martedì 19 maggio 2020

Un incontro straordinario



 I piedi che affondano nel terreno. Tutto il mio peso vi affonda, rilasciamento che anticipa un’energia ascendente, sorta di “molla” esplosiva, di onda shock, che percorre il corpo tutto indirizzando gli arti a divorare famelici lo spazio tutt’intorno. (1)
Affondare nel terreno, accelerare il moto ascendente tramite un’energia spiraliforme che non trovi freni o intoppi o sacche di resistenza grazie ad un corpo flessibile. Flessibile dentro e fuori. Libero e “vuoto”.(2)

Per questo è importante lavorare Fushime Taiso, laddove la mappa neurologica primordiale, alle radici, la possiamo esplorare compiutamente. Laddove, in caso di mancanze, di strappi o immaturità nel percorso di crescita ontogenetico (la maturazione infantile) in cui si riflette quello filogenetico (della specie) riscontriamo, una volta adulti, deficit di movimento sino ad una asfissia nella percezione sensoriale.
Dalla posizione fetale alla “stella marina”, movimento abbozzato che l’ombelico indirizza alle parti connesse, ai quattro arti, passiamo ai movimenti spinali testa - coda (pesci), poi a quelli omologhi, in cui gli arti agiscono simultanei e simmetrici (anfibi).
Quando l’essere, l’animale, esce definitivamente dall’acqua, ecco i movimenti omolaterali, asimmetrici sullo stesso versante di un arto superiore ed uno inferiore (rettili), a seguire i controlaterali, l’arto anteriore di destra si muove in avanti insieme al posteriore di sinistra e viceversa (felini), fino alla salita alla stazione eretta (bipede) e … ritorno.
Da bipede ecco, appunto, l’importanza di scaricare il peso a terra per poi esprimersi nello spazio, recuperando un pieno uso del bacino / femori e della colonna vertebrale in cui, nei millenni, il mancato uso degli arti superiori (anteriori) per la deambulazione, la parte “alta” si è impigrita fino a concedere poco o nulla alla qualità del movimento.

Simbolicamente, dalla Terra verso il Cielo.
Dall’accoglienza del femminile all’avventura di scoperta tipica del maschile. Sorta di separazione, di rescissione traumatica, violenta, dal cordone ombelicale, dal maternage come condizione necessaria per divenire maschio adulto. Certo, poi, ogni volta, torniamo alla terra, al femminile, per poi riprendere il viaggio in una sequenza senza fine.

Eppure, in questa affascinante sequenza così come l’ho descritta, sequenza di straordinaria efficacia motoria e pure marziale, di combattimento,
manca ancora qualcosa.

Manca, meglio, ora scopro un ancor più raffinato andamento corporeo che si traduce in azione e gesti ancor più fluidi, ancor più rapidi; scopro un nuovo, un diverso rapporto con la Terra, con il femminile, con la Madre.
Non una separazione netta, agita come strappo. Piuttosto un’accoglienza che mentre mi accoglie, accoglie il mio pesare ed io mi lascio accogliere, al contempo mi permette di allontanarmi, di esplorare nuovi spazi, di scoprire l’avventura del maschile senza lo sforzo, che è traumatico, del distacco.
E’ un incontro foriero di esplorazioni che nascono spontanee, senza traumi, senza sforzi e danzando l’armonia dell’ambiente.

Scopro, nell’azione corporea (3), che, dal semplice e primordiale movimento di irradiamento ombelicale fino al balzo sull’avversario, posso ora agire ancor più fluido, ancor più rapido.
Scopro, nell’elaborazione psicologica, che il distacco dal materno può essere una potente delizia, un delicato e audace slancio nel maschile, nel paterno.
Scopro che la separazione, ogni separazione, non necessariamente, anzi, deve essere trancio doloroso.

Scopro che faccio meno fatica ed ottengo di più.

