Penso alla parola “ribelle”, mi immagino chi abbia un
profondo, istintivo, rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nel
provare un grave disagio dentro la società dell’universalismo coercitivo, della massificazione, della reificazione
generalizzata, del consumo senza uso.
Disagio che lo vede contrapporsi a quei “valori”, rifiutandone
la conseguenza etica che si sostanzia di mercatizzazione, omologazione e fa
della ricerca scientifica e della tecnologia lo strumento per ogni delirio di
onnipotenza, ogni aspirazione oltre i limiti dell’umano.
Rispetto al critico, che si riconosce e fa parte della
comunità e le rivolge pensieri ed azioni tesi ad un suo cambiamento, anche
profondo, il ribelle, provando un senso di solitudine ed estraniazione rispetto
al comune sentire e vivere, rifiuta di farsi in qualche modo normalizzare,
inglobare, volendo rimanere fedele solo a se stesso e a quei valori di
Tradizione che riconosce come fondanti l’uomo e l’umanità.
In questo, il ribelle è un solitario. Lo è, come scrisse
Salvatore Veca, sia sotto l’aspetto metafisico, in quanto davanti all’enigma ed
all’angoscia dell’esistere ha solo se stesso come compagno; sia sotto l’aspetto
sociale, in quanto vive da sradicato, da “diverso”, dentro la società.
Il ribelle è ben identificato da Ernst Junger come colui
che entra nel bosco. Come in una antica tradizione nordico-germanica, il
ribelle sceglie di ritirarsi nella selva. Passare al bosco significa
abbandonare il mondo omofono e materialistico dominato dal mercato e da un uso
della tecnologia come elisir di lunga vita, per ritrovare la libertà dell’Io e
opporre / proporre una resistenza spirituale, di valori alternativi a quanto
ora imperante
Il ribelle è un modo di essere antagonista, di più, alternativo, all’automatismo e
all’omologazione coercitiva del sistema dominante.
“Passare al Bosco” significa entrare in una condizione
assoluta che renda l’individuo cosciente della sua libertà, del suo potere
personale come dei sui limiti, in modo tale da aprire un confronto prima dentro
di sé e poi fuori, con gli inganni perpetrati da questa società: dal fallimento
nell’economia, il settore da cui traeva la sua legittimazione, al disagio
esistenziale su cui si estende la longa
manu di una medicalizzazione esasperata che non risparmia nessuno, a
cominciare dai bambini stessi, al disastro ambientale che sta riducendo il
nostro habitat ad un’enorme pattumiera, affermando invece la possibilità del singolo di conoscere realmente di sé e di condurre da sé il proprio destino.
Il ribelle che lotta per la libertà, per la ricerca eretica
ed audace, costruisce tale lotta attraverso piccoli passi, piccoli strappi.
- Un incessante lavoro introspettivo che coinvolga il sé
fisicoemotivo, dunque modi anche di stare in piedi e muoversi del tutto
sconosciuti, quando non osteggiati, al pensiero e pratica dominante, cercando
in aree culturali e di pratica anche diverse tra di loro purché funzionali al
prendere corpo delle emos – azioni, ovvero degli impulsi d’animo originanti
qualsiasi movimento, compreso quello di contrattura frenante o difensiva.- Un incessante nutrimento di idee e riflessioni che non si limiti alla “voce del padrone” ma, consapevole delle parole di Ludwig Feuerbach come di Tiziano Terzani “l’uomo è ciò che mangia”, si nutra abbondantemente di voci fuori dal coro.
- La frequentazione di persone come lui ribelli o, quanto meno, critiche verso il sistema, fuori da ogni “politically correct”.
Ma la libertà a cui aspira il ribelle non è solo una
libertà che si può formulare, non è una libertà nuova da realizzare. Questa
libertà è solo l’inizio per conoscere e congiungersi ad una libertà
sovratemporale, soprasensibile: è esistere, è, con le parole di Gourdjieff “Vivere e non sopravvivere”.
Il passaggio al bosco, è da intendersi come la
riscoperta di se stessi in uno spazio / dimensione sacro che è quello
primordiale. Esso spaventa l’uomo medio, “homo Homer” (Simpson!!) per la sua
natura elementare, per le pulsioni a cui attinge, perché l’”homo Homer” scappa dagli istinti primordiali e pensieri reconditi, per nascondersi dietro maschere, ruoli,
facciate di comodo.
