L’incontro settimanale, ogni
Martedì, volge al termine. Propongo di affrontare il lavoro sulla forma di Tai
Chi Chuan.
“Perché
facciamo la forma e a che serve?”
mi
chiede uno degli allievi?
Mi piace la domanda, mi piace
che ciò che propongo sia letto proprio come una proposta e non una imposizione;
mi piace che ogni allievo porti i suoi interrogativi, i suoi dubbi, persino le
su “resistenze” (1). Solo così il percorso dentro le Arti Marziali è
percorso condiviso di cui ognuno è responsabile e solo così diviene pratica
di individuazione (2).
Lo so, c’è ancora chi crede, chi sostiene, che praticare
gesti a vuoto o in coppia sia di per sé (in virtù di quale magia?) fonte di
crescita personale, via di accesso ad uno stato di calma, equilibrio, visione
profonda. E perché mai? In virtù di quale formula magica? (3) Tu mi mostri
e mi fai copiare un pugno, uno spostamento, come tu, Maestro o Sifu, fai, come
la tua arte e il tuo stile impongono, ed io, allievo, divento “migliore”
(migliore in che?), “aumento la fiducia in me stesso”, “mi sviluppo
mentalmente” (qualsiasi cosa significhi questa affermazione generica ed
astratta)? Davvero costoro ci credono?
Ma torniamo a noi, alla domanda postami verso il
crepuscolo, qui ai giardini Marcello Candia in Milano, da anni eletti a nostro Dojo.
Mi si affollano immediatamente
svariate risposte ed i collegamenti tra di queste che ne fanno una preziosa e
robusta rete in grado di accogliere la voglia di praticare di corpo e movimento
che anima i praticanti Spirito Ribelle. Mi sfiorano anche le
giustificazioni strampalate e impacciate che sento sin dagli inizi (era il1976)
del mio percorso marziale a giustificare la pratica delle forme: Mi sfiorano e
si allontanano vergognandosi. Raccolgo ed accolgo rapidamente le teorie che
furono alla base della creazione dello I Chuan / Yi Quan di cui
il Taiki Ken è la versione giapponese e che rifiutano la
codificazione in gesti sequenziali fissi, in forme: Ne condivido l’affermazione
davvero rivoluzionaria che ribaltava le pratiche abituali, ma mi permetto di
ritenere che, se fatte in un certo modo, anche le forme possono abitare quelle
teorie.
E
perché?
- Praticare una forma in gruppo aiuta a formare
lo spirito di gruppo, a sentirsi parte di un clan
- Praticare una forma in gruppo esalta la
funzione del gruppo poiché
Ø il
gruppo è importante fattore di regressione in cui rappresenta la “matrice”, l’altro
con cui rapportarsi differenziandosene;
Ø nel
gruppo il “discorso” di un altro mi risuona dentro suscitandomi dimensioni,
tematiche e problemi che, pur sperimentando in modo personale, costituiscono
induzione gruppale.
Ø nel
gruppo vedo gli altri, ma spesso li guardo per vedere me stesso, ovvero sugli
altri metto cose e scene del mio mondo interno per poterle vedere. Data la
reciprocità incrociata del processo, queste auto – immagini narcisistiche sono
continuamente messe in crisi nel rispecchiamento gruppale.
- Nel gruppo la proiezione di emozioni relative a
precedenti esperienze assume complessità esponenziale, in relazione alla
pluralità dei membri e ai fenomeni di risonanza e rispecchiamento. Praticare una forma in gruppo (senza l’obbligo di
imitare ESATTAMENTE un gesto imposto), libera la ricerca personale,
fondamentale per la crescita sana dell’individuo, all’interno dei limiti di una
traccia data, il che comporta la possibilità / necessità di sfruttare al meglio
le personali risorse a nostra disposizione facendo dei limiti una risorsa. (Avete
presente la sostanziale differenza tra “tema libero” e scrivere un tema su un
argomento?)
- Praticare una forma in gruppo mi permette di incontrare
sia i rimandi dei singoli componenti il gruppo sia il rimando collettivo,
quello che nasce dalla condivisa melodia cinetica del gruppo stesso. (4)
Ovviamente questo mio e nostro modo di intendere e praticare
non sono i kata / tao lu / forme del Karate e nemmeno del Tai
Chi Chuan dove gli esecutori ricercano gesti perfettamente uguali
scanditi con ritmo perfettamente uguale in uno spazio uguale: L’alienazione e
l’incomunicabilità al potere!!
