lunedì 21 novembre 2016

Spirito Ribelle


 

 “Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti l'uguaglianza o la giustizia o qualsiasi altra cosa. Se sei un uomo, te le prendi.”
(Malcolm X)

 

La festa per il mio compleanno, sessantacinque anni, era un buon evento, una bella occasione per stare insieme, noi della Scuola, noi amici.
Mi è parsa anche l’occasione buona per illustrare, pur brevemente, dove sta andando questa Scuola nostra e come ci sta andando, in particolare nella prossima stagione, 2017 – 2018, e in quelle a venire. E qui, ancor più succintamente, lo ripeto, per chi alla festa del mio compleanno non ha voluto esserci, per chi c’era e, non avendolo fatto allora, vuole ora farmi qualche domanda, inoltrare qualche proposta.

Comincio con lo scrivere che a fine di questo Giugno, lasceremo i locali di via Simone d’Orsenigo.

Dal 1984 ad oggi, più di trent’anni e il cuore lo sente, lo sa.
Ma chiudo la porta, lascio i locali di trent’anni del mio vivere, del vivere, per qualche mese o diversi anni, di decine e decine di giovani, uomini e donne che lì hanno sorriso e sudato, tirato di spada e al sacco, gioito e pianto, oltreché lì hanno dormito, cucinato, fatto l’amore, si sono confidati delle loro paure, hanno chiesto “una mano” per una relazione affettiva in crisi, un lavoro da scegliere o lasciare, un padre con cui riappacificarsi o un figlio da comprendere.
Lo faccio per diversi motivi.

L’affitto troppo alto.

Solo la generosità del nostro anfitrione che da due anni ne ha parzialmente ridotto l’importo, ci ha permesso di continuare. Ma il tracollo, l’impossibilità di pagare affitto o bollette varie, sta in agguato ogni mese, di mese in mese.

L’esiguo numero dei nuovi praticanti.

D’altronde, i locali così “spartani”, l’ambiente così crudo, cozzano con quanto i milanesi modaioli vanno cercando, in questa società di aspiranti VIP che infestano face book con un presenzialismo goffo e burino, di vanesi narcisisti ossessionati dall’apparire. Il nostro praticare, così terribilmente efficace quanto così attento al “conosci te stesso”, non solo cozza con le caratteristiche imbelli dei tizi di cui sopra, ma sparisce davanti alle glorie di facciata di pratiche marziali o da ring fatte di muscoli e facce truci. E non importa se costoro smanacciano, calciano non tenendo la guardia, non hanno alcuno sviluppo ritmico dl movimento né alcuna poetica dei movimenti del corpo nello spazio. Queste pratiche appaiono, sono visivamente “rumorose”, dunque piacciono a questo pubblico giovane di età e a volte, quando non di età, giovane, o meglio, immaturo, di cervello e superficiale. Pratiche superficiali a loro volta, non impegnano l’individuo in un duro percorso sulla riappropriazione della propria energia vitale, muscolare ed emozionale, sulla via dell’individuazione, di un perturbante pellegrinaggio interiore.  Sono un simpatico e comodo passatempo, a volte, un “gioco” (*) (nell’accezione transazionale) teso proprio ad eludere lo specchio dell’anima. Insomma: “Tiro due cazzotti che mi sfogo e mi sento un combattente vero e non c’è nessuno a sfrugugliarmi i maroni con ‘Cosa provi?’ ‘Come ti emozioni?’ e menate varie”.  Ci aggiungiamo la mia incapacità di fare una pubblicità accattivante e mirata, il mio fallimento nel farci conoscere, ed il desolante quadro è completato.

L’esiguo numero dei praticanti “soliti” e quel che ne consegue.

Troppo pochi per garantire il pagamento di tutte le spese.  Anche perché, già pochi, alcuni di questi pochi praticano e dunque pagano nemmeno per l’intera stagione (Settembre – Luglio) ma solo da Ottobre a Giugno, mentre affitto e bollette pretendono denaro dodici mesi all’anno. Poi, succede che c’è sempre chi salta un mese o due di pratica, chi per un mese o due non viene e dunque paga saltuariamente, adducendo il sacrosanto motivo che soldi non ne ha. Immagino intenda che non ne ha da spendere per praticare, perché, in tutti questi trent’anni e più, sai quanti dichiaratisi “in bolletta”, facevano acquisti o vacanze che io fatico a sognare !! Ci aggiungiamo che non sempre ho saputo comunicare nel linguaggio appropriato quell’entusiasmo, quella passione necessaria per affrontare una pratica semplice ma non facile, quei cambiamenti che troncavano certezze raggiunte lasciando, così, il praticante smarrito quando non deluso di fronte alle novità introdotte ed anche qui il quadro è completato. (**)

La mia stanchezza.

