lunedì 26 settembre 2016

Festa dello sport


Domenica 25 Settembre
L.go Marinai d’Italia

 

Sole a splendere su un verde di alberi e cespugli che pare aver ingannato il lento incedere dell’autunno.
Tutt’intorno, bambini ed adulti a sorridere, correre, giocare, passeggiare: è l’annuale “Festa dello Sport”, organizzata da US ACLI con il patrocinio del Municipio zona 4.
Nessuno che vada di fretta, ovunque è luce in un via vai di gente che si aspetta, si incontra, si sfiora,
Il nostro gazebo spicca nell’equilibrio incerto di ombra e sole, una calma profonda, che sa di ospitalità ed accoglienza.

Ospitalità ed accoglienza”, in tutti i sensi, in tutte le sfumature, in tutti modi di praticarle, questo è il cuore, uno dei tratti distintivi della nostra Scuola.

Dei tanti, tantissimi, che hanno attraversato la porta del Dojo, molti ne hanno colto l’aspetto, hanno goduto di questa enorme differenza tra palestra, erogazione di un servizio, e Dojo, luogo di accoglienza e formazione.
Gli allievi hanno le chiavi dei locali: chi vi è stato a riposare, chi a studiare, chi ad intrattenersi con la compagna, chi a dormire la notte, chi a praticare nei giorni e nelle ore che più gli aggradavano. Chi ha trovato spesso, se non sempre, in me o negli allievi più “anziani”, una parola di conforto, un ascolto dentro e fuori dal Dojo, per i suoi problemi familiari con il padre o con la donna o l’uomo che aveva accanto, per le sue incertezze sugli studi e sul lavoro, sulla … vita. Chi ha trovato in me la pazienza nell’aspettare la quota dovuta per i corsi frequentati, anche quando lo stesso non faticava però a trovare i soldi per un acquisto goloso o per una vacanza golosa. E chissà, per chi ora frequenta una palestra di fitness o un corso di nuoto o di altra Arte / sport marziale, o vi ha iscritto il figlio, se è una sorpresa vedersi chiusa la porta in faccia se non paga regolarmente e regolarmente porta il certificato medico.

Di questi molti, alcuni hanno sia capito i valori proposti sia saputo contraccambiare quanto ricevuto.
Questi “alcuni” hanno capito che esserci nelle occasioni di vita collettiva della Scuola era non solo formativo per loro, per imparare a stare in un gruppo, a fare quello che ora pomposamente si chiama “team building”, ma anche un modo per aiutare la Scuola, dunque loro stessi, a stare in piedi, a stare aperta, proponendosi a nuovi possibili praticanti.
Poi, questi “alcuni”, donando un po’ del loro tempo, della loro energia, quando la Scuola ne aveva bisogno, hanno mostrato l’umile e forte virtù della riconoscenza.
Nella vita ordinaria noi raramente ci rendiamo conto che riceviamo molto di più di ciò che diamo, e che è solo con la gratitudine che la vita si arricchisce.” scriveva Dietrich Bonhoeffer, luterano e protagonista della resistenza al Nazismo. Tenendosi così lontani, questi “alcuni”, da quella che la psicologia definisce la sindrome rancorosa del beneficiato: quel malefico rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente) che prende chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione la sente come stato “down” nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli non riesce a riconoscere spontaneamente, ad accettare di aver ricevuto, al punto di arrivare a dimenticarlo o negarlo o sminuirlo o, addirittura, a mutarlo in un fardello dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da cui allontanarsi, se non addirittura da denigrare e calunniare.

Dunque, in questo pomeriggio di sole e festa e pratica marziale, di stare gioiosamente insieme, un mio enorme grazie di cuore a questi “alcuni”.
Alla giovanissima Sara, occhi dolci e presenza importante in una pedana che, a un certo punto, ha visto oltre venti ragazzini e ragazzine ammucchiarsi uno sopra l‘altro, uno contro l’altro.

