venerdì 20 gennaio 2012

Lavorare rende liberi ?

Priva del punto interrogativo, questa frase campeggiava all’ingresso del campo di sterminio di Dachau.
Azzzzzzzzzzzzzzz……….

   Tutti noi abbiamo sotto gli occhi il crescente divario tra la ricchezza di una elitè privilegiata ed il progressivo impoverimento della maggioranza degli italiani.
Meno sotto gli occhi, ma basta poco per accorgersene, monta sempre più lo scontro “orizzontale”, quello tra ”poveri”: vecchie generazioni contro nuove generazioni, lavoratori dipendenti pubblici contro lavoratori dipendenti privati, lavoratori a contratto indeterminato contro lavoratori a contratto precario, lavoratori contro disoccupati, ecc. che ha sostituito quello “verticale”, indirizzato contro chi detiene il potere. (la vecchia lotta di classe, quella che, solo a nominarla, pare di essere veterocomunisti trinariciuti, vecchi residui di un tempo che fu; persone, insomma, un po’ nostalgiche ed un po’ fuori dal mondo. D’altronde, quando un componente del nostro attuale governo, 249.000 euro di reddito dichiarati, sostiene di non essere ricco…)
Divisioni laceranti, diseguaglianze vistose, incertezza quando non sconforto verso il futuro sono i sintomi di malattie in cui siamo calati, malattie che minano la convivenza civile e la stessa democrazia.
Se questo quadro mi pare ampiamente condivisibile … ecco, io ho qui intenzione di inserirvi alcuni schiaffi di pennellate, alcuni tratti di colore che mostrino nel quadro figure, ombre del tutto sommerse, fino, forse, a ripensare quel quadro in un modo del tutto diverso. Forse ad abbandonare quel quadro … ma, chi mi conosce lo sa, io sono un  un eretico e frequenti nostalgie marxiane mi prendono.
Allora, senza farla troppo lunga, ecco le prime audaci pennellate.

Tutta la nostra vita la organizziamo ed altri ce la organizzano in funzione della riuscita a vendere il nostro lavoro. Una scuola che si vuole sempre più prossima alle competenze richieste sul luogo di lavoro senza alcuna attenzione verso la crescita,  la formazione dello studente;  risultati elettorali che, nella promessa di posti di lavoro, premiano non il politico, che di mestiere fa quello, ma chi, sceso in politica e però di mestiere fa “il datore di lavoro”, ovvero ha sfondato nella vita (vita = mercato del lavoro) è ritenuto più affidabile nelle sue promesse di posti di lavoro; corsi di aggiornamento proposti dal gestore e valutati dal cliente non in base ai contenuti ma ai crediti formativi che essi danno: crediti che, simili ai bollini del supermercato, permetteranno di ottenere il regalo finale ( l’orziera o il posto di lavoro); un governo di emergenza i cui componenti non sono stati scelti in base alle loro capacità di offrire il bell’essere all’individuo (1) bensì al loro essersi imposti sul mercato del lavoro nelle sue diverse sfaccettature o di essere teorici affermati di questioni inerenti il mercato del lavoro.
Insomma, tutta la nostra vita ruota attorno al mercato del lavoro, ad essere merce appetibile, facilmente collocabile sul mercato del lavoro. Quel che mi colpisce, ogni volta che, per la mia professione, conduco colloqui di lavoro è che Tizio, disoccupato, prima ancora che giustamente in crisi per la mancanza di sostentamento economico, lo  è perché si sente inutile, non sa che fare, si considera un perdente, un emarginato ( potremmo dire un extra comunitaro (!?), ovvero uno fuori dalla comunità di chi lavora, che è l’unica comunità generalmente condivisa ) perché, da disoccupato, è fuori dal mercato del lavoro e perciò entra in depressione, entra in crisi di identità.
Del mercato del lavoro abbiamo fatto il nostro dio. E questo proprio in anni in cui esso viene a ridursi, in cui ce n’è sempre meno (2). Bella contraddizione, vero ? C’è sempre meno lavoro e noi siamo ben considerati, ben identificati, solo se siamo della collocabile merce lavoro.
 
