martedì 24 gennaio 2012

Tu devi essere il lupo

E’ grazie a Roberto che ho potuto vedere un film bellissimo:
 “Tu devi essere il lupo”.
 
Sono le chiacchiere a cena, una sera da me, o quelle nello spogliatoio in Dojo, ora non ricordo, a spingerlo a propormi un film sul maschile, sulla paternità, temi che mi sono particolarmente cari.
Così, Domenica, complice l’assenza di mio figlio piccolo, mi immergo, con Monica, nella visione della pellicola. Un film italiano, del 2005, di quelli di nicchia, di quelli che nelle sale cinematografiche sono entrati in punta di piedi e ne sono subito usciti, nell’indifferenza generale.
Eppure il film è ben costruito, ben recitato e tocca temi, mostra figure, di assoluto rilievo e urgente contemporaneità.

Mostra la forza fragile – 1 - di un maschio nello scegliere  la paternità, nonostante la figlia non sia sua e la madre prenda subito il largo. Facendo, con ciò, giustizia immediata di tutte le stupidaggini che accompagnano, nella propaganda di tutti i giorni come nei “salotti buoni” di cui il Corriere della Sera, nelle firme di Laura Rodotà e Corinna De Cesare, è principe, il termine “mammo”. Una parola con cui donne, evidentemente represse e incattivite da incontri con uomini par loro, ed intellettuali uomini sì, ma privi di tratti maschili, connotano l’uomo che si prende cura dei propri figli.

Mostra la fragilità forte di una adolescente, alle prese con il maturare e l’inevitabile decadere di una relazione figlia – padre dai connotati esclusivisti. Ma lei, contrariamente alla madre, saprà scegliere il suo lupo ed il suo bosco. Saprà farlo, nei modi e nei tempi tali da permettere a lei di camminare a fianco del lupo, farfalla e belva una accanto all’altro, una che è anche l’altro, crescendo con ciò adulta e sapendo, nel contempo, accettare e condividere il trasformarsi della sua relazione con il padre. Così io leggo quel suo viso assorto, capelli mossi, mentre viaggia sull’auto del padre, il capo fuori dal finestrino ad accettare, a cercare, la sfida del vento.

    Mostra il rimpianto, l’impossibile fuga all’indietro di una madre ( l’attrice Valentina Carnelutti, qui  dal volto bellissimo, da incantarcisi e movenze femminili sinuose da perdercisi dentro – 2 -  )  tanto capace di offrire ai bambini, nei suoi spettacoli di marionette, l’avventura dentro il bosco, metafora di un viaggio dentro le proprio passioni, il proprio lato oscuro, quanto poco capace di farlo lei stessa. Se non ora, andando a ritroso nel suo tempo, riaprendo ferite altrui e violando intimi ed ingenui segreti di chi non l’ha mai conosciuta. E chissà che ora non sappia finalmente essere donna e madre felice e consapevole accanto al suo compagno attuale. Un uomo, per altro, a cui il regista regala tratti di subordinazione e sottomissione che certo non mi lasciano vedere una coppia sana.

Il film mi ha emozionato più volte, più volte mi sono commosso. Un piccolo, prezioso gioiello.

1.       Tanto fragile da tenere con sé la neonata nella speranza che ciò induca la madre a tornare da lui. Tanto forte da diventare “padre” per la piccola anche quando questo ritorno si mostrerà impossibile; essere “padre”, forte e fragile insieme, nell’affrontare con la figlia lo snodarsi del vivere e crescere insieme. Se ancora ci fosse chi, soprattutto tra le donne ma, ahimè, anche tra gli uomini, coltivi dubbi sulla genuina forza della maschia paternità, anche e solo in termini di modifiche ormonali, dia una lettura a “Cervello di papà”, di Brian Mossop, in “Mente & Cervello”, Dicembre 2011; e coltivi dubbi  sui disastri che provoca questa società ginecocratica anche nel campo educativo, laddove sminuisce la figura paterna, ecco, si legga “Il padre. L’assente inaccettabile” di Claudio Risè.
2.       Una femminilità intrigante, così lontana dalla sbrigativa Elena, la donna che il protagonista tiene sì accanto a sé ma decisamente in secondo piano, a non turbare il rapporto privilegiato con la figlia. Come  a suggerire che sensualità e fascino femminile non si accordino con il ruolo materno ? Spero proprio di no. Spero proprio, pensando ciò, di aver proiettato sull’affasciante Valentina alcune ombre del mio vissuto poiché invece, e ne sono convinto, sensuale femminilità e ruolo materno sono perfettamente conciliabili.


venerdì 20 gennaio 2012

Lavorare rende liberi ?

