lunedì 17 luglio 2017

A volte ...


A volte, in Dojo,si presenta qualcuno chiarendo da subito “Sono fuori forma”, che da molto non fa più nulla, fino a spingersi sul terreno del “Non so come muovermi, non sono coordinato

Allora, mentre spargo frasi ed indicazioni sul “Muoviti spontaneamente” “Lasciati andare di corpo”, in realtà lo spingo verso un agire, per lui del tutto innaturale.
Attenzione, non date un’accezione negativa alla parola “innaturale”, perché nessun gesto, nessun movimento che io gli proponga, è, nella logica del principiante, qualcosa di naturale.
La loro efficacia, la loro capacità trasformativa, risiede proprio nel fatto che si tratta di gesti e movimenti estranei, paradossali per la logica in cui è imbrigliato il principiante: muovere braccia e gambe agendo dal centro del corpo, chiedere agli arti stessi di non sforzarsi di fare ma di fungere semplicemente da veicolatori fluidi ed elastici di ciò che al centro del corpo nasce e si espande, sono tutte azioni che sortiscono effetto proprio per il loro allontanarsi dall’usuale e proporre un agire tanto inusuale quanto, per certi versi, paradossale.

Poi ci aggiungo l’aiuto (aiuto?!) che può dare l’immaginare lo scheletro agire, muoversi; le immagini vivide a cui chiedo di aderire, di identificarsi, sorta di reverie secondo il pensiero di Bachelard; il costante riferimento al Wu Wei, non eccedere, non sforzarsi, di stampo taoista che, nella nostra cultura (un grazie al Maestro Trickovic per avermi fatto scorgere questo accostamento) è il classico “Non tirare troppo la corda”.
Per non parlare del costante invito
- ad ascoltarsi corpo, ascoltarsi agire fino a descriversi (senza giudicarsi!!) agire;
- ad ascoltarsi in ciò che si prova nel fare, nell’agire: quali sensazioni, quali emozioni.

Entrambe via per arrivare ad assumersi la responsabilità di sé corpo, sé fisicoemotivo: “Io sono spalle contratte” e non più “Ho le spalle contratte”, “Io sono schiena bloccata” e non più “La schiena si blocca”, come se un sortilegio malefico, un mostro, si fosse impadronito del nostro corpo. No, “Sono io corpo che mi contraggo spalle, mi blocco schiena”.
Insomma, un concentrato di opposizioni, di paradossi in cui introdurre sorpresa, sconcerto e imprevedibilità portano l'allentamento della presa della comprensione abituale, ordinaria.

Altrimenti, con spiegazioni e direttive precise, con modelli da imitare, ciò che il neofita capirebbe, anche di nuovo e di novità e come accade in ogni “sapere”, lo condurrebbe solamente a un'ulteriore comprensione, ovvero il qui - futuro prevedibile. Questa mia conduzione invece, mescolando sapientemente maieutica e paradosso, è la conduzione senza comprensione, o meglio, senza comprensione meccanica ed obbediente.

In caso contrario, nuovi condizionamenti andrebbero a sovrapporsi o a sostituirsi a quelli vecchi: il risultato sarebbe un corpo comunque privo di consapevolezze e ulteriormente condizionato, ed è questa la situazione che è possibile osservare nella stragrande totalità di praticanti attività motorie, comprese quelle marziali, di combattimento. (1)

Finché l’individuo agisce attraverso atti volontari e meccanici, finché il corpo rimane qualcosa di estraneo, da manipolare e modificare, finché non accettiamo che noi siamo sé fisicoemotivo, ovvero una presenza costante h24 da ascoltare visceralmente, che si esprime per emos-azioni, l’individuo non è né agisce né si relaziona, tanto meno consapevolmente, ma si muove nel solco dell’estraniazione, dell’alienazione, o, per dirla più semplicemente della “ginnastica dell’obbedienza”.

Spesso, l’individuo è convinto che ciò che fa automaticamente, di suo, sia sbagliato, mentre i gesti, i movimenti che gli sono mostrati e imposti siano buona cosa, confondendo così tra consapevolezza e controllo, cercando fuori di sé quel sapere motorio che in realtà già cova, nascosto e sepolto, dentro di lui, oltre le limitazioni che ora ha, frutto di schemi subiti negli anni precedenti, e che pretende di sostituire con altri modelli, altri schemi, altrettanto non suoi e limitanti. (2)

Ecco perché propongo un percorso di spiazzamento. So che ogni forma artistica, di più, ogni forma artistica che si proponga come percorso di individuazione, trasformazione e crescita, sia essa teatro, danza, psicoterapia o … Arti Marziali, richiedono nella loro esecuzione qualcosa di più d'una semplice progressione che vada dall'inizio al punto intermedio e poi alla fine.