La via allo sviluppo personale, Budo,
passa sempre attraverso l’altro.
Comprendi, ora, l’importanza del praticare una forma in
gruppo sì, ma nel modo Spirito Ribelle?
1. 1. Secondo
la prospettiva della Gestalt Therapy, che regge il mio metodo di
conduzione di un gruppo in amalgama con una didattica libertaria e maieutica,
la “resistenza” non è altro che una risposta immediata e spontanea, sviluppata
per proteggere l’autore da esperienze percepite come estranee, suscitatrici di
diffidenza quando non minacciose. Queste “resistenze”, per esempio ad una
proposta di pratica insolita o ritenuta noiosa, ad una situazione conflittuale
intensa di corpo a corpo, in cui l’allievo, appunto, si pone come evitante,
oppure recalcitra fino anche ad opporsi o affronta senza impegnarsi, non vanno
minimizzate e ancor meno combattute, ma sapientemente utilizzate come risorse.
In questo ci viene in aiuto il testo “I 36 stratagemmi. L’arte cinese di
vincere”, risalente all’epoca Ming (1368 – 1644) volto ad una filosofia del
conflitto in cui il combattente, fluido come acqua, sa adattarsi alle spinte e
trazioni dell’opponente servendosene per risultare vittorioso. Io utilizzo “Solcare
il mare all’insaputa del cielo” quando sono difronte ad un eccesso di
attenzione e preoccupazione tali far sì che l’allievo si fissi e cristallizzi
più su questi stati d’animo che sulla pratica stessa; “Intorpidire l’acqua
per far venire a galla i pesci” è utile quando la resistenza si manifesta
come razionalizzazione estrema, come necessità di controllo assoluto. Insomma,
evviva le “resistenze” perché ci dicono molto di chi abbiamo accanto e di come
fare per aiutarlo a progredire.
2. “L'individuazione
è un processo che porta l'uomo a riconoscere la propria singolarità, di
significato irripetibile, e a sentirsi soggetto responsabile capace di
confrontarsi con la propria esistenza." (F. Giordano). Per "individuazione",
si intende quindi un processo continuo al quale ogni individuo è soggetto
durante la sua vita e nel quale l’individuo attua il proposito cosciente di
diventare ciò che veramente è, differenziandosi dagli altri per tutti gli
aspetti che non gli appartengono ma, allo stesso tempo, stabilendo una
consapevole ed equilibrata relazione con gli altri e l’ambiente in cui opera.
3. “Il
xkxkxk aiuta a controllare sé stessi, a mettere a fuoco le proprie debolezze e
a migliorarsi, giorno dopo giorno, mettendosi in gioco, superando i propri
limiti e aumentando la fiducia in sé stessi.” (dalla spiegazione tratta
direttamente dalla pagina della Federazione CONI). “Il jojojo aiuta anche a
svilupparsi mentalmente. Il jojojo consiste nel superare i propri limiti”
(dalla pagina esplicativa di un noto club). Al di là della solita affermazione
“superare i propri limiti”, che ho già demolito in precedenti post e della cui
pericolosità mai mi stancherò di mettere in guardia, come si raggiungono i
mirabolanti obiettivi suddetti? Con quale didattica? Con quale pedagogia /
andragogia? E’ davvero ripetere mille e mille calci, mille e mille proiezioni
al suolo, mille e mille leve articolari, mille e mille fendenti di spada, il
modo per raggiungerli? Siamo italiani viventi nel terzo millennio, immersi, che
piaccia o meno, nella tecnologia, nella mondializzazione, in società dove si
rischia di morire per incidenti automobilistici o malattie letali molto ma
molto ma molto di più che per essere stati sfidati a duello o aggrediti da una
banda di predoni, esperiamo tipi di lavoro, relazioni affettive, usi e costumi
che nulla hanno a che spartire con l’Asia e gli asiatici dei secoli scorsi e
ancora crediamo che quei lontani metodi di insegnamento ed apprendimento siano
validi? Ma due letture, per restare in Italia, di Danilo Dolci, Enzo Spaltro,
Umberto Galimberti, Enzo Borgna, Daniele Novara, no?
4. 4. Per
saperne di più: V. Bellia ‘Danzare le origini’. S.H. Foulkes ‘Psicoterapia
gruppoanalitica’.