Il ribelle, per non restare schiacciato, soffocato, dalla
molliccia pasta adesiva che tutto ricopre ed uniforma, sa giocare, equilibrista
incerto ma mai domo, tra ciò che può mostrare a tutti e ciò che mostra solo a
se stesso ed ai pochi ribelli che incontra, sa nascondere i propri odori e le
proprie tracce. Sa stare anche ai limiti del bosco, avvistando per tempo servi
e segugi del padrone, altre mischiandosi con loro stessi, in un trasformismo
lieve su cui se la ride a crepapelle mentre loro si perdono tra sentieri e
cespugli che non conoscono, che li spaventano nella loro natura selvatica.
Se la mia storia personale è stata così, coì anche lo è
stata e lo è quella dello Z.N.K.R.
la Scuola che fondai nella stagione 1980 – 1981.
La decisione, presa con gli allievi più anziani, di stare
fuori da ogni federazione per vivere una pratica e dei rapporti personali come
era nelle Scuole Tradizionali delle Arti Marziali, e non solo. Sulla storia di
quelle Scuole, proporre corsi senza stretti vincoli di orario, iniziative fuori
dal Dojo nella notte stellata o immersi fino alle cosce nella neve, praticando
anche otto ore di seguito, utilizzando armi vere, che tagliano e trafiggono,
non quei giocattoli che impugnano Maestri e presunti esperti di combattimento.
Facendo del Dojo una casa in cui ci fu chi ha dormito la notte ed alcuni lo
fecero più e più volte; chi ha cucinato; chi ha fatto l’amore; chi ha praticato
nelle ore che più gli aggradavano; chi ha suonato la chitarra; chi ha preparato
gli esami universitari; chi vi ha trovato rifugio sicuro, lontano da situazioni
familiari critiche e drammatiche: la casa di tutti i praticanti, di cui tutti i
praticanti avevano le chiavi.
Io mi sono formato, forgiato e proposto non come il Super
Sayan invincibile e che sa tutto, non come il Maestro che ormai ha raggiunto la
“maestria” di un’Arte ma come il Sensei (“colui che è nato prima”) e come tale,
avendo già affrontato pioggia e tempeste, rovesci e cadute anche rovinose, può
indicarti dei modi, dei sentieri, delle possibilità, se anche tu non vuoi
scappare come un codardo davanti alla devastazione della natura (la Tua di natura), alle paure e alle
proiezioni della Tua natura.
Sono stato Sensei nella pratica delle Arti Marziali, ma mi
sono lasciato accostare come tale, come “nato prima”, anche da chi mi chiedeva,
confessava, gridava, di un padre assente o di un padre squalificante, di un
figlio difficile, di una neo paternità che lo lasciava spiazzato, di una
relazione amorosa che andava a sfiorire, di un progetto di studio o lavoro su
cui non sapeva scegliere, di un mal di vivere indistinto e pervasivo che lo
sfiniva giorno dopo giorno.
Mi sono esposto, ho ascoltato, ho condiviso, ho provato ad
aiutare, camminando insieme per strade battute dal traffico urbano, seduti su
una panca sotto il sole, davanti ad un boccale di birra, accucciati sul futon:
sorta di setting sempre diversi ma sempre intimi ed accoglienti.
L’ho fatto, nella pratica delle Arti Marziali come in un
sorta di counseling e body counseling, sempre pensando di proporre modi e
sentieri utili, ma so anche di aver sbagliato, a volte di aver confuso la notte
con un’ombra, di essermi voltato dall’altra parte quando c’era da guardare
davanti e di aver guardato troppo avanti, troppo fissamente, quando invece
c’era da volgere lo sguardo altrove.
Mi consola sapere che l’ho sempre fatto sinceramente,
sinceramente convinto di proporre sentieri e giacigli utili a chi mi stava
accanto, a volte incazzandomi come una tigre ferita, altre scivolando dentro
una mia tana inarrivabile. Ma sono un Sensei, uno che fu un poco di buono, che
un caritatevole angelo custode probabilmente prese sotto la sua ala portandolo
fuori da guai irreparabili, uno che sotto la tempesta di vento e pioggia c’è
stato sì, senza scappare, e lì si è rafforzato ma ne è anche stato segnato;
dunque non certo un santo o un esempio di beata perfezione!! Uno che, camminando per sentieri accidentati, ancora a volte cade, a volte fatica a rialzarsi, a volte impreca e vorrebbe mandare a fare in culo te, o magari te.