Allora, senza addentrarmi in ragionamenti che richiederebbero più pagine scritte e, soprattutto, una prassi esperienziale da cui sortire, mi preme scrivere che il corpo non si controlla, se non per brevi momenti e tanto meno in situazioni di forte stress.  Il corpo, il Sé corpo fisicoemotivo, non puoi comandarlo, possederlo, puoi solo … viverlo.
Per farlo, occorre
- destabilizzare quanto si sa e si crede di sapere;
- evitare di sostituire questo con un nuovo “sapere” imposto;
- entrare nella fase dell’abbandono; dell’ascolto
poi, che sia la voce di un filosofo “Bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi” (F. Nietzsche) o quella di un fisico “La logica ti porta da A a B. L’immaginazione ti porta ovunque” (A. Einstein) entrare appieno nel corpo inteso come “Dispositivo Sinestetico è il corpo in quanto generatore di Sinestesia.
La Sinestesia è la capacità innata, involontaria e inestinguibile in tutti gli esseri umani, di vivere simultaneamente diverse sensazioni alla stimolazione di una qualunque di esse. Ed è anche il dispositivo psicofisiologico in virtù del quale una qualunque rappresentazione sensoriale può rinviare a una data emozione attraverso altre rappresentazioni sensoriali”. (S. Guerra Lisi – G. Stefani)

Ovvero, come non mi stanco mai di ripetere, ognuno di noi è il corpo vivente, è la persona stessa. E’ perciò un corpo intrasoggettivo e intersoggetivo, perennemente in relazione.
Perché io che sono questo corpo, me corpo, subisco e trasformo il vincolo gravitazionale; mantengo la mia forma e la sottopongo a continui mutamenti; vivo e mi relaziono attraverso le membra e le articolazioni; incarno l’impersonale collettivo della corporeità della specie (il corpo umano) nella bipartizione dell’identità di genere (maschio, femmina); traduco le molteplici sedimentazioni della corporeità culturale (gesti, posture, abbigliamento, prossemica …); condenso la ricerca individuativa della soggettività (io, il mio corpo).

Cosa chiedere di più ad un’arte del corpo, ad un’Arte Marziale?



(1)Ancora ai tempi dei corsi nella palestra Umanitaria, dunque primi anni ’80, ad una mia amica, docente di Aerobica con cui condividevamo la palestra, capitò di grattarsi il naso mentre eseguiva e mostrava i movimenti alla classe di fanciulle, Queste, all’unisono, tutte a grattarsi il naso, perfette imitatrici del modello che le fronteggiava. Attenzione a riderne, perché è questo metodo di insegnamento che prevale nei corsi Fitness come nelle Arti Marziali, dove il docente, magari un atletico trentenne di 1,80 x 75 kg mostra e impone il suo stesso movimento / gesto ad un acerbo sedicenne o a un quarantenne cifotico ed in sovrappeso. Ovvero, qui non è il singolo casuale gesto, grattarsi il naso, ad essere imitato, ma l’intera pratica fitness, yoga, sportiva, marziale a richiedere, a pretendere, un’imitazione il più possibile uguale al modello !! Per non parlare delle diversità emotive e di “vissuto” tra un praticante e l’altro. Sì, ma provate a parlarne e vi guarderanno come uno strambo !!


(2)“Secondo Erickson, lo scopo del terapeuta è consentire al paziente di riavere accesso alle proprie risorse inconsce. Questo presuppone che nell’inconscio delle persone esista la capacità di far fronte ai problemi che esse hanno, e che il compito del terapeuta sia limitarsi a riportare alla luce queste risorse.
(…) Il problema secondo Erickson non risiede nell’inconscio (come sostiene la psicoanalisi), ma, al contrario, proprio nelle facoltà consce che la psicanalisi considera le più evolute e le più adatte a mantenere la salute mentale. Secondo Erickson, il funzionamento conscio interferisce con quello inconscio, impedendo a quest’ultimo di adeguare il comportamento della persona alle richieste del suo ambiente” (M. Rampin - G. Nardone)










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