Ecco che una delle principali condizioni per riconoscerci, per identificarci, diviene l’essere dentro o fuori il mercato del lavoro. L’essere buona o cattiva merce, l’essere capaci o meno di sconfiggere l’altro nella corsa a vendersi. Ecco una prima radice di conflitto, conflitto insanabile se accettiamo le premesse.
Scrive PG. Reggio nel suo “Il quarto sapere”: “Il ritorno a casa dell’esperienza è l’apprendimento, la comprensione”, ovvero apprendimenti da usarsi poi nel vivere d’ogni giorno, nelle relazioni quotidiane e nella propria quotidiana storia. Io che lavoro, che sono una buona merce lavoro, traggo esperienze da questo mio stato che riverso in modi di vivere quotidiani a cui tu, che non lavori, non hai accesso.
Quanto di conflitto insanabile, di steccato insormontabile, andiamo a costruire nel momento in cui accettiamo  l’identificazione attraverso l’essere una merce lavoro ? Io sono io perché lavoro, tu sei altro da me, diverso da me perché non lavori e, in situazioni di scarsità di lavoro, questa mia identificazione mi fa osteggiare che anche tu entri nel mercato del lavoro ( e se il tuo ingresso espellesse me ?), mi fa temere un’identificazione che comprenda anche te. (3)
Tutto questo mentre gli individui difficilmente riconducibili allo stato di merce, sono, per legge di mercato ! ( non, dunque per una “una lotta di classe” del tutto assente, per una presa di coscienza che tolga il mercato del lavoro dal piedistallo in cui è ora ), sempre di più: disoccupati stritolati in uno stato di disoccupazione che il pensiero dominante fatica sempre più a tacere essere strutturale; migranti impossibilitati ad essere convertiti in merce, tuttalpiù ridotti a sotto merce, scambiati di nascosto e sotto prezzo nel “mercato nero”.
Ecco, questo non opporsi al mercato del lavoro come regolatore delle nostre vite, questo accettare la scarsità come misura e criterio del possibile ci porta nella direzione ben descritta da Enzo Spaltro: “se ho fiducia di essere soddisfatto io ho desiderio, se non ho questa fiducia ho bisogno (…) Il rinvio dei desideri e la loro inevitabile trasformazione in bisogno rappresenta un elemento di partenza per il ciclo conflittuale” (”Il significato della rivoluzione”).
Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza”, scriveva Carlo Marx. Ma prendere per buona questa frase senza rompere il mefistofelico giocattolo del mercato del lavoro lo vedo impossibile. Allora, con intimo  terrore, guardo la foto di Dachau e quella scritta che lì campeggia “Arbeit macht frei”: Il lavoro rende liberi.

