Sul
divano di casa, con Monica, a vedere questo bel film italiano del 2013, primo
lungometraggio di Enrico Maria Artale.
Nulla
di eccezionale, ma una pellicola comunque godibile e che ha diverse chiavi di
lettura.
La
trama non è nuova, anzi: c’è il giovane disadattato e arrabbiato ad un piede
dal precipitare in una vita criminale; c’è l’uomo, un assistente sociale, che
gli farà da “guida” nell’inserimento sociale, quel padre che il giovane non ha
mai avuto, che è un disilluso, distrutto
da una tragedia privata e che affoga nell'alcool i suoi fallimenti; c’è la
scontata, scontatissima, storia d’amore tra il ragazzo e la figlia dell’assistente
sociale.
Infine c’è lo sport (in questo
caso il rugby) come viatico di redenzione in quanto maschio e leale sport di
contatto, dove più che il singolo conta il gioco e lo spirito della squadra,
dove impera “il terzo tempo” (da cui
il titolo del film): al temine di ogni partita, le due squadre avversarie si
ritrovano a bere e mangiare insieme quale riconoscimento del valore reciproco e
della fratellanza che unisce gli sportivi.
Perché
scrivere sul mio blog di questo film ?
Proprio
per il personaggio di Vincenzo, assistente sociale malandato e coach della
squadra.
Questi
non fa nulla per nascondere al ragazzo le sue fragilità, i suoi ripetuti errori.
Non si pone come un modello ideale ed idealizzabile, ma come un adulto in preda
a un malessere profondo e pure dipendente dall’alcool. Un autentico perdente,
insomma, inviso ai suoi stessi capi. Ma in lui cova e si sprigiona una sana
energia, una coinvolgente forza d’animo quando allena la squadra di rugby. Lì è
leader carismatico, lì è educatore a 360°.
Vedo
Vincenzo e penso ..
Penso
a tutti quei Maestri, Sifu, professori di Arti Marziali e pratiche di
combattimento, tradizionali, nuove, inventate, che si ergono su di un
piedistallo come fossero una divinità. Che di sé danno un’immagine tutta
luccicante ed altera. Pratica possibile solo perché tra loro e gli allievi
erigono un muro, una facciata di
circostanza, e questi ultimi sono, per altro, ben contenti di agire da servi,
da domestici. Il che li mette al riparo da ogni domanda critica e, soprattutto,
autocritica, il che fa loro parlare e scrivere del loro Maestro, Sifu,
professore, come un’entità superiore ed invincibile.
Penso
che questi super Mestri siano degli autentici vili, incapaci di guardarsi
dentro e di confrontarsi, di esporsi nudi mostrandosi anche nelle loro miserie
quotidiane. Ecco perché vendono quanto fanno con tanta sicumera, ecco perché lo
vendono come fosse l’unica assoluta verità: hanno paura di quel che sono veramente.
Oramai,
nemmeno più nei film made in U.S.A. o nei fumetti made in U.S.A. il
protagonista è l’eroe bello e buono a tutto tondo !! Finita l’era dei
personaggi a cui diede vita John Wayne o dei primi inossidabili 007, questa,
finalmente, è l’era degli introversi Batman e Spyder Man, del detective Jimmy Mcnulty
di “The Wire”, tanto efficiente come poliziotto quanto in palese difficoltà
nella sua vita privata e dai metodi poco ortodossi nel lavoro; persino
Biancaneve non è più una santerellina !!
Penso,
però, anche a tutti quegli allievi che, divinizzando il loro Maestro, appunto
se ne fanno comodo riparo per non sporcarsi le mani con il loro personale
malessere. (1)
Lo
adorano, ne parlano come di una divinità. Questo li mette al riparo dalla
necessità di scontrarsi con le proprie paure, le proprie insicurezza: tanto c’è
il Maestro che è un eroe bello ed invincibile, a tutto tondo, a far loro da
schermo, da scudo.
Quando,
invece, fanno qualche passo avanti dentro di sé, quando scoprono le proprie
parti Ombra, le proprie paure e ne entrano in conflitto, comunque ne attribuiscono
il merito principale al Maestro: lui, il santone irraggiungibile, li sta
facendo crescere.
Un
transfert pericoloso, pericolosissimo.
Anche
perché quando il suddetto Maestro “cazza”, incespica, ne combina qualcuna, il
castello dei loro sogni va in frantumi. Incapaci di separare, di riconoscere il
processo proiettivo fin lì compiuto, il Maestro diventa immediatamente un orco,
un mostro, un millantatore, un volgare figuro da cui allontanarsi in gran
fretta, da denigrare.
Poveretti
incapaci di riflettere su quanto è stato loro comodo proiettare su di un altro,
quanto hanno fortemente voluto un divinità perfetta accanto che togliesse loro
“le castagne dal fuoco”, che facesse da paravento per ogni loro Ombra sporca.
Per
questo amo Vincenzo, sguardo tenero e folle insieme, debole ubriacone e
lottatore in campo, generoso con i suoi ragazzi ma, a volte, con loro autentico
paraculo ( bellissima la scena in caserma con il giudice, in cui “scarica”
Samuel, il ragazzo a lui affidato ).
Per
questo affermo per l’ennesima volta la
forza della vulnerabilità, dell’apertura, nella pratica marziale come nei
tratti caratteristici di ognuno.
Per
questo mi sento così vicino al Vincenzo di “Il terzo tempo”, ma anche all’
“eroe” (!?!?) di “Come dio comanda” e
di “Tu devi essere il lupo”, (2) pellicole italiane bellissime, che ritengo di
spessore maggiore di questa la quale, però, nella semplice godibilità, anche
lei mostra quel Sensei (“il nato prima”) che, nel mio piccolo, corroso e
fragile, sono io allo Z.N.K.R.
Per
questo porto sempre con me quella bellissima frase, che altre volte ho
ricordato, in cui si dice chiaramente che uno sciamano non è né un grand’uomo
né, tanto meno, un uomo perfetto, anzi !! Ma è uno che non è scappato a
ripararsi quando infuriavano pioggia e vento e questa sua esperienza la mette a
disposizione di chi, a sua volta, vento e pioggia vorrà sfidare.
Insomma,
nella mia incresciosa nudità semplicemente mostrata, nessuno potrà mai dire di
non aver colto i tratti del “passeggero
oscuro”, per citare il Dexter Morgan descritto nei libri di Jeff Lindsay, dei
miei demoni più profondi come delle mie debolezze malate: Nessuno potrà mai
incensarmi per i suoi successi e pure per gli insuccessi, che, appunto, sono solo suoi.
Magari,
potrà, se lo vorrà, ringraziarmi per aver messo sinceramente a disposizione quel
che io sono, le mie esperienze nel mio di bosco, perché anche lui, a suo modo,
possa conoscere ed attraversare il suo. Un facilitatore, un Sensei, appunto. E,
credetemi, di questi tempi non è poco.
1. Succede,
a volte, che non sia il Maestro a porsi su di un piedistallo, ma siano allievi
/ allieve a farlo. In questo caso, starà al Maestro non cadere nella
tentazione, nel “tranello” tesogli, restando e mostrandosi saldamente una guida
sì ma umana, nuda nelle sue debolezze. E’ che non è facile resistere alle lusinghe,
alle sollecitazioni del proprio ego …
2. Entrambi
commentati su questo blog, rispettivamente il 3 Giugno 2011 e il 24 Novembre 2012,
nell’etichetta “Da vedere”. Chi fosse interessato all’argomento, può guardare la
travolgente pellicola U.S.A. “Hesher è
stato qui” ( commentata il 2 Ottobre 2012).
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