mercoledì 3 ottobre 2018

Il magico potere del fallimento



Monique Serf, fischiata ad ogni esibizione, rifiutata in molteplici audizioni, affronta, presso un noto cabaret,  un provino al seguito del quale le viene offerto il posto di …lavapiatti, che lei accetta. Non è ancora Barbara. Abrahm Lincoln, fallisce negli affari, perde le elezioni, nuovamente subisce un pesante tracollo economico, resta vedovo, cade preda di un pesante esaurimento nervoso, viene nuovamente sconfitto in due successive occasioni elettorali. Sarà poi presidente degli U.S.A.
E le storie di Steve Jobs, di Serge Gainsbourg, Charles Darwin, Soichiro Honda …

Ce ne sarebbe abbastanza per annoverare
Il magico potere del fallimento”,
di Charles Pépin,

tra i soliti libri sull’enpowerment, sui prodigi della forza di volontà; per inserirlo nell’ormai vasta pletora di testi sulla resilienza; per farne un forte esempio del mito anglosassone del “volere è potere”; per considerarlo in linea con la dilagante e mortifera moda, a cui il palcoscenico dei media e dei social  dà enorme risonanza, che vuole ognuno di noi portatore sano di soli diritti e sano ed unico dispensatore di verità e certezze.

Invece l’autore, filosofo e docente universitario, introduce diversi dubbi, diverse interpretazioni che, pur non negando in toto il filone de “Gli ostacoli sono quelle cose spaventose che vedi quando togli gli occhi dalla meta” (Henry Ford), ci porta, grazie a Freud ed al pensiero psicoanalitico, su un diverso terreno.
Ci porta a non subire passivamente il “pensiero unico” anglosassone dove ad ogni caduta, ad ogni sconfitta, fa sempre seguito una risalita purché ci si affidi alla forza di volontà, alla tenace e totale fiducia nei propri mezzi: Volere è potere?!?!.
Forse ogni caduta, ogni fallimento è un  monito a riconsiderare i propri limiti, a verificare se davvero l’obiettivo puntato è nostro, davvero rispecchia il nostro Io più profondo.

Forse “Riuscire nella propria vita non significa volere a tutti i costi: è volere nella fedeltà al proprio desiderio. Il fallimento può essere l’atto mancato che ci avvicina a questo tipo di fedeltà” (C. Pépin).

La nozione di atto mancato fu introdotta da Freud nel 1901 nel saggio “Psicopatologia della vita quotidiana”.
In psicoanalisi, l’atto mancato è una condotta socialmente inadatta che realizza un desiderio inconscio. Ovvero, ti accingi a compiere un’azione ma o ne fai un’altra o non realizzi l’obiettivo di quell’azione.
Gli atti mancati non sono frutto di casualità, di stanchezza o di mancanza di attenzione o determinazione, piuttosto rivelano ciò che il soggetto non sa o non può esprimere consapevolmente: un’intenzione, un’unità, un desiderio represso. L’esplicitazione di un conflitto interno.
L’atto mancato, che nell’agire concreto è il fratello del lapsus nelle parole, potrebbe indicarci quali sono i nostri sentimenti e desideri più profondi. Quelli autentici.

Narrando di  Michel Tournier e di Pierre Rey, l’autore ci dice che, a volte, i fallimenti, letti come atti mancati, sono il segnale di un’intuizione a cui non vogliamo dare retta o, altresì, che “esistono successi che in realtà sono fallimenti, quando si accompagnano a una mancanza di fedeltà a noi stessi” e ci tocca poi pagarli in termini di insoddisfazione, noia, persino depressione, a mostrarci un desiderio profondo tenuto inascoltato, tradito.
Lettura interessante, sicuramente controcorrente, ci indica delle chiavi di interpretazioni in merito al nostro agire a cui, solitamente, magari prestiamo poca attenzione.
Immediato, per me, il parallelo con la nostra pratica marziale, così irriverente ed eretica a fronte del piattume generale equamente diviso tra sfogatoio per macho men repressi e salotto buono per  intellettuali “profferenti formule astratte e concetti sclerotizzatisi nel tempo” (Di una bella, dei suoi cortigiani e dei suoi possenti amanti. In questo blog – Giugno 2013).
Una pratica marziale, la nostra,  cui calza perfettamente una delle più belle citazioni che Pépin lascia nel suo pregevole libro:
 “Ciò ch’è grande nell’uomo è l’essere un ponte e non una meta(F. Nietzsche)


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