All’Insegnante Celso, che ha brillantemente condotto una lezione di … sole due ore e mezza, che ragazzini e ragazzine non ne volevano affatto sapere di smettere ed andare via.

A Roberto, presenza forte nel mostrare la qualità del nostro minuscolo cerchio di adepti.

Al Maestro Giuseppe e a Donatella, presenti sin dalla tarda mattinata, già all’opera con i primi ragazzini quando ancora la “campanella” d’inizio non era ancora suonata e poi sul tatami fino alla fine e fino alla fine a raccogliere volantini, smontare tavoli e gazebo. Un vero piacere per me, poi, vedere una coppia così unita, così affiatata, a condividere identica passione.

A Giovanni, senza il quale questo non sarebbe stato possibile, perché lui ha caricato tutto l’occorrente in auto, lui era sul luogo già dalla mattina, lui, con il prezioso aiuto di uno degli organizzatori, ha montato gazebo e tavoli perché tutto fosse pronto. E sempre Giovanni ha sia praticato negli appuntamenti Tai Chi Chuan e Kenpo Taiki Ken, sia arricchito l’offerta della Scuola con delle sedute di riflessologia plantare.

Ecco, tutto quello che abbiamo imparato nel praticare le nostre Arti Marziali e nel farlo a modo nostro che solo nostro è, lo portiamo dentro, scritto sotto la pelle, nel cuore e nel ventre.
Poi, comunque vada per ognuno di noi nel vivere la nostra vita a venire, che la strada sei tu e tu solo e lo scorre degli istanti non si ferma mai, questo tempo passato insieme, in Dojo o in un giardino, con i piedi affondati nella neve fresca a o ingozzarsi di cibo e a tracannare vino attorno ad un tavolo, a tirar di spada o a dormire uno accanto all’altro sotto un cielo di stelle, non lo dimenticheremo mai.

“Il coraggio è di due specie: quello fisico davanti al pericolo personale, e quello che occorre avere di fronte alle responsabilità, sia verso il potere superiore di una qualsiasi forza esterna, sia verso la propria coscienza. Riuniti, essi costituiscono il coraggio perfetto”
(Karl von Clausewitz)

 

Un grazie a Barbara per le belle foto

 









lunedì 19 settembre 2016

Ragazzi ed adulti, Kyu e Dan


Martedì 13 Settembre. In Dojo

Il tempo cambia sempre, che sia semplicemente quello atmosferico o invece quello che segna il passare delle cose e delle stagioni, e, poco o tanto, cambia chi in questo tempo c’è dentro.
Consapevoli o meno che ne siamo, ognuno di noi parte e si ferma e poi riparte, magari senza posti dove andare, solo così, prendendo la prima opportunità che si presenta.

Guardo questi ragazzi ammucchiarsi attorno al tavolo imbandito, qualche adulto e l’Insegnante Celso con loro. Anche loro sono in cammino, quello dell’età che va avanti, della scuola che cambia e si fa più impegnativa, quella … sì, anche quella, ovvero “questa”, del praticare Arti Marziali qui allo Z.N.K.R.
Ai loro fianchi, una cintura più scura.

Ognuno di loro, così giovane, ha un pezzo di mondo sulle spalle e ci sta con tutto con il suo carico di passioni, sogni, delusioni, incazzature, vittorie e sconfitte; con tutto ciò che vola, se ne va lontano e con ciò che ti arriva addosso e nemmeno te ne accorgi.
Li guardo, li ascolto chiacchierare e ridere e scherzare. Penso, vedo, mille destini costruiti mano a mano, poi smontati da un nemico troppo grande per essere sconfitto, poi smarriti e persi dentro un canto di vita stanca e, nuovamente, costruiti giorno dopo giorno. Fatica e sorriso ed impegno e passione.

Ecco, è proprio qui la festa, è proprio questa la festa ed il suo senso magico e potente, in cui la voce si confonde con quella dei ragazzi e degli adulti che hanno voluto esserci, hanno voluto partecipare.
Insieme, scivoliamo lungo il tempo, questo tempo in Dojo che, nel suo fare, incontrarsi e scontrarsi, è metafora e metonimia di un tempo più grande, il tempo del vivere, è formazione a questo tempo del vivere.

