mercoledì 13 novembre 2013

Solo se questo avesse un cuore …

“Il Maestro è quella persona che rende l'Allievo ancora più libero”
(A. Pittman)

Novembre 2014: Una decina di figure che smanacciano e si muovono in pedana, allo Z.N.K.R. In mezzo, l’imponente figura di Aleks a guidarci nel “combattimento istintivo”.
Il gruppo milanese del "combattimento istintivo" con il  M° Aleks Trickovic
Febbraio 1976: con l’amico Paolo Manera ( scomparso prematuramente ) entro in una fabbrica occupata. Niente luce elettrica, niente riscaldamento, niente spogliatoi o docce o servizi igienici. A orinare si andava in cortile, a praticare in  una nuda una sala con del materiale grezzo appoggiato per terra: Questi i miei inizi nel Karate Shotokan col M° Sergio Roedner, che teneva i corsi proprio in quegli spogli e freddi locali.
Erano tempi ben diversi da quelli attuali. La scelta, obbligata, era tra Judo o Karate (stile Shotokan): a Milano non c’era null’altro !. Vietato allenarsi con altri che non fosse il proprio Maestro, salvo occasioni ufficiali promosse dalla Federazione di appartenenza a cui, per altro, ti portava il tuo Maestro. Impensabile praticare altro, anche nei primi anni ’80, in cui iniziavano a circolare alcuni stili di Kung Fu cinese o vietnamita e le versioni “a contatto” del Karate. Farlo, significava essere “kazziato” oralmente, “menato” fisicamente e, magari, pure espulso dalla organizzazione di appartenenza.
Ma io, forte di una personalità eretica ed un po’… temeraria, agevolato dal lavoro che allora facevo (dirigente di uno dei più importanti enti sportivi italiani), riuscii ad ampliare le mie esperienze, sempre alla ricerca di un’Arte che fosse più completa, più efficace, infilandomi in corsi o stage diversi o, a volte, organizzandoli  io direttamente insieme a Giacomo Spartaco Bertoletti, direttore della rivista Samurai, che, come tale, poteva coraggiosamente permettersi di proporre l’improponibile.
Anni '70/80: il M° Roedner con il M° Shirai
Mi formai nel Karate Shotokan passando dalla Scuola by M° Shirai a quella by Maestro Miura; mi avventurai in stili diversi, a volte poco conosciuti di Karate (Shito ryu, Goju ryu, Shingakukai, Wado ryu, ecc.);  testai, guantoni in mano, il contatto del “Karate Contact” / Kick Boxing con ambedue le Scuole, non proprio “amiche”, che lo gestivano  in Italia: quella facente capo al M° Falsoni e quella del M° Bellettini, sia con i medesimi che con i loro più titolati allievi. Poi, in successione ma anche sovrapponendosi, vennero l’eclettico Yoseikan Budo, il percorso con il M° Tokitsu e le sue diverse esperienze a cui dava sempre nomi diversi, il Ju Jitsu e poi l’avventura bellissima col Kenpo del M° Yamakazi, Wing Tsun / Wing Chun, Tai Chi Chuan e Kali e Koryu di spada e Judo e Aikido / Aikijutsu e altro ancora.
M° Erle Montaigue
Mi ci vollero  diversi anni per capire che non esisteva l’Arte completa. Che il lavoro da fare era sull’artista, sul praticante.  Per rifiutare l’imitazione di tecniche, di gesti; la didattica fatta di memorizzazioni ossessive come lo sguaiato scazzottarsi; lo sforzo di imparare uno stile, un modello.
E’ il praticante il fulcro, l’attore principale. E’ il modo di viversi essere fisico emotivo che fa la differenza. E ognuno di noi impara davvero solo attraverso metodi che nulla hanno a che vedere con l’impostazione dirigista, copiata “paro paro” dalla scuola pubblica, che vige tutt’ora nelle Arti Marziali come nella loro riduzione sportiva.
Come non scoprire, nella vita di tutti i giorni, che l'ordine del nostro mondo, in apparenza così prevedibile, può venire sgretolato ad ogni occasione ? E perché questa “scoperta”, allora, è tenuta lontana dalle usuali pratiche marziali  e dal loro modo di essere insegnate ?
Praticare Arti Marziali, per me, è atto che destruttura lo stato delle cose date per ovvie, per scontate.
E’ una gestualità con un dirompente impatto emotivo, che guida il praticante a comprendere e percepire se stesso ed il suo stare al mondo e nelle relazioni in un modo diverso, sovente del tutto inaspettato. E’, con una pratica artistica, di trasformazione, occasione concreta per mettere mani nei propri disagi, nei malesseri e nel personale vissuto, per arrivare a una nuova percezione di sé e di cosa vogliamo fare del nostro vivere.
M° Tokitsu
Proprio l’aridità e la stupidità delle Arti Marziali come proposte ovunque, mi spinsero a ridurne la pratica per volgermi ad altro.
Quell’altro che, invece, conservava, di più, sviluppava l’intelligenza corporea, l’esplorazione delle emos – azioni, quel fare formativo e trasformativo che, invece, è l’unico a dare un reale senso all’esistenza ed alla pratica di un’Arte Marziale, del combattimento, nel terzo millennio.
Vennero gli anni del metodo Feldenkrais (che, a dire il vero, già praticavo da tempo), delle esperienze di Danza Sensibile, Expression Primitive, metodo Trager, Danza Psichica ed altro ancora.
Anni in cui io, con mani e spirito a volte di alchimista a volte, ahimè, di “apprendista stregone”, manipolai, trasformai quanto andavo imparando per travasarlo nella pratica marziale, per irrorare di vitalità ed intelligenza motoria un corpus marziale che ne chiedeva sempre di più.
Poche e super - selezionate esperienze marziali e tanta espressione corporea.
Fino all’incontro con Aleks Trickovic.
M° Mochizuki
Uomo un po’ guascone, un bel po’ irriverente, forse anche lui, come me, con un “passeggero oscuro” dentro, ma soprattutto uomo sincero ed entusiasta nel proporre quel che sa.
Così, grazie a lui ed al suo insegnamento, sono tornato a praticare Arti Marziali con continuità e costanza perché, quel che fa e come lo divulga,
da un lato sviluppa, trasforma ed approfondisce quel che è il mio bagaglio di sapere marziale vissuto ed accumulato in oltre un trentennio, aprendo scenari di ulteriore miglioramento;
 dall’altro lo propone in totale libertà di comprensione, di avvicinamento al gusto che ognuno di noi ha.
Grazie ad Aleks, dunque. Sperando, come già gli dissi, che non si guasti, che l’odore del business o la facilità dell’ovvio, dello scontato, non lo corrodano dentro come è già successo ad altri Maestri, docenti e ricercatori che ho incontrato nel mio percorso.
Se così accadrà, le nostre strade si separeranno, come è sempre stato in coerenze con il mio spirito. Ma, per ora … vai così Aleks !!
M° Sun Li

