Magari una sola rapida occhiata, anche superficiale, ma perché non occuparsi di sport e arti di combattimento attraverso lo sguardo di chi le pratica?
E’ quello che ha fatto Frank Grillo (attore
statunitense, praticante di arti marziali e sport di contatto, in particolare
Boxe e Brazilian Ju Jitsu), in un breve (solo cinque puntate) documentario
visibile sulla piattaforma Netflix.
Fightworld
Girato un pugno di anni orsono, ci presenta, attraverso i
suoi praticanti, cinque discipline di cinque diversi paesi:
La Thailandia con il Muay Thai.
Combattenti giovanissimi, entrano nelle palestre di Muay Thai per non gravare
sulla famiglia e in cerca di un avvenire professionistico, conducono
allenamenti massacranti in condizioni di vita miserevoli. Scopriamo che al
successo economico del Muay Thai contribuisce in modo essenziale il gioco
d’azzardo, così sfacciato che gli stessi atleti, durante il match, vengono aggiornati
sulle quote della loro eventuale vittoria, condividendo una parte delle borse
degli allibratori.
Il Myanmar, l’ex Birmania, con il
Lethwei, sorta di Muay Thai con la possibilità di colpire di testa. Qui
la povertà che spinge i giovani a cercare un riscatto nel successo sportivo si
incontra (o scontra?) con la presenza di atleti professionisti e benestanti
provenienti da tutto il mondo: Tentativo ben orchestrato di aprire la
disciplina a un pubblico, (e a un business!!), più vasto. Il conflitto fra
tradizione e modernità, con tutto ciò che comporta a livello morale ed
economico, aleggia per tutta la puntata del documentario.
Il Senegal con la lotta Laamb,
lo sport nazionale. La puntata vede due affermati campioni di oltre un quintale
affrontarsi in uno stadio davanti a decine di migliaia di spettatori. Ambedue
sono venerati nei rispettivi quartieri come eroi, semidei, in un legame
profondo con lo spirito religioso del paese, con le radici e le tradizioni del
paese. Se il tifo, il delirio, che i due suscitano ricorda gli eccessi del
nostro tifo calcistico, la radicale differenza sta nella presenza costante
dello spirito religioso e nell’atteggiamento di fronte alle cose della vita che
si potrebbe definire rinunciatario, riassunto nella parola araba Inshallah,
“Se Dio vuole”. Una caratteristica non solo della religione islamica ma
pure del cattolicesimo più ortodosso.
Israele col Krav Maga. Qui si
tratta non più di sport ma di vera e propria disciplina atta ad uccidere per non
essere uccisi, di disciplina insegnata alle truppe israeliane come arma di
difesa. Vedendo le immagini della puntata, appare evidente (per chi ancora non
l’avesse capito!!) che il Krav Maga venduto nelle varie palestre anche qui in
Italia non c’azzecca affatto con “il modo più veloce ed efficace per uccidere
un uomo”. E non potrebbe essere altrimenti: lì, in Israele dei soldati, dei
combattenti “vita o morte”, la insegnano ad altri soldati, a combattenti “vita
o morte”; qui, civili, abilitati da qualche corso ad insegnare Krav Maga, lo
propongono ad altri civili: impiegati, studenti, casalinghe, per qualche ora
alla settima. Entrambi, docenti ed allievi, poi tornano a casa, alla loro
tranquilla e paciosa vita quotidiana. Ah, cosa non si fa per un po' di soldi
gli uni e per fingersi eroi combattenti gli altri!!
Un documentario più sulle persone che combattono che sul
combattimento stesso, un documentario capace di mostrare l’umanità di cui sono
intrisi questi sport.
Le puntate, per altro, fanno
leva sulla pratica sportiva sia come possibile via d’uscita dalla povertà
economica e sociale dei combattenti, sia come percorso educativo che tolga
dalla strada e dalle tentazioni criminali gli strati più poveri della
popolazione. Con il diffuso, ancorché fragile, benessere economico, unito ad
una scolarizzazione massificata, quanto sopra pare strettamente riferito a zone
del mondo vieppiù marginali, non ancora toccate dal cosiddetto progresso.
Oppure, proprio questo stato di benessere può innescare il
bisogno di soffrire, di addentare la vita, di cercare “Il giorno da leoni di
contro alla vita da pecore”, di passare attraverso riti di iniziazione che,
appunto, il benessere ed una società vieppiù iperprotettiva, di maschi
“mammoni”, ha fatto scomparire. Poi accadono “episodi avventati perpetrati
dagli adolescenti che la società adulta fatica a comprendere” (http://tiziano-cinquepassineldestino.blogspot.com/2023/02/il-professore-sul-ring.html) in
cui non è difficile intravedere la ricerca di un “rito di passaggio”: “La
qualità della mascolinità tradizionale – coraggio, durezza, impassibilità al
dolore – trovano sempre meno posto nella società di oggi, al punto da portare
alcuni a profetizzare “la fine degli uomini”. Ma, nel profondo, gli uomini
hanno ancora bisogno di sentirsi uomini, e così, come Don Chisciotte, ci
inventiamo i nostri draghi. Nella maggior parte delle culture, correre dei
rischi assurdi rimane un prerequisito della virilità, e se i giovani maschi non
affrontano più i pericoli in riti di passaggio formali, lo fanno comunque a
modo loro. (J. Gottshall “Il professore sul ring”)
Poi, come già scrissi in precedenti occasioni, per la
“pagnotta” uno fa tanti sacrifici, dunque ci sta rischiare di perdere un
occhio, incappare in gravi malattie dettate da traumi ripetuti tipo la encefalopatia
del pugile, fino a morire mentre si combatte sul ring o nell’ottagono. Scelte
legittime, ma non facciamo finta che picchiarsi a sangue sia una passeggiata!!