Complimenti a questi quattro ragazzi, ai due Jacopo, a Giulio e a Sara.
Ora che si facciano avanti gli altri “graduati”, che imbandiscano la tavola ed aprano la festa, la loro festa, che, anche qui, è festa del vivere.

 

 
 
 
Sabato 17 Settembre. Cascina “La Crivella”
 
Abbiategrasso (Mi)

Tocca agli adulti, Valerio per il suo quinto dan Kenpo, Giovanni per il suo primo dan Kenpo.

Più di venti attorno al tavolo che, come da Tradizione, ad ogni passaggio Dan, il “promosso” offre un pranzo o una cena a tutti i suoi compagni di pratica, ovvero a coloro che, sudando e picchiandosi con lui, gli hanno mostrato il cammino, gli hanno permesso di conoscersi e crescere e trasformarsi, ognuno sorta di psicopompo verso la morte per poi rinascere: il nero della cintura ed i dan successivi.

Cosa ci faccio io in mezzo a loro? Dove alcuni mi hanno cercato, altri mi hanno trovato, altri ancora mi hanno dimenticato nel mentre che mi chiamano.
Perdinci, sono il Sensei !!
La guida lungo il cammino, un po’ sciamano, quello anzianotto e stropicciato che certo non è uno stinco di santo, tutt’altro, ma sotto la tempesta ci è stato più e più volte e mai è scappato, o forse qualche volta sì, ma anche questo fa esperienza, quell’esperienza, sotto lo scrosciare dell’acqua ed il cadere vicino, così vicino, dei fulmini, che ti è servita a capire il senso della tempesta ed il tuo starci dentro, a viso aperto; un po’ sciocco taoista, a tirare innanzi tra i piaceri e la sensualità del vivere, col sorriso sulle labbra, anche quando qualche dubbio si fa avanti, che tu guardi e gli senti addosso un sommesso odore di vitalità impetuosa orlata di dubbiosa melanconia; un po’ guerriero audace, ma anche tenebroso, con quel ghigno sul volto che sembra urlare, con le parole di Malcom X:  Sii pacifico, sii cortese, obbedisci alla legge, rispetta tutti; ma se qualcuno ti mette le mani addosso, mandalo al cimitero.”

E tu, tu Valerio e tu Giovanni, questo lo sapete: mi conoscete, come un allievo conosce la guida a cui si affianca, come ci si conosce tra amici, amici veri.

E la tavolata, questa tavolata, brulica di amici. Di compagni d’avventura passata o presente.
Ognuno ha sudato, si è spaventato, si è fatto spavaldo, ha messo le mani in faccia ed anche dentro il cuore, l’uno dell’altro. Ognuno ha cacciato il mostro che ha nel ventre e nel respiro. Qualcuno, poi, si è arreso, qualcun altro ne è stato pasto abbondante ancorché riluttante, qualcuno ha fatto finta di non sentirne l’olezzo malsano, qualcuno si è buttato sui mostri degli altri per dimenticare il proprio, qualcuno ancora ne segue tracce, gli tende tranelli, non ha smesso la caccia.

Sarà il peso del mondo, che mai è solo amore.  Sarà anche il carico di solitudine e scontento che torna a rimbalzi nel cuore e ad occupare la mente. Sarà, ma noi questo peso lo portiamo serenamente, trovando conforto proprio tra le braccia del vivere, attenti sì ad ogni inciampo, ma mai domi di combattere e sognare perché il sogno si realizzi.
Allora, in queste ore ambigue sul confine della notte, sotto un cielo che sa di impossibile, noi brindiamo di vino alzando i bicchieri, cozzandoli l’un contro l’altro, amici e guerrieri.