“La gente desidera smettere di soffrire, ma non è disposta a pagarne il prezzo, a cambiare, a cessare di definirsi in funzione delle sua adorate sofferenze. La terapia panica vuole essere un modo, dirompente, per azzerare l'abitudine e aprire nuove porte verso una comprensione diversa dell'esistere. Perché essa funzioni, occorre crederci, e questo dogma è vero per ogni tipo di azione nel mondo”.

(A. Jodorowsky)







mercoledì 6 novembre 2013

Tai Chi Chuan: tra “bullshit” e il bambino di “I vestiti nuovi dell’imperatore”

Le attività fisiche sono utili, i corsi di ginnastica, lo sport, almeno ci aiutano a muoverci (…) ma non ci connettono con noi stessi, perché anch’esse hanno una motivazione esterna all’esperienza di noi stessi ”.
(M. Whitehouse)

Un cerchio, un cerchio che vieppiù si allarga perche altre persone arrivano.
by Sentrythe2310
Un cerchio di uomini e donne, nell’Auditorium della biblioteca di Vimercate, nella verde Brianza.
Un disguido tra gli operatore dell’Ente preposto ha impedito che l’iniziativa avesse la giusta pubblicità tra le manifestazioni patrocinate dall’Ente stesso. Un disguido che non ha impedito ad un cerchio di uomini e donne di esserci, Lunedì 4 Novembre, per la mia conferenza.
Contatto. Tai Chi Chuan, non solo chiacchiere, non solo sberle”.
Un percorso di riflessioni e domande, contraddittori e immagini. Un percorso che, alla luce della mia esperienza:
-       Da un lato mostrava la pochezza e l’inettitudine, il rachitismo e la superficialità del solito Tai Chi Chuan praticato e mostrato ovunque. Tra cineserie di mercato, movenze meccaniche e “ginniche”, pretese di autenticità a suon di diplomi e genealogie. Una pratica anaffettiva e frigida, priva di immagini e corposi silenzi, del tutto estranea ed ignorante di emozioni e pulsioni. L’assurda ed impossibile riproposizione di un modello agito secoli e secoli fa in un enorme paese lontano da individui del tutto estranei alla nostra società. Come a dire che un modello, qualsiasi modello, potrebbe avere fondatezza descrittiva generale e meta contestuale. No, ogni modello ha senso solo all’interno delle condizioni (antropologiche, culturali, sociologiche, ecc.) in cui è nato, in relazione ai bisogni ed alle attese della comunità che gli ha dato vita.
by Roy Adzak
Come a dire che chi lo pratica è una macchina asettica, piegata a ripetere gesti memorizzati imposti dal Maestro. Di più, in grado di trarre vantaggio, ( e perché mai questo dovrebbe accadere ? In virtù di cosa ?) qualsiasi vantaggio, salutistico o marziale, dal muoversi sforzandosi di imitare, copiare, riprodurre, tutti uguali l’uno all’altro: in cento, in un parco, a fare la stessa forma.
Nessuno di costoro ha mai visto  ( altrimenti si sarebbe riconosciuto !! ) “Un americano a Roma”, vivace pellicola con uno smagliante Alberto Sordi.
Nessuno di costoro è artista- guerriero. Tutti costoro, invece, sono  soldatini, ma … nessuno “di piombo”, per citare l’intensa fiaba di Hans Christian Andersen !!
-       Dall’altro lato proponeva una pratica, la nostra, in cui il corpo sia contenitore della nostra energia vitale, che lo plasma nelle emozioni (emos – azioni: moti d’animo iniziatori di ogni movimento, compreso quello di contrattura frenante o difensiva) espresse all’esterno in motilità, un corpo fisico emotivo che è l’habitat delle emozioni. Esso coglie l’azione del sé. Ovvero non è solamente muoversi, ma è vivere, “sentire” in toto il movimento, nella sensazione della motivazione che tende e distende.
Una pratica che è in sintonia con l’ambiente nel momento in cui riconosce le espressioni formali nello spazio come esplosioni, spirali, meandri, ramificazioni e raccordi e le ripropone attraverso il corpo in risonanza con l’ambiente medesimo.
