Il
solito “pistolotto” sulle Arti Marziali per sapersi difendere da
un’aggressione?
Per
imparare l’autodifesa?
NO!!
In precedenti scritti ho già smontato questa
“bufala”, questa illusione venduta a paciosi studenti e tranquilli impiegati di
diventare dei letali combattenti. “Bufala” ed illusione costruita su esercizi e
combattimenti sempre in coppia e con l’opponente sempre davanti a sé e
precedentemente già identificato come tale; su grottesche difese da coltello
rigorosamente di plastica e da pistola giocattolo; su esercizi ginnici e di
potenziamento (magari pure errati e portatori, nel tempo, di dolori cronici)
come “conditio sine qua non” per sapersi difendere, e la lista di aberrazioni,
incongruenze e falsità potrebbe continuare.
Invece
Sì, le Arti Marziali come
armi: potenti, distruttive, letali.
Sì, lo Spirito Ribelle inteso,
come scriveva Ernst Junger, a mò di anarca, parola composta dal greco an
'senza' e -árchìs, da árchein, 'governare, comandare'. Ossia l’individuo
che rifugge un ordine arrogante nel pretendere il controllo totale, e allora si
sottrae scegliendo di ‘passare al bosco’, dissociandosi dai valori imposti
dalla società.
Uno Spirito Ribelle che pratichi Arti Marziali, come
io le intendo e le propongo, ecco quanto vado formando, di passo in passo, di
aggiustamento ed approfondimento in aggiustamento e approfondimento, ormai da
quasi mezzo secolo.
Uno
Spirito Ribelle che pratichi Arti Marziali è un individuo autodeterminato,
coraggioso,
vitale
ed erotico: un guerriero contro.
Perché scrivo questo? E come si può arrivare ad un
individuo siffatto?
Ogni individuo, sin dalla nascita, cresce e si
forma nella relazione con gli altri e con l’ambiente in cui vive. Ma
siamo in una società che annebbia il senso dell’altro, ci distanzia dall’altro,
che, per rispolverare Karl Marx e il concetto di alienazione, riduce l’altro
ad oggetto: reifica le relazioni, aliena il sé corpo, il sé fisicoemotivo.
L’altro è massa indistinta, è like sui social.
Prendiamo il contatto più
spontaneo ed intimo: l'attività sessuale, ebbene è in diminuzione, come ci
dicono i diversi rapporti in merito: “Periodi di astinenza negli ultimi tre
anni hanno riguardato il 92,6% delle persone, quote uguali tra maschi e
femmine: la durata media è stata di 6 mesi, ed è il 26,2% ad avere avuto
un’astinenza sessuale superiore ai 6 mesi” (fonte Censis) e come rileva
Luigi Zoja, psicoanalista e sociologo nel suo ultimo libro: “Il declino del
desiderio”. Cresce, invece, il sesso on line, quello finto, quello immaginato,
quello dove si inventano storie e giochi erotici tutti “vissuti” di mente.
Una fuga dall’intimità dei corpi, dal contatto dei corpi; i
corpi sono invece vetrinizzati, sono merce modificata ed abbellita in pratiche
di palestra ed esposta al pubblico come oggetto di consumo o in veste puramente
decorativa. Sono Körper, corpo-oggetto, quel che uno ha, che
occupa uno spazio, che misura di certe grandezze come il peso e l’altezza, e
non Leib, che conosce attraverso l’esperienza ed è corpo vissuto.
Il corpo non è più fisicoemotivo, non è più il flusso tra
il sé e il resto del mondo, è divenuto carne morta, corpo sterile. il
corpo non è più teatro delle passioni, come cantava Omero nel IX secolo a.c.,
né “cognizione incarnata” come scrivono George Lakoff e Mark
Johnson, filosofi e linguisti; il corpo, oggi, è “il più bell’oggetto del
consumo” (Jean Baudrillard, sociologo), è “oggetto posseduto da
personalizzare con gadget, app, chip subcutanei, innesti e perfino software da
scaricare direttamente nel cervello” (G. Mininni, filosofo).
E’ l’alterità che consente lo sviluppo
dell’identità individuale e pure collettiva. Gli individui,
invece, nel contatto di corpo che è quotidiano, persino obbligato nel vivere
sociale, praticano contatti dominati dal consumismo e dal narcisismo, contatti
asfittici, contatti pervasi da insincerità, contatti di corpi estranei a se
stessi prima ancora che agli altri.
Ecco,
allora, la pratica delle Arti Marziali come arma
che
smonta e distrugge reificazione ed alienazione.
Lo fa perché propone giochi e
dialoghi di corpo a corpo, anche conflittuali; giochi il cui “cuore” della
pratica è conoscere e misurare la propria identità personale confrontandola con
quella dell’altro e integrandola nel gruppo. Grande esempio di formazione
all’adultità!!
Lo fa costruendo momenti
empatici, di risonanza emotiva, e momenti esplorativi intesi come nuovi modi di
esprimersi gestualmente quanto nuovi modi di contatto con l’altro. Grande
esempio di integrazione tra ciò che si è e come lo si esprime con ciò che di sé
e dell’altro si scopre, inducendo inconsueti tracciati creativi!!