Stanchezza nell’esserci sempre, quattro sere su cinque, più gli spezzoni al Sabato e / o la Domenica. Stanchezza nell’essere sempre teso ed attento su tutto quanto la vita di una Scuola, di un clan richiede: dalle piccole ma necessarie incombenze a quelle di più vasta portata; dall’esserci e con le parole giuste per i timori ed il malessere nella vita privata di ognuno che mi venivano portati in Dojo e fuori, alla precisione nella contabilità; dall’organizzazione spicciola di auto ed equipaggi per uno Stage, alla preparazione del calendario mensile; dall’organizzare i necessari ed educativi turni di pulizia scegliendo accuratamente gli accoppiamenti e poi stando sempre pronto a sostituire chi eventualmente ci “bidonava”( anche la scorsa settimana: uno dei due non si è presentato mai né mi ha avvisato; l’altro, mi ha detto “ Vengo Sabato a pulire” ma non l’ha fatto, così sono andato io di “ramazza” su e giù per il Dojo) alla redazione “in toto” del periodico SHIRO; dalla distribuzione delle tessere all’inseguire ognuno di voi perché portasse il certificato medico; dal trovare come e chi potesse risolvere, rapidamente e a basso, bassissimo costo, i guasti vari in doccia, all’impianto elettrico, nelle “turche”, al volantinare in giro per le strade. Mi fermo qui, so che avete capito che “mazzo tanto” io mi faccia ogni giorno, e, tranne i primi lontanissimi anni ‘80, ormai lo faccio sempre da solo. Ah, un grazie di cuore a Giovanni che, in questi mesi, mi è stato accanto: senza di lui, più di una “rogna” non avrei saputo spulciarla.

Ci aggiungete che se, fino ad un anno fa circa, non mi pesava se Tizio o Caio saltavano uno o più incontri, lasciandomi in pedana per incontri “one to one” o, a volte, da solo, ora la cosa mi pesa. Mi pesa non perché io giudichi negativamente i motivi per cui Tizio o Caio saltano, sono i loro di motivi e dunque sono sempre legittimi, è che, leggete bene: mi sono stancato di aspettare i motivi buoni, quelli che li faranno venire in Dojo. Capito, vero?
Allora, che succederà nella stagione a venire?

Grazie alla disponibilità del Maestro ed amico Giuseppe, ci trasferiremo presso la sua sede, in via Labeone, in zona via Lomellina.
Non sarà la Scuola con le caratteristiche di clan, di famiglia, di scuola di vita, che ci sono proprie, ma se qualcuno ne sente la nostalgia può rimboccarsi le maniche e crearne una di propria, con quei tratti di solido collettivo, di Scuola di formazione alla vita, che erano dello Z.N.K.R. e magari pure migliore.

I corsi saranno così strutturati:
Martedì e Venerdì
18,30 – 19,30: Wing Chun Boxing
19,30 – 21,30: Pratica di Tai Chi Chuan e Chi Kung per la formazione di un corpo sano e marziale e, a seguire, trasposizione nella pratica combattiva del Kenpo Taiki Ken. Con possibilità, per chi non sia interessato alla parte “marziale”, di praticare solo la prima parte (Tai Chi Chuan).
Sarà mio piacere organizzare, nei fine settimana, presso la struttura del Maestro Giuseppe o in altra sede, Seminari di Kenshindo e altro che ritenessi di valore o su suggerimento dei praticanti stessi. Continuerò, a richiesta, con gli incontri privati sia “marziali” che di counseling.(***)
Non riapriremo i corsi Bimbi / Ragazzi, che sarò però ben contento di accogliere nei corsi adulti.

La pratica seguirà l’evoluzione di questi ultimi tre anni. L’incontro e il mio praticare con i Maestri Trickovic (un grazie enorme per avermi aperto un mondo !!) e Xia, il rinnovato interesse per quanto fa il Maestro Tokitsu, tutto “condito” dalla mia personale interpretazione, ci hanno aperto le porte di un incredibile salto di qualità. Ora sappiamo bene, e lo facciamo anche !!, che è nel lasciare la presa, nell’affondare dentro fisicomoetivo, che avviene l’emergere del soggetto e con lui una motricità tanto sana ed equilibrata quanto letale, assolutamente vincente.

