Mille volti a formare granelli di un immane deserto umano.
Mille corpi nudi a formare una macelleria che dimentica l’umano.
Sono uomini e donne che, spogliati di ogni cosa e pregni
solo del proprio corredo biologico, sono oggetti o tuttalpiù animali dominati
da una forza sovrana, che ne decide vita o morte.
Gli attori, dopo un frenetico riscaldamento che è già parte
integrante dello spettacolo, mentre gli ignari spettatori si siedono, chiacchierano,
disinteressandosi di quel che accade sul palco, a cadenza apparentemente del
tutto casuale si spogliano gettando, con gesti che sanno di rabbia, gli abiti a
terra e tra il pubblico. Inizia un contorcimento stravolto che è vergogna della
nudità.
E solo gli attori in scena sono nudi, noi pubblico no: si
vergognano più loro, i nudi, o più noi nel non esserlo ma invece ad essere lì a
guardare gambe e seni e peni e natiche?
Qui avviene qualcosa che è ben diverso da quel che ci propone
la religione cattolica. Là Adamo ed Eva, nel giardino, erano entrambi nudi e
non ne avevano vergogna (Gen 2:25). Sarà Il serpente tentatore a spingere Eva a
mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male, imitata poi da Adamo,
e il primo effetto qual è?:” Allora si
aprirono gli occhi ad entrambi e s’accorsero che erano nudi; unirono delle
foglie di fico e
se ne
fecero delle cinture. (Gen 3:7)”
Qui, nel toccante spettacolo di Emma Dante, al Teatro Strehler di Milano, gli attori
erano normalmente e tranquillamente vestiti, ancorché intruppati militarmente
in un riscaldamento vieppiù incalzante e sono sempre gli attori, nessuno li costringe,
a spogliarsi con ordine e ritmo, per poi vergognarsene, laddove le loro mani,
impazienti e maldestre, tentano un goffo ed improbabile coprirsi a vicenda le
parti intime o gli occhi per qualche secondo.
Da dietro le quinte, una mano ignota (un serpente tentatore
che assume le vesti di un Moloch, la grande entità che esige grandi sacrifici,
che si diverte a manipolare quei poveri essere ignudi?) offre cose, attrezzi,
ruoli che gli attori si buttano ad interpretare o ne sono costretti: la
bambola, lo spadaccino, la ballerina…
Ognuno degli attori è ingabbiato in un ruolo ossessivo,
ripetitivo, che fa dimenticare quella indifesa nudità semplicemente perché si
riappropriano di un senso che non necessita di costumi di scena, ma, nel farlo,
entra in un meccanismo nient’affatto virtuoso, invece alienante.
Una sorta di liberazione dall’ossessiva vergogna della
nudità come dell’individualismo che spreca ogni talento in un ruolo, in un
gioco estraneo ai più, avviene come per caso o apertamente contro l’indifferente
e banale malvagità del Moloch dietro le quinte, quando i corpi nudi prendono a
sostenersi a vicenda, a proteggersi a vicenda.
Ho letto, in questi giorni, diversi approcci critici allo
spettacolo, diverse interpretazioni scritte da addetti ai lavori che di teatro
ne sanno ben più di me.
Chi ha scritto di aspetti di sadismo gerarchico o di banale
ripetitività del quotidiano, chi ha sottolineato la povertà dell’esistenza
corporea, materica quindi fallibile, elementare nella sua finitezza ma
smembrata in segmenti di indefinita complessità.
Io, al netto di un portato emozionale che mi ha visto
coinvolto per l’intero spettacolo e che ho condiviso con Monica, seduta acanto
a me, preferisco cogliere l’aspetto liberatorio della nudità che dimentica la
vergogna nell’aiuto reciproco e solo quando abbandona cose e ruoli; preferisco
il Moloch beffato e reso inutile da questi uomini e donne che, ognuno a loro
modo, si liberano e si fanno gruppo; preferisco immaginarli in un percorso di
individuazione che straccia ogni alienazione, ogni dominio imposto: li
preferisco splendidamente nudi e chi se ne frega se le natiche sono anche
flaccide, le cosce cellulitiche, le gambe stortignaccole, i seni penduli.
Mi rendo conto che, da buon ribelle, in un impasto che sa
di anarchico e di conservatore, forse, sul versante intellettuale, ho piegato
lo spettacolo alle mie idee. Forse, al saluto finale con gli attori che, fuori
scena, si sono in qualche modo rivestiti, avrei preferito vederli orgogliosamente
nudi e mi trovo a giustificarli dicendo tra me e me che ora sono vestiti del
loro autentico vestito “qualunque” (e non più intruppati) come a dimostrare che
prima hanno dovuto passare attraverso la vergogna della nudità e la sua
accettazione, attraverso il sopruso dell’autorità e la ribellione a quell’autorità.
Ma, appunto, io sono uno Spirito Ribelle.
Beh, se non lo avete già fatto, andate a cercare dove verrà
replicato lo spettacolo e andate a vederlo, così mi scriverete la vostra di
idea!!
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