Byung
– Chul Han, coreano, da anni docente universitario in Germania,
scrive, nel 2010, un breve ed intenso libro sulla
“Società
della stanchezza”,
facendo della stanchezza e citando Peter Handke,
multiforme intellettuale austriaco, “una
religione immanente”.
Han scrive del “poter
essere” che ha sostituito l’imperativo del “dovere di prestazione”.
Quest’ultimo, origine del dolore del limite in rapporto
alla propria volontà, cede ora il passo al poter fare senza alcun limite.
L’individuo non risulta più dilaniato tra dovere e
piacere, tra dovere e volere, ma è schiacciato dalla positivizzazione assoluta
di tutte le sue attività.
Dall’epoca immunologica, un’epoca in cui operava uno
risoluto iato tra interno ed esterno, tra amico e nemico, proprio ed estraneo,
siamo entrati nell’epoca della differenza: questa è priva dello stimolo
dell’estraneità a cui si deve la reazione immunitaria.
Han scrive: “Gli
immigrati o i profughi sono avvertiti come un peso, più che come una minaccia”.
E queste poche parole, con le premesse di cui sopra, gettano uno sguardo ben
diverso sulla diatriba razzista / non razzista, inficiandone le fondamenta, e sull’intera
questione dell’immigrazione massiccia ed incontrollata dai paesi africani.
Tant’è che Han allarga l’esempio alla scomparsa della
violenza virale che lascia il posto alle malattie neuronali: “stati patologici da ricondurre a un eccesso
di positività”.
Altra piccola perla è la citazione di Jean Baudrillard,
filosofo e sociologo, feroce critico del consumismo e della merce come
feticcio. “Chi vive dell’eguale, muore
dell’eguale”. Letta nella sua brevità, mi rimanda alla parole di Freud e al
pensiero taoista come critica di chi, non riconoscendo il diverso da sé, affoga
nell’omosessualità.
Citando Michel Foucalt (anch’egli filosofo e sociologo) e
la sua società “fatta di ospedali,
manicomi, prigioni, caserme e fabbriche”, Han scrive di una società che ora
è composta di “fitness center,
grattacieli di uffici, banche, aeroporti, centri commerciali e laboratori di
genetica. La società del XXI secolo non è più la società disciplinare ma è una
società della prestazione”.
In essa, abbondano stimoli e comunicazione, al punto tale
da sovraccaricare l’individuo rendendolo di fatto dipendente dagli impulsi che
lo aggrediscono. Tanto che il doping stesso ne diventa parte essenziale.
Han, forte di una personale elaborazione teorica che non
trascura il pensiero di Nietzsche: “Per
mancanza di calma, la nostra civiltà sbocca in una nuova barbarie.”, alla “stanchezza atomizzata, solipsistica,
impotente, la quale produce un isolamento e una separazione dei soggetti”
(O. Montecchiani in una recensione del libro di Han) contrappone una stanchezza
che assuefà l’individuo a un tranquillo non fare, una stanchezza della “potenza negativa”, una stanchezza che
sia accessibilità, che promuova la lentezza come valore, che sostituisca la
mano che gioca alla mano che stringe ossessivamente, che ossessivamente produce.
Qui, mi appare in tutta la sua ricchezza e fascinazione
la nostra pratica marziale che, dal
Wu Wei (non eccedere, non tirare troppo la corda) del Tai Chi Chuan, passa attraverso la forza nascosta della muscolatura
profonda, l’equilibrio tra femminile (Yin) e maschile (Yang), l’affondo della
forza di gravità per accogliere il magnetismo terrestre (come spesso ci ripete
ai seminari il Maestro Trickovic), l’elezione della vulnerabilità e
flessibilità ad autentica fonte di comprensione e trasformazione del mondo e
delle relazioni, portatrice di quel “cordiale
disarmo dell’io” che Han cita nella premessa al suo interessante libro.
Ancora
una volta, noi,
Spirito
Ribelle.
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