Non vado oltre, chi pratica ha già gustato la meraviglia. Per gli altri, le porte della meraviglia sono sempre aperte.

Sarà, dunque, se non una mini Scuola, certamente un piccolo cuore pulsante e ribelle.
Ribelle, o “gyakufu” per usare un’espressione giapponese: “faccia al vento”; lì, in una cultura omofona dove il collettivo prevale sul singolo, è caratteristica negativa, per me, invece, sta ad indicare uno spirito eretico, audace, mai domo, dove il gruppo e l’individuo convivano dialetticamente, dove vivere un’avventura individuale in seno al gruppo, dove il praticare dia non solo la “madre” gruppale, ma anche gli strumenti della “disillusione” e della differenziazione.
Ribelle come è stato per decenni lo Z.N.K.R., sempre fuori dal coro e già ne ho scritto in diverse occasioni.

Solo che, qualcuno lo avrà notato? da alcuni mesi la scritta “Spirito Ribelle” appare sempre insieme ai mon (****) della Scuola e delle diverse Arti. Questo perché il nostro tratto ribelle, anticonformista, audace, sia evidente già nella forma, nell’apparire, e perché, scriverlo, anticipi e prefiguri il cambiamento, anche lui enorme, che stiamo andando a fare passando dai nostri locali, dal nostro Dojo, all’ospitalità nei locali, nel Dojo di altri.

Allora,

che Spirito Ribelle sia,
per tutti coloro che vorranno condividere.

 

“E il mio Maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”
(F. Battiato)

 

 (*) “…il concetto di gioco legato all’idea di tornaconto, sperimentazione di emozioni parassite, cioè inautentiche rispetto alla situazione, come surrogato di una intimità che non si riesce a vivere se non come obbligatorietà di una messa in atto inconscia del proprio copione, da cui ci si libera solo attraverso la consapevolezza di una ridecisione copionale e il coraggio di provare emozioni autentiche e non parassite”
(http://www.performat.it/pubblicazioni-articoli/i-giochi-e-le-simbiosi-in-analisi-transazionale/)

 

(**) Nell’assumermi la mia responsabilità nel non aver forse dato sempre il meglio e il massimo, una considerazione la voglio però fare, pensando
-       più che a chi ha smesso di praticare, a chi si è buttato su pratiche marziali / sportive goffe e infarcite di grossolani errori, a chi mi ha mandato messaggi trasversali recriminando perché si è sentito poco considerato e coinvolto;
-       piuttosto a chi è rimasto, ha tenuto duro e mi accompagna entusiasta e motivato.
Ecco, io non credo che Valerio, Davide e Giovanni si siano così divertiti né siano stati così sicuri di quel che io loro proponevo in tutte quelle lezioni che so essere state noiose, incerte, a tratti fumose.
Ma voglio pensare che abbiano continuato spinti, per un 45% dall’aver intuito il potenziale enorme di intelligenza motoria ed efficacia marziale che si sarebbe svelato una volta passate le nebbie e la fatica della transizione, senza farsi illudere ed abbagliare dalle sirene di pratiche muscolari, machiste o di pura fantasia; per un 45% dall’avermi dato fiducia, una fiducia in parte incondizionata in parte testata sui cambiamenti che io ho fatto in quarant’anni di pratica e oltre trenta di insegnamento e sempre hanno portato la Scuola, gli allievi, ad eccellere, a essere sempre un passo avanti a quanto facevano negli altri Dojo o palestre. E il restante 10%? Beh, credo che quel restante 10% sia una forte convinzione nei loro mezzi, nel sapere che ce l’avrebbero fatta. Ed è stato proprio così. Per quanto io sappia della loro vita privata e professionale, che conta ben più del saper tirare efficacemente un pugno o una bastonata ma da questo saper tirare trae motivo e modo per essere e vivere efficacemente nel quotidiano, i cambiamenti in meglio li hanno fatti, i riconoscimenti esterni li hanno ricevuti, eccome. Per quanto riguarda strettamente tirare un pugno ed una bastonata, basta vedere come si muovono, come agiscono ora, per apprezzare gli ottimi risultati raggiunti: ed il viaggio continua !!
Evidentemente, a chi se ne è andato, mancavano, in toto o in parte, proprio quegli attributi.

