Seduto nell’accogliente poltrona della sala “President”
all’Anteo, Monica accanto a me:
Joker
la tanto acclamata pellicola di Todd Phillips in cui
giganteggia l’interpretazione di Joaquin Phoenix, sta per iniziare.
Il personaggio è sempre stato descritto come un maniaco
omicida, violento, ben sopra le righe, fino a evolversi nella figura nichilista
che compare ne “Il Ritorno del Cavaliere Oscuro”: un fomentatore di caos e
disordine di contro al Batman portatore d’ordine e legalità.
La prima cosa che mi ha pesantemente colpito è, qui nella
pellicola di Phillips, la totale mancanza di un possibile confronto: in questo
Joker nessuno si salva, tutti, ma proprio tutti, sono, siamo, “cattivi”.
La pellicola è dominata dalla dichiarazione che tutti
indistintamente sono portatori di male: fosse solo per ignavia, impotenza o
superficialità, nessuno si salva, tutti nuotano nel mare del male.
Un nichilismo che eleva ad ideologia e pratica consentita
la distruzione, l’annientamento di qualsivoglia istituzione o sistema di valori
esistente, qualsiasi forma sociale collettiva e relazionale.
La stessa fanciulla che, per brevi tratti, affianca Joker
è la prima ad indicargli il gesto dello spararsi alla tempia perché non vi è
alcuna soluzione al degrado e a sostenere il valore positivo dell’assassinio di
tre colletti bianchi; nonostante la relazione con lei, fatta di caldo rifugio
silenzioso ma anche di un bacio che apre su un incontro carnale intenso, Arthur
/ Joker non esita ad affermare di non essere mai stato felice, nemmeno per un minuto.
Insomma: siamo tutti malati e malefici, nessuno si salverà.
Altro elemento per me perturbante è lo svilupparsi stesso
della storia di Arthur /Joker: un clown
fallito che sogna di diventare un comico di successo ma che subisce un
escalation di umiliazioni ed angherie
senza che abbia fatto nulla per meritarle.
Questo ci porta colludere, a solidarizzare con Arthur /
Joker.
Però, di contro al solidarizzare che possiamo aver
coltivato nell’incontrare i personaggi principali “oscuri” di serie come
“Dexter”. “House of cards” “Breaking Bad”, arrivando a chiederci quanto fosse giusto colludere col
protagonista pur sapendo le cose orribili di cui si sarebbe macchiato, qui il
crescendo è tale e costruito per eliminare ogni dubbio, che probabilmente il
solidarizzare fino a sfiorare l’identificarsi è una palla di neve che, minuto
dopo minuto, diventa una valanga inarrestabile in un contesto che non solo non
fa nulla per fermarla o impedirne l’ingrossamento, ma, anzi, lo incoraggia, in
un moltiplicarsi di malvagità reciproche e spudorate.
Ecco raddoppiata, rafforzata, la mia sensazione che nulla
si salva, nulla si potrà salvare.
Lo stesso disturbo mentale conclamato di Arthur/Joker, a
cui la società, per altro, non dedica alcuna pratica curativa soffocata dai
tagli e dai risparmi imposti al “Sociale”, ci porterà a ritrovarlo nella madre,
suggerendo, da un lato, l’inevitabilità della trasmissione della malattia,
dall’altro che la malattia, in forme latenti ma altrettanto pericolose, sia
presente nel politico maneggione come nel comico privo di scrupoli pur di
piacere e cavalcare il successo.
Ancora una volta compare il “nessuno si salverà”. L’accusa che siamo tutti malati e cattivi e
che la specie umana è destinata all’estinzione violenta.
Una pellicola dura, che fa male, che non esito a definire
agghiacciante, con una interpretazione, anche fisica, gestuale, di Phoenix
davvero eccezionale. Inquadrature essenziali e musiche incalzanti.
Un grande film, grande ma, o forse per questo grande,
portatore di desertificazione nell’animo e dubbi profondi sul senso del vivere.
Nel tentativo di comprendere e smussarne il freddo che mi
lascia dentro, mi rivolgo a Freud, all’impossibilità che l’Es, nell’uomo e in
tutti gli uomini indistintamente, sia dominante, di più, l’unico ad esistere: Joker/Es
si appella alla forza del Caos, autentica
natura dell’uomo, al di là di ogni principio etico di bene e male, guidato da
tutto ciò che vive di pulsionale e istintivo e non contiene moralità né valori.
Solo Es, dunque senza Io e Super Io? Possibile? Possibile e plausibile che,
prima o poi, avvenga per tutti noi?
E ripenso a Jung, all’Ombra junghiana.