Priva del punto interrogativo, questa frase campeggiava all’ingresso del campo di sterminio di Dachau.
Azzzzzzzzzzzzzzz……….

   Tutti noi abbiamo sotto gli occhi il crescente divario tra la ricchezza di una elitè privilegiata ed il progressivo impoverimento della maggioranza degli italiani.
Meno sotto gli occhi, ma basta poco per accorgersene, monta sempre più lo scontro “orizzontale”, quello tra ”poveri”: vecchie generazioni contro nuove generazioni, lavoratori dipendenti pubblici contro lavoratori dipendenti privati, lavoratori a contratto indeterminato contro lavoratori a contratto precario, lavoratori contro disoccupati, ecc. che ha sostituito quello “verticale”, indirizzato contro chi detiene il potere. (la vecchia lotta di classe, quella che, solo a nominarla, pare di essere veterocomunisti trinariciuti, vecchi residui di un tempo che fu; persone, insomma, un po’ nostalgiche ed un po’ fuori dal mondo. D’altronde, quando un componente del nostro attuale governo, 249.000 euro di reddito dichiarati, sostiene di non essere ricco…)
Divisioni laceranti, diseguaglianze vistose, incertezza quando non sconforto verso il futuro sono i sintomi di malattie in cui siamo calati, malattie che minano la convivenza civile e la stessa democrazia.
Se questo quadro mi pare ampiamente condivisibile … ecco, io ho qui intenzione di inserirvi alcuni schiaffi di pennellate, alcuni tratti di colore che mostrino nel quadro figure, ombre del tutto sommerse, fino, forse, a ripensare quel quadro in un modo del tutto diverso. Forse ad abbandonare quel quadro … ma, chi mi conosce lo sa, io sono un  un eretico e frequenti nostalgie marxiane mi prendono.
Allora, senza farla troppo lunga, ecco le prime audaci pennellate.

Tutta la nostra vita la organizziamo ed altri ce la organizzano in funzione della riuscita a vendere il nostro lavoro. Una scuola che si vuole sempre più prossima alle competenze richieste sul luogo di lavoro senza alcuna attenzione verso la crescita,  la formazione dello studente;  risultati elettorali che, nella promessa di posti di lavoro, premiano non il politico, che di mestiere fa quello, ma chi, sceso in politica e però di mestiere fa “il datore di lavoro”, ovvero ha sfondato nella vita (vita = mercato del lavoro) è ritenuto più affidabile nelle sue promesse di posti di lavoro; corsi di aggiornamento proposti dal gestore e valutati dal cliente non in base ai contenuti ma ai crediti formativi che essi danno: crediti che, simili ai bollini del supermercato, permetteranno di ottenere il regalo finale ( l’orziera o il posto di lavoro); un governo di emergenza i cui componenti non sono stati scelti in base alle loro capacità di offrire il bell’essere all’individuo (1) bensì al loro essersi imposti sul mercato del lavoro nelle sue diverse sfaccettature o di essere teorici affermati di questioni inerenti il mercato del lavoro.
Insomma, tutta la nostra vita ruota attorno al mercato del lavoro, ad essere merce appetibile, facilmente collocabile sul mercato del lavoro. Quel che mi colpisce, ogni volta che, per la mia professione, conduco colloqui di lavoro è che Tizio, disoccupato, prima ancora che giustamente in crisi per la mancanza di sostentamento economico, lo  è perché si sente inutile, non sa che fare, si considera un perdente, un emarginato ( potremmo dire un extra comunitaro (!?), ovvero uno fuori dalla comunità di chi lavora, che è l’unica comunità generalmente condivisa ) perché, da disoccupato, è fuori dal mercato del lavoro e perciò entra in depressione, entra in crisi di identità.
Del mercato del lavoro abbiamo fatto il nostro dio. E questo proprio in anni in cui esso viene a ridursi, in cui ce n’è sempre meno (2). Bella contraddizione, vero ? C’è sempre meno lavoro e noi siamo ben considerati, ben identificati, solo se siamo della collocabile merce lavoro.
 