Lo fa giostrando abilmente tra
giochi e momenti di libertà espressiva e giochi vincolati. Importanti questi
ultimi perché il vincolo ad una gestualità totalmente libera riconduce il
praticante alla condizione esistenziale quotidiana, quella dove non gli è
concesso di tutto, non gli è concesso di fare quel che gli pare. Tanto impara
il concetto di contenimento, di cooperazione, quanto sperimenta quella
creatività che è unica fonte di una concreta libertà d’azione.
Perché sia così, certamente,
occorre un luogo, un ambiente di pratica, che su questo sia fondato e non su
codifiche di stili e memorizzazioni di tecniche; del tutto lontano da dettami
dirigisti e didattiche impositive; che rifiuti tanto le mere e morte sequenze
gestuali prive del corpo come “luogo di esistenza” (JL. Nancy,
filosofo), quanto lo scazzottarsi come
fulcro, come parte preponderante della pratica invece che come verifica di
quanto studiato e dei progressi fatti; dove non regni il Sifu, il Maestro,
l’allenatore, ma un facilitatore, quello che io chiamo il Sensei,
“colui che è nato prima” il cui compito non è l’indottrinamento
dell’allievo, sorta di “carta bianca” su cui scrivere il sapere di questa o
quell’Arte, su cui sfogare il proprio delirio di onnipotenza, quanto l’accompagnarlo
dentro il suo mondo interiore e le potenzialità ancora inespresse.
E, sinceramente, una pratica, un luogo e un Sensei così, a
parte me e il nostro gruppo, nel mondo delle Arti Marziali, io ancora non l’ho incontrato!!
Scelta legittima, certo, quella di praticare e proporre le
Arti Marziali in altro modo e con altri scopi, purché non si inganni il
“cliente” illudendolo che incontrerà equilibrio e consapevolezza, salute
psicofisica, autorevolezza decisionale, ed altre caratteristiche che, invero,
nessuno potrà mai trovare se non
pratica di corpo in quanto esperienza del
corpo stesso e attraverso una didattica maieutica (1). Perché, Maestri e
Sifu, in tutta onestà, non propongono le Arti Marziali come attività ginnica,
come avvincente sport, come occasione per fare nuove conoscenze, per stare
insieme in compagnia, per divertirsi? Tutte caratteristiche legittime, persino
attraenti.
Questo modo che io vado
proponendo riprende ed attualizza il Tradizionale passaggio dal Bujiutsu
( combatto per salvare la pelle a scapito di quella dell’avversario) al Budo (modo, Via, di crescita
ed educazione): “Scopo della pratica del Budo è di ‘denudare se stessi, di
affrontare se stessi’ tramite le modalità di origine marziale” (Murata
Takuya, Maestro di Kendo e Iaido). Passaggio che, approssimativamente, avvenne
alla fine del periodo Meji, nella prima metà del XX secolo. (2)
Questo modo è l’arma potente,
distruttiva, letale, in mano al “ribelle”. Un’arma con cui il ribelle
non potrà certo cambiare il mondo, fermare la deriva capitalista, ma, almeno,
potrà cambiare, o provare a cambiare, di sé e di chi gli sta intorno: poca
cosa, ma… ogni grande viaggio inizia da un primo passo…
1. “il risultato è una crescita personale”; “favorisce
l’autonomia, la padronanza di sé, il rispetto degli altri, e una migliore
qualità di vita”; “permette di allontanare gli atteggiamenti impulsivi di
rabbia e agitazione, facendo spazio alla calma, al rilassamento emotivo e
all’autocontrollo”. Sono tre promesse pubblicitarie di tre distinte Arti
Marziali (non importa quali), di cui, con parole magari diverse, è pieno
l’ambiente marziale. Promesse che nessun volantino, nessun articolo, nessuna
riflessione spiega come attuare, se non ripetendo tecniche, forme,
combattimenti, se non puntando alla migliore imitazione del modello dato.
Pubblicità ingannevole?
2. Questa transizione fu spiegata nei libri di Donn F.
Draeger, insegnante e praticante di arti marziali giapponesi, autore di alcuni
dei più autorevoli libri sull’argomento. Fu esplorata ed interpretata dal
Maestro di Judo Cesare Barioli nei “Quaderni del Bu Sen”. Quest’ultimo fu il
primo a proporre, in Italia e in sintonia con gli insegnamenti del Maestro Kano
Jigoro fondatore del Judo, la pratica judoistica come forma di educazione
tentando anche di introdurla in veste ufficiale, ossia come materia di studio,
nelle scuole pubbliche. Un approccio diverso dal mio, che tratta di
“formazione” e non di “educazione”, e che il Maestro proponeva con una
didattica in rigida sintonia con gli insegnamenti dirigisti del Judo stesso,
quelli propri anche della scuola pubblica italiana, dunque ben lontani da
quella didattica maieutica che io sostengo. Il tentativo non andò a buon fine,
ma il Maestro Barioli resta un grande esempio di come le Arti Marziali possano
essere davvero una “Via”, un percorso di conoscenza interiore e di crescita
personale. In questa direzione di “crescita” si mossero, negli anni ’80 – ’90,
anche alcuni gruppi di aikidoka ed un gruppo ligure di Chi Kung dei quali,
però, persi presto le tracce.
Post
illustrato da briciole di momenti e volti di un percorso
ZNKR,
poi Spirito Ribelle,
che
dal 1980 continua ancora oggi