venerdì 19 aprile 2013

Vola con me sulla luna


Vola con me sulla luna
Vola fino a farmi scoppiare il cuore
Fino a farmi sorridere gli occhi

Vola con me sulla luna
Vola fino a riempirmi la bocca di sale amaro
Fino a farmi masticare tutto l’amaro del vivere

Vola con me sulla luna
Vola fino a ricordarmi che io ti amo e tu ami me
Fino a segnare sul cielo di stelle i nostri nomi insieme

Vola con me sulla luna
Vola che presto tutto  finisce
Che tutto, troppo presto, non è più

Tiziano, ascoltando Eva Cassidy


Mercoledì 17 Aprile 2013.

lunedì 15 aprile 2013

Orrore profondo




È meglio essere violenti, se c'è la violenza nel nostro cuore, piuttosto che indossare la maschera della non violenza per coprire la propria impotenza. La violenza è sempre preferibile all'impotenza. Per un uomo violento c'è sempre la speranza che diventi non violento. Per l'impotente, questa speranza non c'è”
(Mahatma Gandhi)


Dritto e deciso. A penetrare, quando attacca. E attacca sempre, non appena intuisce l’intenzione offensiva dell’altro. Attacca ed oltrepassa, frantumandolo, l’ostacolo. Questi respira ? Odora ? ha vita negli occhi che ti guardano ? Non importa. “Questi” non esiste. E’ solo un’inezia prima di raggiungere l’obiettivo.
Certo, non è uno stupido, non va duro contro duro: aggredisce sì ma posizionandosi sull’angolo “morto”, a 45 gradi, dell’opponente e, da lì, lo oltrepassa. Come se non esistesse.
Sì, lo so, pare una cosa crudele, folle nel suo non considerare ciò che di vivo ti è di fronte. Ma questo è l’impeto letale del praticante Wing Chun Boxing. Sempre avanti. Sempre comunque.
Nel caso che sia sorpreso dall’attacco avversario allora si ripiega su di sé, si flette quel tanto che basta per smorzarne il pericolo, per deviarlo, laddove possibile, poi riprende il suo naturale flusso impetuoso ed inarrestabile. Fiume in piena che tutto travolge.
Aggressività letale senza scampo.
Combattente che osa sempre, potremmo chiamarlo.
A volte, aspetta che l’altro gli offra un arto, un appiglio qualsiasi, per incollarsi a lui e succhiarne l’essenza tra colpi e pressioni. Per andare, ovvio dai !, oltre. Sempre oltre.
Dicono che il killer psicopatico, per uccidere senza provare emozioni, non guardi mai negli occhi la vittima. Hai mai controllato se un praticante Wing Chun guarda negli occhi l’opponente ?

Diversamente opera il praticante Kenpo.
Questi avvolge, soffoca. Sempre in movimento, disegna cerchi come fa un rapace in cielo, come fa uno squalo in mare, prima di buttarsi avidamente sulla preda.
Quando attacca, attacca “a tutto tondo”, più giocatore di “go” che di scacchi (1). Più interessato a togliere spazio vitale che a “mattare” il re. Tanto, senza spazio, la preda finirà inerte tra le sue fauci.
Non disdegna che sia l’altro ad avanzare portando un colpo, allora ne attacca il colpo stesso, per poi continuare sul “regista”: distruzione rapida, consapevole, mentre gli gira attorno.
Combattente danzante, potremmo chiamarlo.
Lui sì ti guarda negli occhi, come a carpirne un senso, come a sfidarne l’istinto vitale. Si offre a te, perché tu possa coglierne la forza e … avere paura.
Lui non danza mai da solo, danza sempre con te. Se tu capisci chi sia, in quel frangente, il padrone del ritmo e dello spazio, chi guida il balletto, allora ti lascia vivere. Altrimenti…

Strategie, tattiche (2) diverse. Non solo. Modi di rappresentarsi e rappresentare gli altri, diverse tra loro.
Entrambe, sorta di “Martial Arts Therapy”, ti fanno scavare nel buio delle tue pulsioni, dei tuoi “non  detti”, “non ammessi”, nel tuo disagio frutto di vissuti interiori, soggettivi, a  contatto con un punto critico che possiamo chiamare limite.
Tu sprofondi, azioni ed emozioni, nel tuo orrore profondo.