 

(***) “Il counselor è colui che offre il suo tempo, la sua attenzione interessata e partecipativa, nonché il suo rispetto a chi si trova in una condizione di difficoltà e di incertezza e che, attraversando un momento di difficoltà, sente la necessità di chiarificare alcuni aspetti di sé, anche in rapporto all’ambiente che lo circonda.
E’ un esperto di comunicazione e relazione in grado di facilitare un percorso di autoconsapevolezza nel cliente, affinché trovi dentro di sé le risorse per aiutarsi. Aiutare gli altri ad aiutarsi è, infatti, una delle funzioni principali del Counselor”
(http://www.aspicvenezia.org/counselor-chi-e-e-cosa-fa/)

 

(****) “mon, ovvero dei tradizionali emblemi araldici giapponesi che rappresentavano una singola persona o, più comunemente, un clan”
(http://seishin-dojo.weebly.com/blog-e-approfondimenti/mon)

 

 

 

 

 Don't give up
'cause you have friends
Don't give up
You're not the only one
Don't give up
No reason to be ashamed
Don't give up
You still have us
Don't give up now
We're proud of who you are
Don't give up
You know its never been easy
Don't give up
'cause I believe there's a place
There's a place where we belong

 




























 

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 10 novembre 2016

Dell'arte e dell'artista


 

 

Che peccato.... Dopo tanti anni e tanto lavoro sono arrivato ad elaborare un Tai Chi veramente interessante ed unico, molto migliore di quello dei miei insegnanti, e quasi tutte le persone che avrebbero potuto capirlo ed eseguirlo bene, come (omissis), se ne sono andate sbattendo la porta o hanno smesso.... Che spreco....Ed a che serve la vera arte quando è autistica ? Solo trasmessa acquista senso....

Così scriveva, giorni addietro, un praticante e docente che io stimo molto, lo stesso che, una quindicina di anni fa, mi guidò lungo il percorso di una delle più interessanti espressioni del Kenpo Taiki Ken.

Condivido le sue parole, che potrebbero essere le mie, tolta l’affermazione “molto migliore di quello dei miei insegnanti”, in quanto, semplicemente, ritengo che quanto io ora vada proponendo sia diverso, non migliore.  Una “diversità” che offre domande e possibili soluzioni, un percorso che altri, i miei stessi insegnanti di prima e di adesso compresi, non offrono. Semplicemente, io faccio della pratica marziale un esplicito percorso di individuazione, sorta di terapia di crescita e trasformazione, e lo faccio con un metodo anche questo diverso, in quanto fondato sulla maieutica, sull’arte del domandare. Insomma, ci si mena sì ma per quel “Conosci te stesso” chiave di volta, io ritengo, per dare un senso a questo nostro fragile ed incerto vivere.
Menarsi per menarsi, non solo non mi interessa ma, sono convinto, di per sé non porti certo al “Conosci te stesso” o a qualche progredire sulla strada della consapevolezza e dell’autodeterminazione. Che è ciò che a me preme di più.
Ma di questo ne ho già scritto più e più volte.

Qui, preferisco cogliere il senso di quell’affermazione “a che serve la vera arte quando è autistica ? Solo trasmessa acquista senso...”.
Da un lato, sento, sento dentro, pelle e cuore e corpo tutto, la gioia profonda per quel che vado imparando e la voglia altrettanto profonda di condividerlo con altri. Un piacere di donare, altruistico e genitoriale in senso transazionale :“Né l’adulto, né tanto meno il bambino, sono capaci di amore. L’adulto è troppo occupato a sopravvivere e a dominare l’ambiente, per occuparsi degli altri e quindi per amare. Il bambino non è nemmeno capace di amare se stesso, figuriamoci se è capace di amare gli altri. L’amore che il genitore nutre e vive nei confronti degli altri è per lui fonte di piacere”. (G.C. Giacobbe).
Dall’altro, mi chiedo quanto questa sia una necessità. Come a dire, solo se svuoto la tazza del pur prezioso liquido che la contiene, permettendo ad altri di abbeverarsi, potrò riempirla di altro e nuovo liquido probabilmente ancor più prezioso.

