Purtroppo viviamo in una società vieppiù disincarnata, in
cui le esperienze e le relazioni sono generalmente vissute attraverso lo
schermo di uno smartphone da quello che il filosofo Byung Chul Han chiama “phono
sapiens”, (in “Come abbiamo smesso di vivere le cose”), in cui “le
energie libidiche abbandonano le cose e si lanciano sulle non – cose. La
conseguenza di ciò si chiama infomania” (ibid). Ormai, gran parte di ciò
che prima era corporeo, è virtuale. Quel che di corporeo rimane è
vetrinizzazione, è consumo di corpo oggetto (Korper), prigione a cui non sfugge
nemmeno la pratica fitness o quella sportiva.
Come
coniughiamo questo nostro, di Spirito Ribelle, fondarsi invece sul
corpo
Leib, corpo esperito, corpo abitato,
con la
pratica di un oggetto, di un’arma bianca, arma pure del tutto inattuale nel
terzo millennio?
Ne scrissi già in precedenti post. Qui mi preme, in sintonia con le righe sopra, a fronte dello strapotere del virtuale: degli e – book sui libri, delle “amicizie” in rete su quelle fisiche, della “realtà aumentata” su quella reale, del sesso attraverso uno schermo su quello carnale, rilevare che siamo divenuti insensibili al fascino ed alla magia degli oggetti. Oggi sono solo cose prive di dialogo con l’umano.
Invece, il lungo e faticoso processo metallurgico, in
particolare nei Katana tradizionali, richiama il mistero dei processi
alchemici, possiede una materialità intrigante. L’amalgamarsi contraddittorio di
acciaio duro e acciaio morbido, l’importante presenza di materia impura per
rendere l’arma affidabile, la pesante fatica manuale per forgiare e quella
precisa e ripetitiva per affilare, i riti che circondano la creazione di ogni
lama, non possono non risvegliare miti e archetipi che sono linfa del vivere
consapevole.
Ecco, il Katana, oggi, nel
terzo millennio, non “serve”, non è soggetto ad alcun uso, dunque non può
essere consumato: Bestemmia grave di questi tempi!! Però, nelle nostre mani
spadaccine, il Katana è momento di relazione con le nostre pulsioni, è
persino creatore di mondi.
- Quanti allievi il Katana l’hanno impugnato frettolosamente
e subito lasciato, incapaci di stabilire un rapporto con l’arma che trancia di
netto, che uccide; costoro ormai abituati, servi, di cose, strumenti,
immediatamente a disposizione, di pronto uso, e come tali strumenti impossibilitati
a suscitare quell’ascolto profondo e profonda attenzione che richiede, impone,
il Katana.
- Quanti allievi, impugnando il Katana, una volta entrati in
contatto con le forze terrificanti che sprigiona, con il disvelamento
dell’Ombra che macera e turba, che gorgoglia e rantola dentro ogni spadaccino,
sono fuggiti senza parole o adducendo parole di menzogna. Onore, invece, a chi,
spaventato dai demoni intravisti, ha sì abbandonato l’arma ma ammettendo di non
essere pronto, di essere sopraffatto dal timore: Anche nella fuga c’è onore e
coraggio quando ce se ne assume la responsabilità, quando si ammette la propria
incapacità a stare nel conflitto.
- Qualcuno, invece, è rimasto. Ha impugnato la tsuka,
l’impugnatura della lama, finemente intessuta di seta o cotone o intrecciata di
cuoio, e ne ha fatto esperienza. Esperienza di tagli e falciate, a vuoto o su
un bersaglio di stuoie o di bambù, o di lanci rapidi violentemente fermati a
pochi centimetri dal corpo dell’avversario. Così disvelandone il mezzo,
antiquato, sorpassato, inevitabilmente desueto, nella sua sorprendente e
perturbante utilizzabilità. Solo così addirittura portando alla luce un aspetto
esperienziale che precede l’utilizzabilità; che scoperchia un mondo, il
mondo, dell’umano più antico e del suo rapporto con la morte.
Da diversi anni, colto in un momento di intensa tristezza eppure affacciato al mondo, ho con me un Katana tradizionale: uno Shinto, dei primi del 1600.
Come già scrissi, non ne sono proprietario, ma solo il
temporaneo custode. Quest’arma antica, benché da me acquistata, non la ritengo
una mia proprietà, piuttosto la sua presenza in bella mostra sul katana kake testimonia
l’approvazione del suo esserci.
Solo così mi ritengo degno di accettare, col mio acquisto,
di averla salvata da una definitiva scomparsa o dal divenire serva di qualche
sciocco uso sportivo, gara a chi lo taglia più grosso, o vacua mostra per occhi
vanitosi. Non cosa d’uso, non merce, ma esperienza di cuore.
Esperienza che è modalità critica necessaria per
un'assimilazione personalizzata di ogni nostra pulsione e capacità di disporla
al servizio di una personale presenza autodeterminata e coraggiosa nel nostro
vivere, nelle nostre relazioni di ogni giorno.
Questo è essere praticanti Kenshindo, la “Via dello spirito della spada”, oggi, nel terzo millennio. Roba per donne e uomini coraggiosi.
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