Quando quel doloroso e difficile contatto è stabilito, allora il confliggere corpo a corpo in pedana diviene un percorso di individuazione, di scoperta di quel che sei e come sei, di adultità, non più solo anagrafica.
Questo perché “Reprimere la propria aggressività, in qualunque forma essa si presenti, significa incatenarsi all’idea del perdono e della colpa da espiare, nonché colludere nella maniera più distruttiva con l’odio che si soffoca in sé” (A. Carotenuto “La mia vita per l’inconscio”).
E si impara a relazionarsi, a saper stare nel confliggere quotidiano, perché, nessuno escluso, sin dalla nascita, siamo immersi in quella che chiamiamo realtà. Essa non è uno un palcoscenico su cui poter rappresentare una finzione. La realtà è fatta di ‘altri’, con cui entrare in rapporto, un rapporto sempre e variamente conflittuale: con il / la propria partner, con i figli, con il vicino di casa, con il professore a scuola, con il collega d’ufficio … con le mille parti che compongono noi stessi.
L’altro è la prova vivente della nostra esistenza.
Ciascuno sceglierà la sua Arte o, invece, si testerà su entrambe, per imparare, attraverso il combattimento, a relazionarsi sanamente ed equilibratamente con tutto ciò che, nel quotidiano, è “altro” da noi, riconoscendo la propria parte “ombra”, pulsioni e aggressività, fino a farne una risorsa e non più un mostro da negare, da soffocare, da temere nelle sue improvvise ed incontrollate esplosioni di collera e violenza.
Una risorsa, non un area di sfogo che, terminata, lasci l’individuo, ed i suoi problemi, lì irrisolti. Una risorsa, appunto, per conoscersi, mostrarsi e trasformarsi.
Per avere più  chances nella vita. Per più serenamente godere di questo breve tratto di esistenza che è vivere.

“Fintanto che creiamo delle ‘toppe’ per coprire ciò che consideriamo una situazione non sfruttabile – toppe metafisiche, filosofiche, religiose – la nostra azione non sarà il ruggito del leone. Sarà l’urlo del codardo – molto patetico”
(Chogyam Trungpa “Il mito della libertà e la via della meditazione” )


1.     Gli scacchi, sin dall’origine anche se poi si sono parzialmente evoluti, sono fortemente orientati a privilegiare operazioni concrete ( dunque, tattiche) per l’attacco al Re avversario. Negli scacchi, la vittoria può essere ottenuta in una mossa, nel caso più eclatante lo scacco matto o c’è o non c’è (logica bivalente) e, più in generale, la presenza di pezzi di diversa importanza ed esplicitamente schierati sin dall’inizio, indirizza in modo evidente lo scontro attraverso il dispiegamento di forze verso punti vitali e spesso attraverso una decimazione delle difese avversarie;  questo modo di procedere è in relazione alla Via “occidentale” di approcciare una lotta, un conflitto.
Il go ( o wei ch’i) è fondato sul concetto di controllo totale, il suo scopo è il controllo del territorio sul goban (la scacchiera),  “nel wei-ch’i il successo è una serie di gradi, in qualche modo più fuzzy  . L’obiettivo non è tanto quello di sconfiggere l’avversario, quanto di
massimizzare vantaggi e svantaggi. Più che un duello, è una competizione economica
per un bene scarso” (Quaderni di Ricerca in Didattica, n. 19, 2009. Dipartimento di Matematica, Università di Palermo).


2.     In genere, si intende per strategia l’approccio generale al combattimento, il piano d’azione, mentre per tattica le diverse soluzioni concrete, le “tecniche”, per capirci. Però anche … “La tattica è sapere cosa fare quando si ha qualcosa da fare; la strategia è sapere cosa fare quando non si ha niente da fare” (S.G. Tartakower)

Post illustrato con immagini di dipinti di F. Goya, uno che di problemi di personalità ... se ne intendeva.






giovedì 4 aprile 2013

Educazione siberiana


“ Un uomo è molto più raro di un uomo onesto”
(G. Simenon “il destino dei Malou “)

Da decenni sono refrattario ai romanzi, lettura che mi concedo solo nel canonico mese di “ferie estive”.
Ci furono, sì, gli anni in cui li “divoravo”. Nella mia adolescenza lessi di tutto, da Pasternak a Dos Passos, da Hemingway a Goethe. Poi, complice la “sbornia” politica, mi gettai sui saggi  e … non ho più smesso.
Eppure, stimolato da quanto ho letto attorno al film “Educazione siberiana” di Gabriele Salvatores ed in attesa di vederlo ( devo aspettare che Lupo sia via da Milano !), entro alla Feltrinelli così, per “kazzeggio”, e mi trovo a comperare il libro di Lilin (1) da cui è tratto il film.

Il mio "Lampo Nero", un UWK della Cold Steel
Lettura piena, coinvolgente.
La cui forza potente, a tratti prepotente,  dell’educazione maschile e al maschile, si mischia fino a confondersi, ad amalgamarsi, con la cultura e la pratica del delinquere.
Giovanissimi, bimbi, instradati sulla via della violenza e della delinquenza, in una cornice di valori, per me, totalmente condivisibili nell’essenza; in una trasmissione di saperi, dall’anziano al giovane, solida e maschia.
E’ questo che mi ha destabilizzato.