 

“Perché l'educazione sentimentale passa dal sangue, dal cuore e dai suoi battiti. Ti insegna ad ascoltarli”
(C. Risé)

 














martedì 13 settembre 2016

Il tempo del guerriero

Mani a cascata

Primo giorno della nuova stagione di Kenpo. L’allievo sorride e mi dice “Manco da due mesi e, ora che sono di nuovo qui dentro, capisco alcune cose di me che non sapevo”. “Magia di questo posto”, gli rispondo.
Il suono è di sole parole e parole, ma dentro c’è un fiume che scorre da solo, che sembra impossibile immergercisi dentro, che ti rende impossibile far finta di niente e guardare altrove.
Il cuore di ognuno di noi è come una pietra preziosa, solo nascosta dal muschio, il corpo vibra come potente colonna di fuoco e dentro, dentro ogni cosa, l’acqua si fa generatrice di gesti e movenze suadenti.
Le braccia sembrano scorrere su nuvole pingui, vulnerabili arti che celano malefiche proposte di dolore ed annientamento.

E’ solo Kenpo Taiki Ken o è altro?

Niente è come sembra, niente è come appare.
Uso del bastone medio (jo)

D’altronde, questa nostra pratica guerriera è forma elevata di magia immaginativa, le cui armoniose figure, tessendo rapporti sottili che collegano il macrocosmo al microcosmo, sono, nella loro realizzazione, vere e proprie porte che si aprono su stati espansi della coscienza.
Il pensiero immaginativo, la “reverie”, di cui scrivevano Gaston Bachelard, francese, filosofo della scienza ed epistemologo, come il Maestro cinese Wang  Xiang Zhai, fondatore dello Yi Quan, che nei fanciulli è pura magia inconsapevole, per un adulto guerriero è pensiero e prassi vivente, attuale, capace cioè di creare ed evocare idee e pratiche. Sorta di “Scienza dei Magi”, se vogliamo stare nella nostra cultura alchemica antica.
Uso del bastone medio (jo)
Una pratica che ci porta lontano, tanto lontano da arrivare dentro noi stessi, guardando Ombre gigantesche e sottili piaceri indistinti, vertigini su burroni profondi e sottili disagi dentro certezze inconsulte.

Scorrono i gesti in pedana, giacche blu a incontrarsi e scontrarsi, nessun luogo comune per un percorso di lotta e sudore e sorrisi.
E andiamo lontano, tanto lontano, fino a dentro noi stessi.
Soluzioni rapide a problemi scottanti, pericolosi. Bastonate e pugni e calci e leve articolari e proiezioni al suolo.
Volteggi sinuosi e fluttuare di onde e spirali.

E’ ripresa la stagione qui, allo Z.N.K.R.
Ed ognuno, se lo vorrà, sorprenderà se stesso in stravolti momenti di coraggio e paura, di avvicinarsi, poi perdersi e poi, chissà, forse, ritrovarsi o … scappare, che l’immagine allo specchio fa troppa paura.
Ma c’è chi rimane, chi abbraccia l’immagine e non fugge né rompe lo specchio.
Sì, davvero, questo posto è magico, ma siamo noi a farlo tale.

Poi, un allievo si sorprende “Ma questo lavoro è profondo, è tanto profondo. Nemmeno con … facevamo tanto” “Lo so – mi vien da pensare – è che noi sia sempre avanti. Sempre

 
“Ognuno ha la libertà che gli spetta, misurata dalla statura della dignità della sua persona”
(J. Evola)

 

Accogliere, evadere e colpire




Mani a cascata

giovedì 8 settembre 2016

Il clan, la casa, noi.


Anni '80 gli albori all'Umanitaria
Una delle nostre forze, come Scuola, è la capacità di essere e fare gruppo, quanto quella di saper accogliere chi da fuori viene a sperimentare le nostre pratiche marziali, la nostra cultura di gruppo.

