giovedì 8 settembre 2016

Il clan, la casa, noi.


Anni '80 gli albori all'Umanitaria
Una delle nostre forze, come Scuola, è la capacità di essere e fare gruppo, quanto quella di saper accogliere chi da fuori viene a sperimentare le nostre pratiche marziali, la nostra cultura di gruppo.

In questa sana prassi consolidata da decenni, di cui tutti coloro che sono passati nella Scuola danno viva e sincera testimonianza, mi piace, però, mai smettere di “aggiustare il tiro” sul come essere e fare gruppo.
E’ subito evidente che noi non siamo un gruppo chiuso, altero nel suo sapere, che includa ogni nuovo venuto in una forma culturale e relazionale rigidamente definita, che tenda a conservare i modi esistenti a cui il nuovo venuto dovrà adattarsi.
Perché, se così fosse, al di là di sorrisi formali e formali accoglienze, questo non sarebbe un gruppo aperto al confronto, al nuovo che ci porta chi varchi per la prima volta la soglia del Dojo. Sarebbe invece un gruppo, un clan, portato a conformare le istanze estranee, a ridurle a voci omofone ai “suoni” della Scuola.

Non facile, essere un gruppo, un clan, realmente aperto, per due diversi motivi.

Seconda metà anni '80: La Comm. Tecnica
Il primo è l’estrema profondità e sensibilità del nostro praticare Arti del combattere. Proprio questa nostra caratteristica, così rara (unica?) nel panorama marziale italiano, potrebbe rivelarsi un’arma ”a doppio taglio”.
La possibilità che noi diamo a chi pratichi allo Z.N.K.R., come scritto più e più volte, non è quella di “farsi il fisico”, di imparare delle tecniche, uno stile, di menare le mani, di illudersi possessori di chissà quale sapere e saggezza misticheggiante.
Da noi, invece, l’adepto, misurandosi con le proprie forze interiori quanto con l’orrore della sua personale Ombra, costruirà un equilibrato sé fisicoemotivo, scoprirà delle risorse atte a un cambiamento sostenibile ed autonomo verso un’identità adulta.
Un processo lungo, travagliato, in cui il ferro interiore dovrà essere trovato, poi forgiato e temprato con la passione del Fuoco e attraverso le pratiche di lotta e scontro per poi raffreddarsi, salire di qualità con l’adattabilità e la “forma che non è forma” dell’Acqua. Divenendo acciaio. Quell’acciaio forte e flessibile insieme che, per noi, è dolcezza letale, vulnerabilità che si fa forza irresistibile.
Insomma, dai pugni e dai calci, dalle coltellate e dalle bastonate, dallo scontro immediatamente visibile, per alcuni “volgare”, al confliggere quotidiano, quello di tutti giorni contro le traversie dell’esistenza. Esistenza in cui essere adulti, sempre in contatto con se stessi e autocentrati, di contro al “bambino” (anche quando anagraficamente adulto) che è sempre eterocentrato e incapace di gestire l’ambiente; il che, di questi miseri e infimi tempi, non è realizzazione da poco !!
Questo elevato portato, questa cultura marziale che sa di magicità su se stessi e sul mondo, questo percorso di individuazione in cui smarrire ogni volta l’equilibrio per ogni volta riprendere a camminare, porta con sé sia il rischio narcisistico di ritenersi “al di sopra”, sia il timore di essere contaminati, indeboliti, distratti lungo il percorso da chi arrivi da fuori, dall’esterno.

Stage Estivo 2010
Il secondo motivo è, per l’inverso, la libertà che al nostro interno vi è di mantenere una propria individualità, anche quando estranea al corpo culturale della Scuola. Chi voglia venire, e restare, per “muoversi un po’”, per imparare “a difendersi”, può farlo: a nessuno è imposto di praticare per il “Conosci te stesso”. Questa bellissima libertà individuale che ognuno può vivere nel gruppo, rischia di autorizzare il gruppo stesso a non mostrare la Via, il percorso di individuazione, lasciando il neo allievo disarmato, disorientato dentro ad un habitat così potente e perturbante.

Allora, occorre che il gruppo, il clan, per essere davvero accogliente, operi per l’integrazione delle diversità, conscio innanzitutto della opportunità di riorganizzare la propria cultura interna sia perché il neo arrivato possa realmente esporsi e dare il suo personale e sincero apporto alla casa comune, quanto perché questo nuovo apporto testi la tenuta della cultura del gruppo e la sua intelligente permeabilità ad ogni nuova energia che lo possa migliorare.
Residenziale Kenshindo 2013

Un clan solido è quello in grado di stare nel conflitto e nelle incertezze, nelle relazioni sincere fino anche alla brutalità.  Una fabbrica di diversità in relazione, antagonista o meno, tra di loro. Un clan in cui ognuno viva la sua avventura, il suo percorso individuale sì ma in seno al clan stesso. 

Se volessimo, come nostra prassi, estendere quanto sopra, quanto avviene in Dojo, nel clan, nella nostra casa, al mondo esterno, potremmo dire, per esempio, che nella coppia non è importante quanto teneramente ed assiduamente ti guardi negli occhi, ma quanto guardi nella stessa direzione, sapendo aspettare i tempi, le pause, le digressioni dal percorso dell’altro fino, magari, a condividerne le nuove piste che questi scopre.
Il mio compleanno Novembre 2015
Nella società significa sia rifuggire dal “Qui nessuno è straniero”, sorta di introiezione collettiva, di suicidio di una identità e cultura collettiva, sia dall’erigere muri e steccati, materiali e culturali, come a difendere chissà quale “sancta sanctorum”, mostrando in realtà, ambedue, un’ottusa incapacità di filtrare, ovvero masticare, digerire e, laddove servisse, certo, anche evacuare, nutrendosi però, per continuare in questa metafora dal sapore gestaltico, del buono che arriva.

Questa è la sfida alta, eccellente, che ingaggiamo, ogni volta che qualcuno varchi la soglia del nostro Dojo, che si ponga al nostro fianco per condividere un tratto di cammino.

 

“Tu comprendi la verità quando impari a riconoscere in ogni cosa il suo contrario”
(in: Il Cervo Bianco)

 







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