Poi, a questa duplice considerazione, si aggiunge un dubbio: perché l’arte non condivisa dovrebbe, per forza, essere autistica?
L’arte si intende come connessa alla capacità di trasmettere emozioni e “messaggi” soggettivi, è l’espressione del sé e del proprio io. Se non la mostro e la tengo tutta per me è ancora arte? E’ pratica artistica? O è arte monca, autistica appunto?

E se anche fosse tale, è da considerarsi negativamente?
Perché, se suono, canto, danzo, per me e per me solo, ho da considerarmi meno e meno artista che ad esibirmi in pubblico?

Al di là di possibili, e magari risibili, riflessioni teoriche (teoretiche?), forse la nota di rammarico che io colgo nella frase riportata all’inizio di questo post, risuona come tale davanti all’esiguo, sempre più esiguo, numero di adepti disposti ad accompagnare, a seguire l’artista, che il succitato Maestro lì denuncia.
Anche qui, mi sento di condividere la nota di rammarico, di malessere, perché anche io, allo Z.N.K.R., vado vivendo la stessa sensazione di abbandono per gli allievi anziani che se ne sono andati e per i nuovi che non arrivano e, insieme, di spreco per il prezioso gioiello che ho tra le mani senza avere a chi darlo.

Con un sostanziale e fondamentale distinguo.
Un “distinguo” che è fatto dalla mia considerazione critica sui tempi che andiamo vivendo e sui valori che in essa imperano, dove si confonde il tenore di vita con la qualità della vita, la sbruffonaggine con il coraggio, la licenza con la libertà, dove giustizia è uguaglianza per tutti anziché uguaglianza per uguali.
Tempi e valori per niente consoni ad una pratica artistica profonda e con intenti terapeutici in cui “la salute di un individuo dipende dalla possibilità di essere creativo, cioè di ‘autorealizzarsi’, e coincide con l’espansione fiduciosa delle proprie potenzialità, con il dispiegarsi delle caratteristiche neoteniche proprie della specie umana” (A. Carotenuto) ; tempi e valori condivisi da una informe massa di amebe soggette al primato dell'economia, del denaro, del produttivismo e del consumismo senza l’uso, dove sono i “mercanti”, nelle loro diverse sfaccettature, ad occupare il posto d’onore, dove la voce dei mediocri è inarticolata ma assordante

Dunque, se di questi tempi e dei loro abitanti ho un’immagine siffatta, come posso stupirmi che le mie prestazioni artistiche, antagoniste, di più: alternative, siano sconosciute quando non scansate? Né coltivo in me alcun delirio di onnipotenza, ovvero la pretesa di convincere della bontà / qualità della mia prestazione artistica.

Di contro, e di … equilibrio, sia per stare lontano da atteggiamenti snobistici o da “mosca cocchiera”, proprio io che cerco e propugno la consapevolezza, so che essere consapevoli esige che si viva presenti, quanto al luogo e al momento, e non altrove, nel passato o nel futuro. La persona consapevole è viva perché sa che cosa prova, sa dove si trova e quale momento sta vivendo. Sa, evviva!! che quando sarà morto, mari e montagne ci saranno ancora e lui no e perciò vuole guardarseli e goderseli il più possibile.
So anche che l’esperienza e l’esperire di ogni individuo sono sempre il frutto del suo contesto, dunque mi tengo stretto questo mio essere minoranza nella pratica artistica marziale, come lo fui e lo sono negli altri ambiti del mio vivere, da quelli più superficiali (capellone negli anni ’60; skin head -appellativo dato ai militanti di destra mentre io di destra non ero proprio-, rasato insomma, già a metà degli anni ’70 e sempre in quegli anni vestito quotidianamente in tuta quando la tuta era appannaggio solo dei professori di educazione fisica nel mentre che si recavano al lavoro, praticante di jogging, uno che corre insomma, per le strade ed i parchi di Milano quando allora il jogging nemmeno si sapeva cosa fosse, ecc.) a quelli più profondi.

A ben guardare, credo rimangano due prospettive, per l’uomo differenziato, per il ribelle che non si piega all’italcafonaggine: passare al bosco, come l’anarca di Ernst Junger, compiendo sul piano individuale le prospettive degli antichi stoici (“Vivi nascosto” e “Sopporta e astieniti”), oppure lavorare in solitario, pur aperto ai pochi che ne siano incuriositi, per coltivare questa mia arte che così tanto amo.