Ecco che una delle principali condizioni per riconoscerci, per identificarci, diviene l’essere dentro o fuori il mercato del lavoro. L’essere buona o cattiva merce, l’essere capaci o meno di sconfiggere l’altro nella corsa a vendersi. Ecco una prima radice di conflitto, conflitto insanabile se accettiamo le premesse.
Scrive PG. Reggio nel suo “Il quarto sapere”: “Il ritorno a casa dell’esperienza è l’apprendimento, la comprensione”, ovvero apprendimenti da usarsi poi nel vivere d’ogni giorno, nelle relazioni quotidiane e nella propria quotidiana storia. Io che lavoro, che sono una buona merce lavoro, traggo esperienze da questo mio stato che riverso in modi di vivere quotidiani a cui tu, che non lavori, non hai accesso.
Quanto di conflitto insanabile, di steccato insormontabile, andiamo a costruire nel momento in cui accettiamo  l’identificazione attraverso l’essere una merce lavoro ? Io sono io perché lavoro, tu sei altro da me, diverso da me perché non lavori e, in situazioni di scarsità di lavoro, questa mia identificazione mi fa osteggiare che anche tu entri nel mercato del lavoro ( e se il tuo ingresso espellesse me ?), mi fa temere un’identificazione che comprenda anche te. (3)
Tutto questo mentre gli individui difficilmente riconducibili allo stato di merce, sono, per legge di mercato ! ( non, dunque per una “una lotta di classe” del tutto assente, per una presa di coscienza che tolga il mercato del lavoro dal piedistallo in cui è ora ), sempre di più: disoccupati stritolati in uno stato di disoccupazione che il pensiero dominante fatica sempre più a tacere essere strutturale; migranti impossibilitati ad essere convertiti in merce, tuttalpiù ridotti a sotto merce, scambiati di nascosto e sotto prezzo nel “mercato nero”.
Ecco, questo non opporsi al mercato del lavoro come regolatore delle nostre vite, questo accettare la scarsità come misura e criterio del possibile ci porta nella direzione ben descritta da Enzo Spaltro: “se ho fiducia di essere soddisfatto io ho desiderio, se non ho questa fiducia ho bisogno (…) Il rinvio dei desideri e la loro inevitabile trasformazione in bisogno rappresenta un elemento di partenza per il ciclo conflittuale” (”Il significato della rivoluzione”).
Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza”, scriveva Carlo Marx. Ma prendere per buona questa frase senza rompere il mefistofelico giocattolo del mercato del lavoro lo vedo impossibile. Allora, con intimo  terrore, guardo la foto di Dachau e quella scritta che lì campeggia “Arbeit macht frei”: Il lavoro rende liberi.

1.       La ricchezza poi non è solo materiale, va intesa sempre più come benessere – soggettivo e come miglioramento della qualità della vita” E. Spaltro “Psicologia e Lavoro” Aprile – Giugno 2004.
Se il benessere ce l’hanno in pochi mentre la stragrande maggioranza della popolazione permane in condizioni di malessere diffuso, lo sviluppo non avviene velocemente, anzi rallenta. Oggi è chiaro che finché alcune parti del pianeta soffrono la fame, le altre parti rallentano lo sviluppo. Se il benessere è diffuso ce n’è per tutti. Se è concentrato ce n’è per pochi” E. Spaltro “Psicologia e Lavoro” Luglio – Settembre 2005.
2.       Nel bel libro di Robert Cialdini “Le armi della persuasione”, viene bene spiegato questo meccanismo. C’entra solo in parte, ma qui mi piace ricordare l’inkazzatura che presi nel leggere il trucco adottato dalle case produttrici di giocattoli per incrementare le loro vendite. Prima di Natale, la casa XW pubblicizza il gioco Y. Mio figlio lo inserisce nell’elenco dei giocattoli che chiede a Babbo Natakle ed io, diligente, giro per negozi a comperarlo. Giro infruttuosamente perché il giocattolo Y è esaurito, mentre abbondano i giocattoli Q, Z, R … Compero uno di questi e, sorpresa, subito dopo Natale il giocattolo Y ricompare in massa nei negozi. Che faccio ? Non lo compero perché a mio figlio ho già comperato Z ? Certo che caccio altri soldi per il malefico  Y!!! Ai tempi, imprecavo contro la dabbenaggine di produttori e distributori. Poi, una dozzina di anni oro sono, lessi questo libro e capii. La casa XW pubblicizza ed ingolosisce con Y, diffondendone però pochi esemplari, mentre diffonde in massa i vari Q,Z.R, magari prodotti obsoleti, così il povero pirla (io) compera uno di questi, tanto poi, quando subito dopo Natale la casa XW inonderà i negozi del giocattolo Y, la casa produttrice  sa che io andrò comperarlo !!
3.         In contrasto con ‘comunità’, che generalmente indica una comunità di lavoro identitaria, chiusa (…) il termine comunanza (in mancanza d’altri) può essere impiegato per indicare una forma di socialità non basata sulla compra – vendita del lavoro, aperta all’alterità e libera dall’ossessione dell’identità.” A. Ponzoni, nell’intervento al Seminario: “Non di solo lavoro”.

