Purtroppo, Dojo è parola, per ovvie ragioni, sconosciuta ai
più. Allora, nel parlare quotidiano, uso “palestra”, che, però, è “locale
chiuso e coperto, fornito di attrezzi ginnici” (Dizionario Sabatini Coletti).
Lo stesso significato etimologico si legge come “Luogo in cui gli antichi si
esercitavano alla lotta”.
Non mi piace palestra, riferito a ciò che facciamo noi.
Perché Dojo, e per estensione ovunque noi pratichiamo le
nostre Arti di combattimento, è ambiente
di apprendimento e formazione.Ovvero, spazio di incontro di corpi; contatto fisicoemotivo; relazioni emotive; emos – azioni in dialogo costante con l’istinto di morte, l’istinto di sopravvivenza; danza mortale di braccia e gambe; materia dolce e letale che si manifesta attraverso il movimento; cultura comunicativa antagonista non verbale.
E’ in un Dojo che la formazione, il percorso attraverso i misteri di ognuno, si realizza tra corpi e
attraverso i corpi intesi come sé fisicoemotivo.
Saperi corporei fisicoemotivi, relazionali, a contatto con
sé e con gli altri. Paura e coraggio, brividi sulla pelle, pupille a dilatarsi,
stomaco che si serra. Amaro naufragare dentro la propria Ombra, mentre la
saliva sale nella bocca. Passaggio incerto dentro un mondo fragile che, poi, si
scopre forte. Sorrisi aperti di maschi e femmine alla scoperta di sé, dell’essere vulnerabile come potente forma di
coraggio ed audacia. Stupore ed incanto, sulle mani e nel cuore. Vitalità
gioiosa e selvaggia.
Il Dojo, “Luogo dove si insegna la Via”, arena di un rito
antico, letto con le immagini del terzo millennio, in cui ognuno ridefinisca la
sua identità, penetri da protagonista nel ritmo della vita.
Il nostro Dojo, il nostro praticare le Arti del
combattimento.
“I
nemici più grandi, e che dobbiamo principalmente combattere, sono dentro noi
stessi”
(M. de
Cervantes)
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