Però, quasi quant’anni sono passati, io ci sono ancora. Ancora per me, per la mia crescita ed
autodeterminazione, come per dare una o due “dritte” alla tua, se vorrai
ascoltarmi.
Allora, lo Z.N.K.R., con Giugno chiude una porta, un
locale, una certa avventura.
Allora, come Z.N.K.R.
Spirito Ribelle, ne apre un’altra, senz’altro diversa, ma, confido
emozionante ed utile per chi vorrà ancora accompagnarmi.
"....
Il nemico più scaltro non è colui che ti porta via tutto, ma colui che
lentamente ti abitua a non avere più nulla...."
parli di te all'inizio di questo post..ma potrei parlare io con le stesse parole poichè forti e vive in me le sento,come sò per certo le sentano altri con cui da anni ogni sera lotto e combatto tra sudore e risate.
RispondiEliminaC'era un tempo in cui fuggivo, era l'unico modo che conoscevo per non farmi prendere da questa omologazione di massa, da un sistema che voleva mettermi in catene avevo scelto di essere vento, e piuttosto bruciare, distruggermi e dissolvermi nel tempo ma intanto cercavo, la mia sete di conoscenza e fame di sapere per quanto caotica era ben nutrita e un giorno venne la tempesta. Tutta la strada che avevo percorso portava a un bivio, da una parte un dirupo che lanciandovi un sasso non si sentiva un suono, dall'altra un fitto e oscuro bosco la cui entrata era una maglia di intricati e robusti rovi.
Occorreva trovar un altro modo di combattere, senza continuare a correre ferito verso una Samarcanda..e ciò che cercavo lo trovai, tra incontri con ciarlatani e venditori di nebbia, ma anche persone in gamba e vogliose di un trasmettere sincero alzai lo sguardo e nel cielo una stella lasciava la sua scia infuocata.
Scoprii le bellezze e le difficoltà nello "stare", scoprii che la libertà che cercavo la potevo trovare in me, un granello di sabbia nell'universo che è solo un microcosmo se paragonato alle vastità di questi mondi, ma che è simile,molto simile e conoscendolo posso trasformare il "mio" stare nel mondo.
E inizio un altro percorso nello stesso tempio che ho tanto dissacrato, e ancora pulire e pulire affinchè non ci sia troppa polvere e ogni sua parte funzioni. Svuotare l'acqua putrida per riempirla di nuova, fresca e anche se non proprio pura e cristallina che però continui a scorrere.
Pulire il dojo o pulire me?
Prendermi cura di entrambe le cose a cui tengo.
Reimparare a muovermi, con un bambino che gattona e prova i rocamboleschi passi, poi cresce..dentro, emotivamentente,fisicamente,mentalemente ..mi ricorda un pò la storia di quel burattino di legno che si tramuta dopo un viaggio travagliato in umano di carne e sangue.
Ogni cosa ha il suo tempo, e sì, per ogni morte c'è una vita nuova che nasce..non lascia indifferenti,ogni sera nelle ultime settimane mi fermo a guardare il cartello affittasi, entro e sò che non sentirò più quell'odore forte e belligerante, per me accogliente, nel varcare la porta,quell'odore che dice chiaramente dove sto mettendo piede. Quel luogo che luogo non è, come se lo spazio tempo si dilatasse all'entrarvi, tanto forte l'incontro di energie e anime da creare quasi qualcosa di vivo.
Sò che avrà sempre un posto nel mio cuore, dove si è fatto strada e sarà sempre con me...ma l'avventura prosegue, a breve isserò le vele, pronto a sollevare l'ancora mentre la bandiera pirata, sembrava vibrare alta,al vento, di vita propria.
Saremo ospiti degli "Erranti", non sarà più ciò che era il Dojo in Simone d'Orsenigo ma :
"non puoi fermare le onde, puoi continuare a cavalcarle".
un immenso Grazie a voi tutti/e, andati,venuti e rimasti per quanto mi avete insegnato