lunedì 9 gennaio 2012

Pina

Il 2012 non inizia bene:

Tre giorni bloccato, tra letto e sedia, dalla totale e dolorosa contrattura dei dorsali (probabile esito nefasto di una formazione marziale che non ha lasciato il dovuto spazio alle pause, quanto severo ammonimento a “mollare” le mie tendenze protettive verso chi mi sta accanto), poi un violento raffreddore “tappa naso”, il tutto condito da serate di tensione nel reiterato tentativo di accompagnare Lupo lungo la strada dell’autonomia “notturna” ovvero addormentasi, previa breve compagnia, da solo nella sua cameretta e … restarci !!

Insomma, meglio pensare ad alcuni bei momenti nel tramontare del 2011.
Tra questi, la visione dello splendido film dedicato a Pina Bausch.

Single per alcuni giorni (Monica e Lupo sono in montagna) chiedo chi altri voglia accompagnarmi. Si fanno avanti Francesca, un passato da danzatrice classica che il film lo ha già visto ma lo rivede volentieri,  Giovanni, incuriosito dai commenti entusiastici di Francesca e, forse,  anche dalle mie frequenti dissertazioni, in pedana e fuori, sul rapporto fecondo  tra movimento, danza e Arti Marziali.
La pellicola, regia di Wim Wenders, è uno splendido omaggio alla figura di Pina Bausch, danzatrice e coreografa tedesca.
Di lei, riporto le motivazioni con le quali le fu dato, nel 2007, il Leone d'Oro alla Carriera: "Pina Bausch è un'artista che ha segnato una nuova via originale all'espressione scenica del corpo danzante e parlante, influenzando non soltanto la danza contemporanea, ma anche le arti ad essa contigue, mutandone gli orizzonti. La Bausch è una coreografa che ha innovato il teatro, rendendolo più che mai fisico e musicandone la drammaturgia: una regista che ha firmato montaggi sapienti di passi, suoni e testi per raccontare con la danza storie di persone, di individui, di vite, raggiungendo un pubblico tanto numeroso e vario, come la danza non aveva mai incontrato prima".
Vedere lei, vedere, seppur filtrati dal “grande schermo”, spezzoni dei suoi spettacoli mi ha fortemente emozionato.
Così scriveva Mc Neill Dixon: “La danza è una lingua nativa, un dialetto dell’anima”. Il film porta in primo piano i diversi stati d’animo del danzatore, le sue lacerazioni nelle relazioni e nel vivere quotidiano. E fa che , insieme, spettatore e danzatore, come per magia, si ri – conoscano nell’arte del vivere, tra gioie e sofferenze.
“E’ piacevole sognare il passato, ma essere all’altezza del presente lo è di più. La danza libera ha molto da imparare dal passato, ma non é disposta a perpetrarlo. Il suo vero compito è di interpretare il presente e presagire il futuro”. (E. Selden).
Questo film grazia alla mano leggera, sensibile e rispettosa del regista, mi ha permesso di incantarmi, emozionarmi e riflettere. Riflettere su io chi sono, io cosa faccio e come lo faccio, io come influisco sull’ambiente, io come vivo rifuggendo dal sonno degli ebeti e degli inetti.
Io, attraverso il praticare Arti Marziali; il percorso di autoconoscenza che mi offrono i conflitti fisico emotivi; la consapevolezza dei limiti, dei confini quanto la sfida per superarli; il relazionarmi conflittuale con l’altro che è specchio di me.

Esco dal cinema, emozionato e confuso. Non me la sento di proseguire la serata con Francesca e Giovanni: ho bisogno di stare solo, di ascoltarmi, di danzare nel cuore e nel ventre.
Piazza Duomo è semibuia, i capannelli di persone si sono fatti più radi. Sul ciglio del marciapiede, un sassofono mi accoglie lamentoso e caldo. Lascio pochi spiccioli nella custodia e mi infilo nella metropolitana.
A casa, mi commuovo ancora e ancora. Solo. Un cenno della mano a sfiorare “Lama Danzante”, il mio prezioso katana che troneggia in camera. Poi, a cuore aperto, mi inabisso nella mia Ombra e nei miei piccoli e grandi dolori.

Se esiste qualcosa che qualcuno  conosce, è impossibile dire che quella cosa non esiste: chi afferma questo lo fa solo perché è ignorante in materia”. (Takuan Soto)