Serata d’inverno, uno spuntino succulento ed eccoci, io e
Lupo, comodamente seduti al Teatro Menotti.
Ah, grazie Monica per averci suggerito questa
opportunità!!
Infatti, con Lupo condivido la passione per il teatro,
questa forma d’arte che resiste nei secoli, nei millenni, ai cambiamenti, alle
innovazioni tecnologiche e che tiene splendidamente testa a tutte le nuove
forme di spettacolo che le innovazioni tecnologiche hanno suscitato.
Quale miglior omaggio alla tradizione del teatro che assistere
a
Gli
uccelli
di
Aristofane
Opera datata quattro secoli prima di Cristo ma che non
perde, e sono trascorsi quasi duemilacinquecento anni, alcunché della sua
lucida utopia e della sua capacità di divertire.
La trama è semplice. Evelpide (“lo speranzoso”) e Pistetero (“colui
che persuade”), due cittadini ateniesi sfiniti dalle costrizioni della vita
cittadina, si incamminano alla ricerca di un luogo dove la vita sia semplice e
priva delle ingiustizie e delle storture di cui soffre Atene.
Una serie di avvenimenti li porta nel mondo degli uccelli
e con loro fondano tra le nuvole una città libera e indipendente. Accolti da
Upupa, il mitico Tereo, che per i suoi crimini era stato tramutato dagli dei in
uccello, si accordano con lui e fondano Nubicuculia, convincendo tutte le razze
di uccelli ad inseguire il sogno di un mondo per l'uguaglianza, senza leggi e
senza denaro, contro l'avidità e la corruzione degli uomini e degli dei.
Non vi dico oltre.
La commedia tocca diversi temi, sempre attuali, ponendo
domande a cui ogni spettatore darà la sua risposta, semplicemente in veste
intellettuale o tenendo anche conto della propria esperienza personale.
L’utopia di un
mondo diverso, migliore, è un mare da solcare a cielo aperto lasciandolo però
al sogno perché irrealizzabile? Irrealizzabile in quanto la storia ci
insegna che non c’è luogo in cui l’uomo,
anche quando abbia trovato la pace,
rinunci alla sua sete di potere e prevaricazione?
O irrealizzabile perché “polemòs pater omnia” (il
conflitto è padre di tutte le cose), dunque una società, una convivenza priva
del confliggere, nascerebbe già malata, perversa e illusoria?
Ogni processo di elevazione già contiene in sé il
ricadere in un mondo di pratica corrotta?
E questo vale tanto per l’individuo singolo come per la
collettività?
Tornano antichi quesiti.
Per tranciare con l’accetta ciò che, in realtà, vorrebbe
un’indagine più oculata:
Si nasce o si diventa?
Individuo o relazione? Dunque Parmenide o Eraclito? Condillac o Rousseau? Hegel o Schopenhauer?
Coscienza o incoscienza? La filosofia medioevale, W.
Wundt, il pensiero cognitivo o J. Le Doux, O. Sacks, A. Damasio?
Passione o ragione? I sofisti o Platone?
E se ponessimo la congiunzione coordinativa “e” in luogo
della disgiuntiva “o”?
Operazione teorica, mi pare, perfetta, poi… sta al
praticare (come sempre) la parte più ostica, sta al costruire, che è insieme
distruggere, l’arduo compito di smentire l’ipotesi che ogni ricordo evocato
violi le proprie origini.
Commedia dall’ampio spettro politico, per la stessa
ragione tocca le corde più profonde dell’animo umano. Essa mi ha portato,
ancora una volta, a interrogarmi su quel senso taoista che mi guida nelle
scelte, sulla mia capacità di inserirvi i tratti dominanti di quella che viene
chiamata “causalità circolare”: dove l’accettazione e comprensione del tutto
non eviti di intervenire, di prendere posizione, per dare un indirizzo al
volgersi delle cose.
Se, a prima vista, potrebbe suonare amara l’ultima
battuta di Evelpide, mentre il compagno, tiranno e sposo di Basileia, la
personificazione divina della sovranità, sta sul trono osannato da folle di
uccelli: “Pistetero, torniamo a casa”
, ci possiamo però trovare lo spiraglio per un tornare sui nostri passi come
invito alla moderazione; di più, come invito a non evadere ma a sporcarci le
mani nel “qui ed ora”, a guardare verso un’utopia come sogno di ardua
realizzazione e non come sogno utopistico, ovvero irrealizzabile.
Certo, resta terrificante l’immagine di questa folla
plaudente, di questi uccelli, non più liberi, ora chini sotto le brame e le
storture del potere.
Ancora una volta lo spettro delle masse ignoranti e
manovrabili, dell’elite come casta, della storia come luogo di potere per pochi
in cui le masse fanno da sfondo o, peggio, da becero sostegno.
Spettacolo bellissimo, divertente ma…dalle domande
insidiose a cui, io credo, nessun adulto sano ed autodiretto, nessun
“guerriero” dovrebbe sottrarsi. Anche non conoscendo le risposte.
Al
Teatro Menotti
Milano
Dal 17
Gennaio al 3 Febbraio
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