Giorno 30 Dicembre 2024, a zonzo per una metropoli affannata ed affaccendata nella ricerca del regalo o in visita turistica. D’altronde quante cinquantenni ingioiellate e vistosamente truccate fanno loro il motto “Natale non sarà Natale senza regali”, ricordando quel “Piccole donne” la cui lettura ha aperto loro la strada alle successive goffe narrazioni di Susanna Tamaro, Andrea De Carlo e Fabio Volo, che la scrittura di un romanzo non si nega a nessuno, persino a loro, e qualcuna, spero poche in verità, questi pure legge. Accanto camminano anzianotti tirati a lustro, un po' di pancetta, e l’andatura rattrappita a mostrare che non bastano le partite di padel o il bighellonare tra una chest press machine (quella che un italiano mediamente pensante chiamerebbe “pressa per i pettorali”, ma ormai l’assenza di pensiero pensato è nascosta da un grossolano vocabolario anglofono) e il momento dello spinning (che sarebbe quel tormento per cui, incalzati dalle urla di un nostrano sergente maggiore Hartman – il brutale graduato che strapazzava le inermi reclute in Full Metal Jacket – un tizio, per altro pure pagante, si autoinfligge vorticose pedalate fino a sfinirsi restando sempre e comunque fermo, lì, nello stesso identico posto da cui ha iniziato la pratica masochista) per ridargli la gioventù persa in anni di lavoro frustrante e relazioni sentimentali non appaganti.
Il sole c’è, e scalda corpi e cuori. Ripercorro strade che
mi odorano di gioventù, di poco superata la metà del ‘900. Ricordo che al bel
borsello comprato a Parigi è stata sottratta la strada di un futuro immaginato,
rientrati rapidamente a Milano alla notizia della strage della Loggia, in
Brescia.
Entro in piazza Fontana, echi di un circolo anarchico al
Ponte della Ghisolfa, lapide per un anarchico innocente gettato dalla finestra
ma guai a gridare chi è stato, che la giustizia del potere costituito ha detto
il suo, assolvendolo.
Se dilatassi le narici sentirei ancora l’odore acre dei
lacrimogeni, la voglia forte e pazza di andare incontro ai manganelli ed alle
divise schierate a proteggere il potere; la fottuta paura nello scontro, che fa
vergogna ripensarlo, ma il coraggio scemava sempre, ad ogni impatto, e beati
gli eroi del coraggio o gli insani dell’audacia ad ogni costo. Io no, io avevo
paura.
La lapide in memoria del compagno Santarelli (1),
uno dei tanti, troppi, uccisi per aver voluto cavalcare un ideale. L’ingenuità
collettiva di credere che potessimo cambiare il mondo in pochi giorni, a
sprangate e slogan sovversivi.
“Quando
tutte le altre forme di comunicazione falliscono,
la
violenza è necessaria per sopravvivere”
(T.
Kaczynski, meglio noto come Unabomber)
C’è una stradina, dietro i giardini della Guastalla, ed una
casa austera. Nemmeno ricordo il suo nome, ricordo solo che era alta, bella,
elegante, mi pare svizzera, ed era piacevole conversare con lei. Certo il fatto
che si è buttata dalla finestra, chissà perché: A noi sembrava avesse tutto.
Costeggio i giardini e chissà dove ho smarrito le foto che
mi ritraevano col mio amico “Motore”, compagno di musica in gruppi rock - blues
giovanili e lunghe chiacchierate notturne in una piccola piazza a Città Studi,
e quella mia fidanzatina, Francesca, dagli occhi mansueti ed il fisico
statuario.
Pare un gioco questo ricordare spontaneo o forse è la
memoria segreta del cuore, attorno vociare sommesso di giovani e rumore di
crocchi davanti ai muri dell’università Statale. Cappotti firmati e tacchi
alti, rumori di passi che mi superano, giovani le cui parole si ordinano in una
fila di anglicismi biascicati e termini tecnici di professioni tecnocratiche.
C’è ancora, resiste indomito Panarello, lui sì ben più
vecchio di me che è a Milano dai primi del ‘900, con i suoi inconfondibili
cannoncini alla crema.
Mi sono tenuto alla larga dal liceo Berchet, ma non sfuggo
ai ricordi delle partite a calcio in cortile, e al compagno di classe che mi
richiamava a salire per l’interrogazione rispondevo sempre “Dì alla prof che
sto giocando, salgo quando la partita è finita”. Scuola, di fatto in mano,
a noi studenti. Massimo rispetto per la Solmi, severa ed adorabile lei che era
nipote del poeta, o per il professore di filosofia, ex prete dai rigurgiti
ribelli, per gli altri solo distacco, quando non disprezzo. Gli anni d’amore
con Patrizia “Pirillo”, bellissima nei riccioli neri e gli occhi color foglia
d’autunno, l’alleanza col maoista di “Servire il popolo”, nell’armadietto lui
una vanga, io la fida spranga. Il “Morini 175 cc.” parcheggiato in strada e la
maturità ben superata.
Mi chiedo se questa presenza
ridondante di ricordi, così estrema da apparire incondizionata, non sia in
anticipo sui tempi della vecchiaia, se per vedere al di qua e al di là di me non
convenga sospendere il pensiero sugli altri che mi camminano accanto e sulle
novità di cose e persone che ora affollano il centro di Milano.
Ma tant’è per non dimenticare mai, almeno fino a che mi
sarà dato ricordare. E forse, alle soglie del 2025, non posso che augurare a
tutte e tutti di ricordare di sé e del mondo attraversato, di sé e del mondo
che avrebbe voluto. Di sé e di quel che resta e si può fare nell’anno che
verrà.
“Ricordate
il moro come un uomo che ha amato, dissennatamente sì,
ma con
tutto se stesso”
(Otello
di W. Shakespeare”)
1. “Quei cortei che divengono la prosecuzione delle assemblee,
delle riunioni, delle letture, delle discussioni, fatte con altri mezzi. Dove i
corpi e le coscienze si mettono davvero in gioco; quando arrivano le cariche
brutali dei nemici, servi di Stato. Precedute dal buio fitto dei lacrimogeni;
sparati ad altezza d’uomo. Come nel primo anniversario della strage di stato:
il 12 dicembre 1970. Quando 300 anarchici corrono, fino alla Statale, inseguiti
dai carabinieri inferociti” (C. Taccioli)
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