Non so se sarò autistico io e quel che andrò a praticare. Il dubbio mi rimane.
Mi rafforzano, con tutto il rispetto per il pensiero di Gramsci, quel “Pochi ma buoni” attribuito al di lui antagonista al congresso di fondazione del P.C.I. Amedeo Bordiga; le asciutte osservazioni del filosofo e “sciamano” Gurdjieff sul preferire qualche fetta di torta data a pochi che le briciole ai molti; l’illuminante frase di Fritz Perls, uno dei padri della Gestalt terapia: “Sarò con te. Sarò con te con il mio interesse, la mia noia, la mia pazienza, la mia rabbia, la mia disponibilità. Sarò con te (…) ma non ti posso aiutare. Sarò con te. Tu farai quello che riterrai necessario”, fino alla dissacrante “Io sono la mia vita e tu la tua. Io non sono in questo mondo per rispondere alle tue aspettative e tu non sei in questo mondo per rispondere alle mie. Tu sei tu e io sono io... e se per caso ci incontriamo allora è splendido! Altrimenti non ci possiamo fare niente!

Post illustrato con opere, ed un ritratto, di Basquiat. Al Mudec di Milano, in questi giorni, una interessante mostra su quest'artista.
 
 
 







 

 

 

 

 

 

 

 

 

lunedì 7 novembre 2016

Odisseo


Il mio nome è Nessuno
Vol. 1: Il giuramento. Vol. 2: Il ritorno

 

 

Come sa chi mi conosce, io sono un “divoratore” di libri di saggistica, poco avvezzo a cimentarmi con i romanzi. Lo so, Giorgio Amendola, uno dei più fini politici ed intellettuali del fu PCI, si rivolterebbe nella tomba, lui che ammoniva a leggere le cose della vita proprio attraverso i romanzi, ma io amo studiare i “saggi”, concedendo poco spazio alla narrativa.

Eppure… ho preso una “cotta” per i due volumi che Valerio Massimo Manfredi ha dedicato alle vicende di Odisseo, il “suscitatore di odio”, uno degli erodi dell’Iliade e il personaggio principale del libro omerico che da lui prende il nome.

Lettura agile e piacevole, mi ha indotto a diverse riflessioni, tutte, ma guarda un po’ !! legate alla mia pratica marziale che, lo sapete, per me è a sua volta chiave di interpretazione del vivere e delle entità tutte del mondo.

Una prima cosa che mi ha colpito è la sua capacità di vivere in fondo ed appieno le sue emozioni, senza farsene travolgere. Io che, in tempi giovanili ed estremamente … vivaci, mi innamorai del Pelìde Achille dalla “ira funesta” e dalle passioni travolgenti, del gigantesco e focoso Aiace Telamonio, ho imparato ad apprezzare la capacità di agire e non reagire.
Laddove la nostra pratica marziale ci guida ad accettare fino in fondo pulsioni ed istinto di morte, la ferocia che origina dal predare per non essere predati, però anche a ri-conoscerla e ad agirla secondo un alveo tanto efficace ed efficiente quanto guidato da ampia apertura sensomotoria, da una motricità dotata di sviluppo ritmico, per niente affidata al guizzare dei muscoli superficiali e ad un superficiale reagire di stampo macho-ginnico. La nostra, è raffinata e letale arte taoista di caccia e morte che coglie il bersaglio, la preda, nei modi e tempi che noi vogliamo, che noi scegliamo. E’ arte che né subisce né però incolpa altri o altro di ciò che ci accade. E’ arte della responsabilità.

Poi, Odisseo, “polimete” (“colui che pensa molto”) si contrappone a Polifemo (“colui che parla tanto”). Che trovo ridicoli tutti quei bulli, da strada o da palestra ma anche da … politica, che cianciano e minacciano “spacco questo e spacco quello” per poi restare mano in mano o allearsi con l’identico bullo che prima li fronteggiava, alleanza tra grotteschi capitan Fracassa, che si fanno forti di una paternità divina (Il Maestro dagli occhi a mandorla, il Maestro cazzuto e muscoloso che lui sì mena tutti, anche quando in ciabatte – non sto scherzando, dalla parte burina di Roma è arrivata anche questa !! -).
Inoltre, Il gigantesco Polifemo è un essere primitivo, dominato dagli istinti, dal sentire di “pancia”, dotato di un solo occhio a simboleggiare proprio questo: il vedere tutto piatto, non oltre le apparenze. Mentre Odisseo ha due occhi, ovvero ha una visione tridimensionale di ciò che lo circonda, ha il senso della profondità. Il che, in chiave allegorica, significa capire le cose in profondità, oltre la superficie, ovvero superare l’apparenza  per indagare ciò che vi è dietro.
E bravo il nostro Odisseo che parla poco e agisce tanto e bene, liberandosi dalla prigionia e storpiando a vita il gigante sbruffone. Peccato, allontanandosi, quel rivelare a gran voce la sua identità che permetterà a Poseidone di sapere chi egli sia e tormentarlo per anni ed anni: va beh, nemmeno Odisseo è perfetto, poi, lui non pratica allo Z.N.K.R. !!