1.       La ricchezza poi non è solo materiale, va intesa sempre più come benessere – soggettivo e come miglioramento della qualità della vita” E. Spaltro “Psicologia e Lavoro” Aprile – Giugno 2004.
Se il benessere ce l’hanno in pochi mentre la stragrande maggioranza della popolazione permane in condizioni di malessere diffuso, lo sviluppo non avviene velocemente, anzi rallenta. Oggi è chiaro che finché alcune parti del pianeta soffrono la fame, le altre parti rallentano lo sviluppo. Se il benessere è diffuso ce n’è per tutti. Se è concentrato ce n’è per pochi” E. Spaltro “Psicologia e Lavoro” Luglio – Settembre 2005.
2.       Nel bel libro di Robert Cialdini “Le armi della persuasione”, viene bene spiegato questo meccanismo. C’entra solo in parte, ma qui mi piace ricordare l’inkazzatura che presi nel leggere il trucco adottato dalle case produttrici di giocattoli per incrementare le loro vendite. Prima di Natale, la casa XW pubblicizza il gioco Y. Mio figlio lo inserisce nell’elenco dei giocattoli che chiede a Babbo Natakle ed io, diligente, giro per negozi a comperarlo. Giro infruttuosamente perché il giocattolo Y è esaurito, mentre abbondano i giocattoli Q, Z, R … Compero uno di questi e, sorpresa, subito dopo Natale il giocattolo Y ricompare in massa nei negozi. Che faccio ? Non lo compero perché a mio figlio ho già comperato Z ? Certo che caccio altri soldi per il malefico  Y!!! Ai tempi, imprecavo contro la dabbenaggine di produttori e distributori. Poi, una dozzina di anni oro sono, lessi questo libro e capii. La casa XW pubblicizza ed ingolosisce con Y, diffondendone però pochi esemplari, mentre diffonde in massa i vari Q,Z.R, magari prodotti obsoleti, così il povero pirla (io) compera uno di questi, tanto poi, quando subito dopo Natale la casa XW inonderà i negozi del giocattolo Y, la casa produttrice  sa che io andrò comperarlo !!
3.         In contrasto con ‘comunità’, che generalmente indica una comunità di lavoro identitaria, chiusa (…) il termine comunanza (in mancanza d’altri) può essere impiegato per indicare una forma di socialità non basata sulla compra – vendita del lavoro, aperta all’alterità e libera dall’ossessione dell’identità.” A. Ponzoni, nell’intervento al Seminario: “Non di solo lavoro”.

3 commenti:

  1. da ex resistente al lavoro, ora inseritomi in questa tela (cosciente di esserlo cmq anche in precedenza,volente o no), mi sento preso in giro. Faccio parte di una società che si basa non su di un sistema evolutivo,che tende a migliorare l'uomo e il suo stare nel mondo bensì di un sistema di produzione e sfruttamento dell'uomo sull'uomo stesso, trasformando ogni cosa in merce,noi compresi.
    Bisogni e necessità che ci vengono negate o che cmq sono anch'esse un prodotto da vendere (affitto,luce,gas,cibo)..a volte mi domando se c'è differenza tra come stavo prima,nel senso del sopravvivere,occupando case sui monti e in città, arrangiandomi per luce e acqua (da allacci absivi a taniche e candele e un fuoco). Almeno non mi sentivo preso in giro..ma questo è il mondo e se ci sono cose che non si possono cambiare altre sì..
    Il cibo, nella ocietà consumistica si compra e si lavora per poterlo fare.Ok? ma se non ho un lavoro? io continuo osando come fanno gran parte degli uomini (almeno credo) e con un contratto indeterminato che scade a luglio rischio e prendo una casa in affitto, la necessito come ognuno di noi.Ma se a luglio non mi rinnovano il contratto?io ho 34 anni e me la posso sempre cavare in qualche modo tirando la cinghia se necessario,ma chi ha famiglia? chi non ha più 30 anni?già se stai male grazie al Brunetta mi tolgono almeno 200 euro dalla busta paga per una settimana di malattia (e non contiamo le spese per i farmaci necessari).E così tutti giocano ad inculare tutti..no tutti per fortuna no, non ancora..

    TUTTI GLI ESSERI DI QUESTO PIANETA INCOMINCIARONO ALLORA A LAVORARE per avere nella loro coscienza questa funzione Divina di genuina coscienza e, a questo scopo, come ovunque nell’Universo, essi transustanziarono in loro stessi quelli che sono chiamati i “partldogdoveri esserici” che consistono nei seguenti cinque:
    Il primo dovere: avere nel proprio essere-esistenza tutto quanto soddisfi e sia veramente necessario per il proprio corpo planetario.
    Il secondo dovere: avere un bisogno istintivo, costante ed inflessibile, per l’auto-perfezione nel senso dell’essere.
    Il terzo: lo sforzo cosciente di conoscere sempre di più sulle leggi della creazione del Mondo e del mantenimento del Mondo.
    Il quarto: lo sforzo, dall’inizio della propria esistenza, di pagare al più presto il debito del proprio nascere e della propria individualità, in modo di essere liberi di alleviare il più possibile il Dolore del nostro Padre Comune.
    Ed il quinto: lo sforzo di prestare sempre assistenza al perfezionamento più rapido possibile di altri esseri, sia quelli simili sia a quelli di altre forme, fino al grado del sacro ‘Martfotai,’ ovvero fino al grado dell’auto-individualità.

