Un
poliziesco anglonipponico, incentrato su un sicario della yakuza scappato dal
Giappone e sul fratello detective, piombato a Londra a cercarlo.
Una Londra fatta di meandri speso sordidi e sottobosco di
uomini e donne che faticano a trovare una propria dimensione autentica nella
sempre più caotica e malevola città.
Nella serie, agiscono personaggi tutti grande spessore,
nessuno secondario né alla trama avvincente degli accadimenti né allo scavo
psicologico delle loro debolezze umane. E non è facile trovare una serie in cui
tutti, ma proprio tutti, i partecipanti contribuiscano all’intensità dello
spettacolo.
Mi ci
sono accostato per semplice curiosità per poi imbattermi, oltreché in uno
spettacolo avvincente e godibilissimo, nel binomio che dà il titolo alla serie:
“Dovere/Vergogna”,
che sono i due elementi che qui tutti i personaggi hanno
in comune.
Ogni personaggio, infatti, è legato da un obbligo in cui
albergano le cicatrici di disonori passati.
Un senso
del dovere che per i personaggi di stampo europeo suona come un individuale “Devo
stare meglio” oppure “Dovrei essere
diverso da come sono”, mentre in quelli giapponesi il senso del dovere
(giri), è quello al quale si sacrificano le emozioni umane (ninjo), al fine di
far trionfare l’armonia della collettività, il rispetto della famiglia,
dell’impresa per cui si lavora, del clan, della patria.
Stesso è per la vergogna, correlata, nei primi, alla
percezione che si ha di se stessi. La vergogna si presenta come un senso sgradevole
di nudità, di trasparenza: si ha la sensazione di essere stati scoperti e di
conseguenza si vorrebbe diventare invisibili, sparendo per sempre dagli sguardi
altrui.
Nella cultura giapponese, vergogna (haji) più che imbarazzo è disonore.
Come scrisse Ruth Benedict, in “Il crisantemo e la
spada”, la cultura della vergogna sarebbe la pressione ad agire nello stesso
modo. Per il giapponese, lo stimolo di partenza proviene dall’esterno, sicché
l’autocontrollo o l’autocensura, contrariamente alla mentalità occidentale, si
attivano non per fedeltà a una propria morale interiorizzata, ma per evitare il
rimprovero esterno.
L’incontrarsi
e lo scontrarsi dei personaggi, a Londra come in Giappone, crea sotterranee e
malcelate commistioni tra queste due visioni che lacerano sia i singoli che le
relazioni tra gli stessi, il tutto mentre la vicenda procede tra sparatorie,
massacri, agguati e fughe vertiginose.
Allora
lo scorrere degli eventi, mentre mostra il limite di karoshi “la morte per
eccesso di lavoro”, ovvero la spinta all’onorare ad ogni costo impegni e
scadenze, mostra anche la decadenza mortifera insita nella
deresponsabilizzazione e nell’eccesso di godimento; di come tatemae / honne,
l’apparenza che fa da scudo alla sostanza, possa rivelarsi una trappola
soffocante tanto quanto l’occidentale mostrarsi e fare quel e come ci pare, in
nome di un liberismo avido ed egoista, sia traghetto verso disperazione e
dissoluzione.
Danziamo, puntata dopo puntata, tra il preconcetto nostro
di cercare sempre una causalità lineare e quello asiatico di cercare invece un
senso ad ogni esperienza.
Abitiamo la compostezza di kijo, il dolore riservato,
persino elegante, di contro alla sguaiata esposizione senza ritegno dei
sentimenti, ed intanto ci domandiamo se il primo non sia paura, fuga dall’ascolto
di sé ed il secondo una spiacevole ma necessaria catarsi.
La
serie non lascia certezze allo spettatore, o almeno questa è la mia
impressione. Questo perché la parabola di ognuno dei personaggi è narrazione in
divenire.
Se davvero la
realtà è mondo intenzionato, allora l’individuazione, il percorso di
ognuno, è a carico di ognuno di noi, in cui l’altro, l’ambiente, non può essere
né scusa né colpa per le nostre scelte. Che si venga da una formazione
tradizionale o da una che la tradizione ha dimenticato, ognuno ha da fare i
conti con i sensi di colpa e le ambizioni, i progetti, che lo abitano. Ognuno
ha il suo substrato inconscio, più o meno contaminato dal retaggio della storia
umana, da quello che è chiamato “inconscio collettivo”.
Dal
punto di vista occidentale, che per forza di cose; nascita, educazione,
relazioni ecc. è il mio, per così dire, “naturale”, viene da chiedersi, questo
sì abbracciando la concezione orientale, il senso di questa rapidità, che è
superficialità, della comunicazione, dell’avere tutto e subito, della frenesia
del consumare quand’anche senza usare, e che in fretta deragliano nel consumo
usurante di noi stessi.
Guardare
la e le storie qui raccontate è ripensare ai nostri atteggiamenti, al nostro
fare fisicoemotivo, significa comprendere il senso di ciò che sta accadendo
attorno a noi, che sia ancora latente o in bella mostra, ma che intuiamo essere
trasformazione in corso della collettività
verso un futuro ancora tutto da riempire ma dai contorni acidi e maligni.
Allora ognuno di noi è e sarà responsabile verso di sé come verso gli altri,
responsabilità che è rispetto e cura, pazienza e gentilezze, tanto quanto
fermezza e coraggio, audacia.
E’, per me, per le mie scelte, Spirito Ribelle, ovvero pratica di disubbidienza ed opposizione
all’abbruttimento ed al servilismo di un presente che vuole condurci verso un
prossimo futuro dominato in toto dalle leggi del profitto e della
mercificazione, dell’alienazione.
D’altronde “ Niente
se ne va prima di averci insegnato ciò che dobbiamo imparare” (Buddha)
Una
nota di merito alla musica. Non tanto per i gradevoli brani musicali, quanto
per le percussioni, i tamburi, che colpiscono e tracciano, improvvisi, lungo l’intero
arco della narrazione. Semplicemente sublimi.
Giri
Haji
su
Netflix
Nessun commento:
Posta un commento