Monique Serf, fischiata ad ogni esibizione, rifiutata in
molteplici audizioni, affronta, presso un noto cabaret, un provino al seguito del quale le viene
offerto il posto di …lavapiatti, che lei accetta. Non è ancora Barbara. Abrahm
Lincoln, fallisce negli affari, perde le elezioni, nuovamente subisce un
pesante tracollo economico, resta vedovo, cade preda di un pesante esaurimento
nervoso, viene nuovamente sconfitto in due successive occasioni elettorali.
Sarà poi presidente degli U.S.A.
E le storie di Steve Jobs, di Serge Gainsbourg, Charles
Darwin, Soichiro Honda …
Ce ne sarebbe abbastanza per annoverare
“Il magico potere del fallimento”,
di
Charles Pépin,
tra i soliti libri sull’enpowerment, sui prodigi della
forza di volontà; per inserirlo nell’ormai vasta pletora di testi sulla
resilienza; per farne un forte esempio del mito anglosassone del “volere è
potere”; per considerarlo in linea con la dilagante e mortifera moda, a cui il
palcoscenico dei media e dei social dà
enorme risonanza, che vuole ognuno di noi portatore sano di soli diritti e sano
ed unico dispensatore di verità e certezze.
Invece l’autore, filosofo e docente universitario,
introduce diversi dubbi, diverse interpretazioni che, pur non negando in toto
il filone de “Gli ostacoli sono quelle cose
spaventose che vedi quando togli gli occhi dalla meta” (Henry Ford), ci porta, grazie a Freud ed al pensiero
psicoanalitico, su un diverso terreno.
Ci porta a non subire passivamente il “pensiero unico” anglosassone
dove ad ogni caduta, ad ogni sconfitta, fa sempre seguito una risalita purché ci
si affidi alla forza di volontà, alla tenace e totale fiducia nei propri mezzi:
Volere è potere?!?!.
Forse ogni caduta, ogni fallimento è un
monito a riconsiderare i propri limiti, a verificare se davvero
l’obiettivo puntato è nostro, davvero
rispecchia il nostro Io più profondo.
Forse “Riuscire nella propria vita non
significa volere a tutti i costi: è volere nella fedeltà al proprio desiderio.
Il fallimento può essere l’atto mancato che ci avvicina a questo tipo di
fedeltà” (C. Pépin).
La nozione di atto mancato
fu introdotta da Freud nel 1901 nel saggio “Psicopatologia della vita quotidiana”.
In psicoanalisi, l’atto mancato è una condotta socialmente inadatta che
realizza un desiderio inconscio. Ovvero, ti accingi a compiere un’azione ma o
ne fai un’altra o non realizzi l’obiettivo di quell’azione.
Gli atti mancati non sono frutto di casualità, di stanchezza o di
mancanza di attenzione o determinazione, piuttosto rivelano ciò che il soggetto
non sa o non può esprimere consapevolmente: un’intenzione, un’unità, un
desiderio represso. L’esplicitazione di un conflitto interno.
L’atto mancato, che nell’agire concreto è il fratello del lapsus nelle
parole, potrebbe indicarci quali sono i nostri sentimenti e desideri più
profondi. Quelli autentici.
Narrando di Michel Tournier e di
Pierre Rey, l’autore ci dice che, a volte, i fallimenti, letti come atti
mancati, sono il segnale di un’intuizione a cui non vogliamo dare retta o,
altresì, che “esistono successi che in realtà
sono fallimenti, quando si accompagnano a una mancanza di fedeltà a noi stessi” e ci
tocca poi pagarli in termini di insoddisfazione, noia, persino depressione, a mostrarci
un desiderio profondo tenuto inascoltato, tradito.
Lettura interessante, sicuramente controcorrente, ci indica delle
chiavi di interpretazioni in merito al nostro agire a cui, solitamente, magari
prestiamo poca attenzione.
Immediato, per me, il parallelo con la nostra pratica marziale, così
irriverente ed eretica a fronte del piattume generale equamente diviso tra
sfogatoio per macho men repressi e salotto buono per intellettuali “profferenti formule astratte e
concetti sclerotizzatisi nel tempo” (Di una bella, dei suoi cortigiani e dei
suoi possenti amanti. In questo blog – Giugno 2013).
Una pratica marziale, la nostra, cui calza perfettamente una delle più belle
citazioni che Pépin lascia nel suo pregevole libro:
“Ciò ch’è grande nell’uomo è l’essere
un ponte e non una meta” (F.
Nietzsche)
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