    I RACCONTI DI BELZEBÙ

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  2. http://www.youtube.com/watch?v=_-jqlHZV89g ;)

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  3. L'essere umano ha un bisogno ancestrale: il gruppo.
    E' un bisogno talmente forte da essere preceduto solamente da quello alimentare e dal riposo.
    L'istinto del gruppo: ovvero la manifestazione di come un essere goffo e sgraziato abbia potuto diventare l'animale dominante del pianeta. Il gruppo, ancestralmente, significava maggiori probabilità di successo nella caccia, maggiore sicurezza nella difesa; in una parola, maggiori probabilità di sopravvivenza. Considarare la suddivisione di compiti (e quindi, se vogliamo, la nascita del lavoro come elemento sociale) prescindendo da questo istinto ancestrale (che, giova ripeterlo, è il terzo in ordine di importanza) vuol dire fare un esercizio di retorica fine a sé stesso.
    La società moderna, così come previsto da Marx, ma soprattutto da Nietsche (entrambe si ricollegavano in qualche modo a Smith) è diventata quello che è perché il concetto di lavoro inteso come "cooperazione" tra individui è stato sostituito da quello di lavoro come "competizione" tra individui dello stesso gruppo.
    Fino alla metà degli anni '80 del secolo scorso, il "lavoro" è stato legato a doppia mandata alla produzione di beni e servizi che dovevano migliorare la qualità della vita. In questo senso l'appartenere al cosiddetto "mondo del lavoro" era sentito come motivo di orgoglio da parte del lavoratore. Poi, nacque una forma economica affatto nuova e scissa completamente dalla produzione: l'economia delle banche.
    Questa forma di "economia della carta straccia" era destinata fin da subito a fallire. Dopo un primo momento in cui sembrava che la ricchezza si potesse fabbricare dal nulla, sarebbe inevitabilmente emerso il vero nodo della speculazione: l'arricchimento sempre maggiore delle classi ricche a svantaggio delle classi medie e medio basse.
    In Italia, paese atavicamente legato a corruzione e clientele, questo ha significato l'ascesa al potere di un manipolo di manigoldi senza scrupoli che hanno operato una profonda macelleria sociale, della quale le generazioni future continueranno a pagare il fio. Giova ricordare che Berlinguer (deceduto nel 1984) ha fatto sempre della cosiddetta "questione morale" uno dei propri cavalli di battaglia. Il "lavoro", da elemento di valore sociale (è COMUNQUE necessario continuare a considerare il contratto sociale per inquadrare il problema nel giusto aspetto) si è trasformato in elemento di conflitto civile in senso orizzontale, proprio perché la nuova economia ha trasformato la dignità di sentirsi parte di un gruppo in "essere schiavo" dei bisogni primari.
    E la cosa buffa è che il massacro sociale non è ancora finito! Siamo nelle mani di una gerontocrazia nata e cresciuta professionalmente ed ideologicamente proprio negli anni dell'economia della carta straccia e che non ha nessun interesse a cambiare registro.
    Come uscire da questa situazione?
    Certamente restituendo al "lavoro" l'aspetto di utilità sociale; il sentirsi parte di un gruppo del quale si condividono idee ed interessi. Estensione della solidarietà sociale, tolleranza, approccio culturale e formativo che premi la crescita individuale, sono solo alcuni degli aspetti in grado di modificare il concetto di "lavoro" da "schiavismo" a "dignità".

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