Nella quotidianità, l’uomo trascura il suo versante oscuro, convinto che esso non sia
parte di lui. Ma una voce dentro, ancorché inascoltata, gli porta echi della propria Ombra, gli dice
che il Male dentro di lui esiste e brontola come fiera accucciata e legata alla
catena. Così Arthur/ Joker non sapeva di avere un’Ombra dentro e la totale subordinazione
ad essa lo costringe a vivere un’esistenza lontana dalla coscienza, dalla
razionalità e votata all’efferatezza. Se per Jung l’Ombra solo quando taciuta e
rinnegata è davvero pericolosa e portatrice di azioni malefiche mente il
riconoscerla e piegarla all’interno del vivere sociale ne fa una forza anche
propositiva, per Arthr/Joker la questione non si pone: lui è l’Ombra stessa e,
scena dopo scena, scopriamo che l’Ombra si annida in ogni angolo del sociale,
della collettività fino ad esplodere vivida e terrificante: Nessuno si salva.
Né potrà redimersi o, almeno, contenersi, come ci
suggerisce la scena finale.
Ogni mio tentativo di anestetizzare, di correggere con
riferimenti intellettuali, lo squarcio dentro che la pellicola mi ha provocato,
non sortisce alcun effetto.
Monica stessa, lineamenti del volto tesi ed induriti,
indugia più del solito nella poltrona.
A tavola, nell’accogliente “Osteria del cinema”, cibo di
qualità e clima accogliente, ne discutiamo vivacemente, entrambi coinvolti,
entrambi vicini.
Buongiorno a tutti,
RispondiEliminafinalmente mi è capitata l'occasione di vedere Joker, e sono quindi tornato a leggere il post di Tiziano. In ritardo di un paio di settimane, vorrei contribuire al già forte commento del Blog, con la mia esperienza.
Inutile fare confronti con Nolan, come già asserisce Tizi; questo Joker è vittima costante di una congiura senza autori, quindi ancor'più crudele. Piani dettaglio ossessivi, colonna sonora con note lunghissime che aumentano di volume, mi hanno fatto avvertire un distacco dalla realtà, come quello che vive Arthur, progressivamente reietto da tutto e tutti. Se questo era l'intento del regista, con me ci è riuscito in pieno; entrare in questa pellicola è doloroso e pericoloso, perché ci si sente risucchiati nel suo progredire verso l'abisso. Inguaribile romantico Tiziano, o ipercinico io, non siamo in accordo sull'interpretazione della sua storia sentimentale. Secondo la mia analisi delle immagini, è tutto frutto di allucinazione, e quando lui stesso se ne accorge, ecco, quello credo sia l'apice del dolore. Dopo aver scoperto di non esere nemmeno figlio di sua madre (ultimo strale contro la sua stessa identità) Arthur entra da lei in cerca di consolazione, lei lo trova sul divano e si spaventa, lo tratta poco più che come un estraneo, lui ripensa ai momenti passati con lei, e nelle immagini di flashback che vede lo spettatore lei viene rimossa da un'inquadratura con l'altra. Anche i suoi ricordi lo tradiscono, anche ciò che di bello aveva vissuto era finto, frutto della sua deriva, di un suo bisogno emotivo, tanto forte da modificare le sue percezioni.
Un punto chiave, a mio parere, è quando dichiara che uccidere i tre "fighetti" gli è piaciuto. Non è forse vero che dalla cinematografia americana scaturisce proprio quella cultura, che si compiace dell'annientamento dell'altro, che inventa cattivi per godere della vendetta, fin'dai tempi dei western? Ecco sovvertito tutto, oggi tocca ad un "villain" l'etica del vendicatore. Poco dopo parte White Room, con la sua potenza sonora evocativa, quasi trionfale, mentre lo schermo si illumina dei roghi che bruciano Gotham, in una rivolta tanto simile a quella di Los Angeles, la Rodney King uprising del '92.
Mi pare che il regista non voglia imporre giudizi morali, qualora lo spettatore fosse tentato di apporre etichette, lo stesso Arthur, ormai pienamente Joker, se le stacca di dosso, dichiarandosi del tutto indifferente, quasi ignaro, della rivolta che altri finti Joker mascherati stanno portando avanti nelle strade. Il giudizio aprirebbe un varco di fuga, come un prendere le distanze dal pazzo o da chi lo ha umiliato e vessato, indicherebbe la parte giusta da cui stare per sentirsi innocenti, invece questo non è concesso, perché non c'è scampo alla durezza per lui, e così per noi; ma l'assenza di giudizio è anche lo spazio in cui Arthur può danzare, proiettato dalla disperazione in uno stato di totale libertà e solitudine, danza sul vessillo (la macchina della polizia) di una civiltà che lo ha solo tradito, ed ancora danza sul sangue della dottoressa, colorando con esso il bianco asettico e glaciale dei corridoi dell'ospedale psichiatrico.
Un interrogativo mi resta, vibrante: se è vero che l'arte è mimesi (Platone), ovvero che ci si ispira a ciò che c'è, per ritrarlo carpendone l'essenza, da quale società il regista ha estrapolato questa Gotham, da quale umanità l'attore ha estratto i colori per dipingere questo Arthur?