Altro elemento fondamentale per la mia “cotta” è l’identificare Odisseo con una caratteristica importante, per come io intendo il praticare le Arti Marziali, e necessaria perché il praticante sia davvero tale.
Nel senso che ad un certo punto della sua vita, sente la necessità di conoscersi, nelle sue capacità come nei suoi limiti, nella sua parte più luminosa come nella sua ombra, in quel lato oscuro che le convenzioni sociali e probabilmente lui stesso non accettano. Il praticare marziale, come io lo intendo, come io lo propongo, è una sorta di terapia, di “simulata”, profondamente fisicoemotiva, una formazione a saper stare nel confliggere, di più, a fare di ogni conflitto un prezioso alleato per migliorarsi.
Relazionarsi con il proprio malessere, le proprie ansie e paure, viaggiare dentro di sé, non solo forma un individuo migliore perché consapevole, ma vuol dire anche indurlo a comprendere in modo più adeguato il “viaggio dell’altro” quanto la paura di viaggiare, di lasciare la propria calda e rassicurante merda dell’altro.
Ad accettarne la passività e l’eterna sconfitta, che non tutti sono eroi !!

Ogni incontro e ogni scontro, nella finzione narrativa come nel vivere reale di ognuno, è un viaggio verso la scoperta di una parte di sé. Il viaggio di Odisseo è il viaggio della vita di ogni uomo. Le sfide che dovrà affrontare sono gli scogli che si interpongono tra un uomo e il suo progetto di vita. Come per tutti noi, non sono spesso gli ostacoli esterni a impedirci il raggiungimento della nostra meta, quanto siamo noi con le nostre paure, le nostre fragilità, il nostro proiettare su altri o altro (i genitori, la moglie / il marito, il capo ufficio, il destino, la sfiga ecc.).

Tutti questi incontri e scontri di Odisseo rimandano alle dispute psicologiche, e non solo, a cui ogni individuo va incontro: Calipso, donando l'immortalità, evita di assumersi le responsabilità della vita; la maga Circe è la lussuria e l'abbraccio mortale di una presenza totalizzante; la terra dei Lotofagi è il luogo dell’oblio e dell’alessitimia, la privazione di ogni sentimento (ieri l’istupidimento da droga, oggi il mondo virtuale, il consumo senza uso)
Ma è proprio affrontando, come fece Odisseo, le difficoltà della propria conoscenza e trasformazione che si può arrivare, se non a completare il proprio progetto di vita, almeno a sapere come e dove andare.

Odisseo, poi, proprio perché aperto al suo mondo emozionale, non è immune ai disturbi dell’umore, ai pericoli dell’ansia, che siano sconforto quando preso dalla pura di fallire, senso di colpa quando si sente colpevole di aver lasciato la famiglia per una guerra insulsa, poi pianto irrefrenabile, crisi nervose, ecc.

Insomma, è uno di noi, nelle fragilità e nelle insicurezze, per niente bullo o macho man; ma è uno di noi proprio perché queste fragilità ed insicurezze, che lui sa accettare, non gli impediscono di lottare e viaggiare. Viaggiare che prima ancora che curiosità per ciò che sta fuori è scoperta di e dell’altro per scoprire se stessi.

Praticare Arti Marziali allo Z.N.K.R.

 

è questo viaggiare.

 

E tu, a che punto sei del tuo viaggio? O non hai ancora iniziato il tuo viaggio?

 
“Qual è il vero significato della parola viaggiare? Cambiare località? Assolutamente no! Viaggiare è cambiare opinioni e pregiudizi”
(Anatole France)