Ci può stare che oggi e nella società cosiddetta normale il passaggio di saperi, contrariamente a quanto avveniva una volta nella stessa o, come narrato nel romanzo, nella società criminale, sia ormai indebolito, quando non addirittura capovolto, a favore dei più giovani. L’evoluzione tecnologica pone inevitabilmente l’anziano in posizione down rispetto al giovane. Sono gli anni post 2.000 quelli in cui, per la prima volta, le parti si sono invertite: sono i giovani a saperne di più degli anziani, ad insegnare loro.
Ci può stare, certamente. Anche se il moloch tecnologico oscura, tra realtà virtuale, un vivere tutto “fast” ed una banalizzazione emotiva dilagante, proprio i valori, le radici, la Tradizione insomma.
Quel che più mi ha sconcertato è, tuttavia, il mio spontaneo riconoscermi in una sorta di educazione “alla siberiana” appunto, che, quando mi guardo attorno, trovo del tutto scomparsa nella società odierna.

Restiamo anche solo nell’alveo familiare.
E’ tramontata ( meglio così!) la figura del padre padrone, autoritario e completamente assente dal quotidiano educare, spettandogli solo il compito di punire il figlio.
Mi trovo personalmente distante da quello che il pedagogista Daniele Novara chiama il “padre pelouche”, tutto amico e complice del figlio. Con ciò incapace di mostrargli, a partire dall’esempio, obiettivi di vita e confini entro cui muoversi, di incoraggiarne coraggio ed audacia unitamente al senso di responsabilità e generosità.
Ecco, dove è, invece, il padre educatore, formatore ?
Il piccolo Lupo, in piena formazione marziale
Quello che sa spiegare e dare le regole invece di limitarsi agli ordini; capace di stare al fianco del figlio quanto di fargli da contenimento nei momenti estremi; capace di introdurre il figlio al senso della fatica e del dovere perché ogni ostacolo affrontato e superato è una prova di crescita e rafforzamento dell’autostima; una padre in costante tensione tra autonomia e rispetto.
Quanto sopra, senza spulciare  nella disastrata istituzione scolastica o nei grotteschi e cafoni messaggi televisivi. Ambedue complici nell’appiattimento culturale e valoriale, nel sostegno a questi eterni e nevrotici adolescenti, che restano tali anche a trenta o quarant’anni.

Libro intenso, appunto, letto in pochi giorni. Libro dai tratti, per me, inquietanti perché, fatte le debite proporzioni tra la Siberia e l’Italia, tra il mondo della delinquenza e quello della (apparente ?) normalità, prese le dovute precauzioni d’uso, mi ci ritrovo.
Perché non rinnego il mio profondo amore per i miei figli, il gusto di abbracciarli e baciarli, di non nascondere nulla dei miei sentimenti teneri nei loro confronti, come l’occuparmi quotidianamente di loro, sin dagli anni della nascita, col cambio del pannolino, il bagnetto, le visite dalla pediatra, il biberon notturno, poi la spesa al supermercato, la preparazione delle pappe e poi il colloquio con le maestre, ecc.
Il che, per altro, non mi impedisce di indicare loro una Via, di offrire loro prove di coraggio e maschia generosità, di contenerne gli esuberi disordinati mai sottraendomi al ruolo di padre.
Quanto c’è di “educazione siberiana” in tutto questo ?

“Un padre che, proprio perché ama i figli, ed è profondamente affettivo, non si sottrae alla sua funzione di fornire loro indicazioni, norme, visioni del mondo. Un materiale di conoscenze e valori che spesso i figli rifiuteranno, o accantoneranno per lungo tempo nella loro vita. Un dono paterno di cui hanno tuttavia assoluto bisogno, per costruire, nel confronto con esso, la propria sicurezza e la propria libertà”
(C. Risè “Il mestiere di padre”)

(1)   Lascio volentieri ad intellettuali nevrotici ed invidiosi ( toh, quante donne in questa fila di ipercritici e nei commenti acidi !!) la messa in discussione del libro  a partire dalla veridicità o meno di quanto narrato
Sarà perché non sono così ignorante da non conoscere Bettelheim, Propp, Demetrio e tutto il pensiero che sa attribuire senso psicologico o allegorico alle narrazioni. O semplicemente sarà perché sono padre. Così, il libro di Lilin mi permetto di consigliarlo non solo a tutti i padri, ma anche ai maschi adulti che padri non hanno voluto essere mancando una tappa fondamentale dell’adultità,  e pure a quelli che, nonostante l’età anagrafica, adulti, in personalità e registro emotivo, ancora non lo sono. Magari, magari, questi ultimi qualcosa imparano.