In questa sana prassi consolidata da decenni, di cui tutti coloro che sono passati nella Scuola danno viva e sincera testimonianza, mi piace, però, mai smettere di “aggiustare il tiro” sul come essere e fare gruppo.
E’ subito evidente che noi non siamo un gruppo chiuso, altero nel suo sapere, che includa ogni nuovo venuto in una forma culturale e relazionale rigidamente definita, che tenda a conservare i modi esistenti a cui il nuovo venuto dovrà adattarsi.
Perché, se così fosse, al di là di sorrisi formali e formali accoglienze, questo non sarebbe un gruppo aperto al confronto, al nuovo che ci porta chi varchi per la prima volta la soglia del Dojo. Sarebbe invece un gruppo, un clan, portato a conformare le istanze estranee, a ridurle a voci omofone ai “suoni” della Scuola.

Non facile, essere un gruppo, un clan, realmente aperto, per due diversi motivi.

Seconda metà anni '80: La Comm. Tecnica
Il primo è l’estrema profondità e sensibilità del nostro praticare Arti del combattere. Proprio questa nostra caratteristica, così rara (unica?) nel panorama marziale italiano, potrebbe rivelarsi un’arma ”a doppio taglio”.
La possibilità che noi diamo a chi pratichi allo Z.N.K.R., come scritto più e più volte, non è quella di “farsi il fisico”, di imparare delle tecniche, uno stile, di menare le mani, di illudersi possessori di chissà quale sapere e saggezza misticheggiante.
Da noi, invece, l’adepto, misurandosi con le proprie forze interiori quanto con l’orrore della sua personale Ombra, costruirà un equilibrato sé fisicoemotivo, scoprirà delle risorse atte a un cambiamento sostenibile ed autonomo verso un’identità adulta.
Un processo lungo, travagliato, in cui il ferro interiore dovrà essere trovato, poi forgiato e temprato con la passione del Fuoco e attraverso le pratiche di lotta e scontro per poi raffreddarsi, salire di qualità con l’adattabilità e la “forma che non è forma” dell’Acqua. Divenendo acciaio. Quell’acciaio forte e flessibile insieme che, per noi, è dolcezza letale, vulnerabilità che si fa forza irresistibile.
Insomma, dai pugni e dai calci, dalle coltellate e dalle bastonate, dallo scontro immediatamente visibile, per alcuni “volgare”, al confliggere quotidiano, quello di tutti giorni contro le traversie dell’esistenza. Esistenza in cui essere adulti, sempre in contatto con se stessi e autocentrati, di contro al “bambino” (anche quando anagraficamente adulto) che è sempre eterocentrato e incapace di gestire l’ambiente; il che, di questi miseri e infimi tempi, non è realizzazione da poco !!
Questo elevato portato, questa cultura marziale che sa di magicità su se stessi e sul mondo, questo percorso di individuazione in cui smarrire ogni volta l’equilibrio per ogni volta riprendere a camminare, porta con sé sia il rischio narcisistico di ritenersi “al di sopra”, sia il timore di essere contaminati, indeboliti, distratti lungo il percorso da chi arrivi da fuori, dall’esterno.

Stage Estivo 2010
Il secondo motivo è, per l’inverso, la libertà che al nostro interno vi è di mantenere una propria individualità, anche quando estranea al corpo culturale della Scuola. Chi voglia venire, e restare, per “muoversi un po’”, per imparare “a difendersi”, può farlo: a nessuno è imposto di praticare per il “Conosci te stesso”. Questa bellissima libertà individuale che ognuno può vivere nel gruppo, rischia di autorizzare il gruppo stesso a non mostrare la Via, il percorso di individuazione, lasciando il neo allievo disarmato, disorientato dentro ad un habitat così potente e perturbante.

Allora, occorre che il gruppo, il clan, per essere davvero accogliente, operi per l’integrazione delle diversità, conscio innanzitutto della opportunità di riorganizzare la propria cultura interna sia perché il neo arrivato possa realmente esporsi e dare il suo personale e sincero apporto alla casa comune, quanto perché questo nuovo apporto testi la tenuta della cultura del gruppo e la sua intelligente permeabilità ad ogni nuova energia che lo possa migliorare.
Residenziale Kenshindo 2013

Un clan solido è quello in grado di stare nel conflitto e nelle incertezze, nelle relazioni sincere fino anche alla brutalità.  Una fabbrica di diversità in relazione, antagonista o meno, tra di loro. Un clan in cui ognuno viva la sua avventura, il suo percorso individuale sì ma in seno al clan stesso. 

