
che costa fatica seguire, perché ci confrontano con le nostre emozioni e con le
nostre sensibilità, con le nostre angosce e con le nostre speranze recise, dalle
quali è più comodo fuggire ignorandole, o rifiutandole, e vivendo come se non
fossero in noi” (E. Borgna)
3. Il soggetto che ne soffre sviluppa una vera e propria sorta
di fissazione per l’immagine che rimanda agli altri.
“L’uomo libero è un uomo ridotto a pura spinta
a godere (…) questa nuova rappresentazione dell’uomo è alternativa all’uomo
ideologico del Novecento perché ciò che lo muove non sono più le grandi
passioni ideali, ma la spinta compulsiva del godimento mortale” (M.
Recalcati)
Nessun commento:
Posta un commento