Lo fa affidandosi alla forza della vulnerabilità e dell’immaginazione.
Vulnerabilità che è aprirsi alle emozioni, affondare le mani nelle pulsioni, è guardare negli occhi la propria parte Ombra, quella bestia nera che vive in noi e che ognuno di noi teme / nega perché socialmente poco raccomandabile, persino bandita. Vulnerabilità che è il coraggio dell’uomo vero, che si cerca adulto responsabile fuori da evitamenti e proiezioni, dalla protezione di maschere e ruoli.
Immaginazione che non è pensare un’immagine, ma calarcisi dentro. Gaston Bachelard scriveva “Non è la forma dell’albero ritorto che fa immagine, quanto piuttosto la forza di torsione e questa forza implica una materia dura, una materia che si indurisce nella torsione”. Ovvero immaginare oltre la forma ricurva dell’albero per entrare nel vivo delle linee di forza in virtù di una complicità che consenta di provare dentro il proprio essere fisico emotivo, di condividere emozionalmente, la materia e la durezza.
by Miguel Berrocal
Ecco, se proprio volessi attribuire al  Tai Chi Chuan un valore di autentico, delle origini, lo attribuirei, paradossalmente, a quanto noi andiamo proponendo.
Se il Tai Chi Chuan era, alle origini, pratica insieme, indissolubilmente, di difesa e salute:
-       sto bene, in equilibrio sia con le varie parti che compongono la mia personalità sia con l’ambiente e le relazioni sociali in cui vivo;
-       sono in grado di prevenire e difendermi dalle aggressioni (interne a me o provenienti dall’esterno attraverso accadimenti e persone) che questo equilibrio vorrebbero turbare;
se, appunto il Tai Chi Chuan era tutto questo, praticarlo come continuità del processo di contatto con il “reale” che sono e mi circonda è l’unico modo per fare ed essere originale, autentico Tai Chi Chuan.
Altrimenti è solo asettica ripetizione di gesti presumibilmente ( chi ne ha testimonianza ?) nati in quel modo qualche centinaio d’anni or sono, ripetizione fatta ad opera di impassibili mimi costretti ad agire privi di ogni emozione, di ogni sentimento e, cosa per altro impossibile, di ogni personale ed individuale memoria corporea.
by Lynn Davis
Noi proponiamo, invece, un Tai Chi Chuan poco attento ad una ortodossia, per  altro inventata o difesa a suon di diplomini o pretesa solo perché alle spalle c’è un individuo con gli occhi a mandorla, quanto tesa all’ortoprassi: il suo statuto non è quello di essere un mezzo conoscitivo, ma un mezzo legato all’agire; il suo rigore non sta nella coerenza a un modello ( pure presunto !!), ma nella continuità del processo di contatto con la realtà. La realtà di chi, italiano del terzo millennio ed individuo unico nella sua individualità, pratica, come e dove pratica, in relazione a chi e a cosa … ogni giorno vive.
Qualche domanda, alcune osservazioni dei presenti.
La serata si conclude lasciando un alone che io leggo di simpatico stupore, a tratti, di destabilizzazione, sia in chi del Tai Chi Chuan sapeva solo quel che viene generalmente diffuso,  sia in chi lo pratica nei modi da cui io mi sono ben distanziato.
E stupore, voglia di comprendere ulteriormente e, magari, in modo diverso, sono due ottimi punti di partenza per un sano lavoro su di sé e per sè, sempre che lo si voglia !!.

“Il mio corpo è il mio simbolo”


Un grazie particolare all’allievo Renato, per aver fortemente voluto questa serata, nonostante gli intoppi organizzativi; a quegli allievi che, con la loro presenza, hanno voluto testimoniare l’adesione ad un progetto formativo e guerriero a cui, evidentemente, credono e sentono loro; a chi, pur non praticando nella Scuola e tantomeno Arti Guerriere, ha voluto comunque esserci e portare il suo contributo.