Se volessimo, come nostra prassi, estendere quanto sopra, quanto avviene in Dojo, nel clan, nella nostra casa, al mondo esterno, potremmo dire, per esempio, che nella coppia non è importante quanto teneramente ed assiduamente ti guardi negli occhi, ma quanto guardi nella stessa direzione, sapendo aspettare i tempi, le pause, le digressioni dal percorso dell’altro fino, magari, a condividerne le nuove piste che questi scopre.
Il mio compleanno Novembre 2015
Nella società significa sia rifuggire dal “Qui nessuno è straniero”, sorta di introiezione collettiva, di suicidio di una identità e cultura collettiva, sia dall’erigere muri e steccati, materiali e culturali, come a difendere chissà quale “sancta sanctorum”, mostrando in realtà, ambedue, un’ottusa incapacità di filtrare, ovvero masticare, digerire e, laddove servisse, certo, anche evacuare, nutrendosi però, per continuare in questa metafora dal sapore gestaltico, del buono che arriva.

Questa è la sfida alta, eccellente, che ingaggiamo, ogni volta che qualcuno varchi la soglia del nostro Dojo, che si ponga al nostro fianco per condividere un tratto di cammino.

 

“Tu comprendi la verità quando impari a riconoscere in ogni cosa il suo contrario”
(in: Il Cervo Bianco)

 







lunedì 5 settembre 2016

Cultura di combattimento


Noi pratichiamo in un Dojo: “Luogo dove si insegna la Via”.

Purtroppo, Dojo è parola, per ovvie ragioni, sconosciuta ai più. Allora, nel parlare quotidiano, uso “palestra”, che, però, è “locale chiuso e coperto, fornito di attrezzi ginnici” (Dizionario Sabatini Coletti). Lo stesso significato etimologico si legge come “Luogo in cui gli antichi si esercitavano alla lotta”.

Non mi piace palestra, riferito a ciò che facciamo noi.
Perché Dojo, e per estensione ovunque noi pratichiamo le nostre Arti di combattimento, è ambiente di apprendimento e formazione.
Ovvero, spazio di incontro di corpi; contatto fisicoemotivo; relazioni emotive; emos – azioni in dialogo costante con l’istinto di morte, l’istinto di sopravvivenza; danza mortale di braccia e gambe; materia dolce e letale che si manifesta attraverso il movimento; cultura comunicativa antagonista non verbale.

E’ in un Dojo che la formazione, il percorso attraverso i misteri di ognuno, si realizza tra corpi e attraverso i corpi intesi come sé fisicoemotivo.
Saperi corporei fisicoemotivi, relazionali, a contatto con sé e con gli altri. Paura e coraggio, brividi sulla pelle, pupille a dilatarsi, stomaco che si serra. Amaro naufragare dentro la propria Ombra, mentre la saliva sale nella bocca. Passaggio incerto dentro un mondo fragile che, poi, si scopre forte. Sorrisi aperti di maschi e femmine alla scoperta di sé, dell’essere vulnerabile come potente forma di coraggio ed audacia. Stupore ed incanto, sulle mani e nel cuore. Vitalità gioiosa e selvaggia.

Il Dojo, “Luogo dove si insegna la Via”, arena di un rito antico, letto con le immagini del terzo millennio, in cui ognuno ridefinisca la sua identità, penetri da protagonista nel ritmo della vita.
Il nostro Dojo, il nostro praticare le Arti del combattimento.

 

“I nemici più grandi, e che dobbiamo principalmente combattere, sono dentro noi stessi”
(M. de Cervantes)

 
Post illustrato con foto scattate gli ultimi giorni di vacanza settembrina, in quel di Bassano del Grappa.