Che è il succo, il cuore, di ogni pratica motoria, corporea, dunque anche sportiva se l’intellighenzia sportiva fosse realmente tale e non un mondo chiuso nella sua ignoranza! (4)
Che è il succo di ogni pratica marziale, combattente, lottatoria, laddove la rapidità del successo sull’avversario col minor dispendio di energie stabilisce chi vive e chi muore.
Che è il succo di ogni pratica terapeutica, di ricerca del benessere e del bellessere.

“Per quanto tu sia bravo, puoi sempre migliorare,
ed è questa la parte emozionante”
(Tiger Woods)

Un sentito grazie ad Eleonora che, prendendomi per mano, mi ha permesso questa scoperta.


1. Pratica sensazionale di efficacia ed efficienza ben più progredita di chi ancora pratica privilegiando gli arti al lavoro del corpo tutto, ma pure di chi ancora pratica affidandosi al ruotare dei fianchi o alla contrazione / decontrazione muscolare delle gambe.

2. “Possiamo allora dire che lo spazio incorporato, vale a dire tutti i volumi che percepiamo al nostro interno, si espande leggermente tutt’intorno a noi, nello spazio peripersonale (…) e che lo abitiamo e lo utilizziamo molto meglio se affiniamo la consapevolezza della sua dinamicità” (M.  Della Pergola).

3. Non sono ancora in grado di spiegare compiutamente in forma teorica questa evoluzione: dall’agire descritto nelle prime righe a quanto vado scrivendo in quelle a seguire. So come fare, come proporlo ad altri. So come trasformare in questa innovazione ogni esercizio, ogni gioco già praticato: dai Fushime Taiso agli spostamenti, dalla forma Tai Chi Chuan ai push hands, dai colpi di braccia e gambe alle proiezioni al suolo. Ma, al momento, non ho ancora trovato come passare dalla pratica all’elaborazione teorica scritta, o, quanto meno, ad una elaborazione tanto esaustiva quanto sufficientemente sintetica da essere ospitata in un blog!!

4. Ancora largamente maggioritaria è la pletora di docenti, allenatori e praticanti che sostiene il “Ho le spalle contratte” invece di “ Io sono spalle contratte”. Sorta di schizofrenia che scinde Io e corpo, che guarda al corpo come corper, oggetto di scienza, oggetto posseduto, oggetto da misurare, invece che leib: corpo del mondo della vita, essere corpo.
Dal Platone (Atene 428-347 a. C.) del valore universale delle idee, per cui diviene necessario negare corpo e sensazioni, alla nascita del capitalismo con le teorie comportamentiste ( primi del ‘900) per cui, dato l’inserimento sistematico delle macchine nel ciclo produttivo, era imperativo sapere ciò di cui un individuo è capace attraverso osservazione e misurazione, fino al dominio della tecnica dei giorni nostri (dove ogni essere umano è trattato come se fosse soltanto una macchina, cioè un mezzo), ecco il percorso dell’alienazione del corpo, ecco le palestre ed i corsi in cui il corpo è da modificare, da modellare, in cui persino un’arte complessa, profonda e pulsionale come il combattimento viene insegnata / praticata seguendo il foglio simil IKEA per montare un mobile!!.





sabato 16 maggio 2020

Giri Haji. Dovere e Vergogna




Un poliziesco anglonipponico, incentrato su un sicario della yakuza scappato dal Giappone e sul fratello detective, piombato a Londra a cercarlo.
Una Londra fatta di meandri speso sordidi e sottobosco di uomini e donne che faticano a trovare una propria dimensione autentica nella sempre più caotica e malevola città.
Nella serie, agiscono personaggi tutti grande spessore, nessuno secondario né alla trama avvincente degli accadimenti né allo scavo psicologico delle loro debolezze umane. E non è facile trovare una serie in cui tutti, ma proprio tutti, i partecipanti contribuiscano all’intensità dello spettacolo.

Mi ci sono accostato per semplice curiosità per poi imbattermi, oltreché in uno spettacolo avvincente e godibilissimo, nel binomio che dà il titolo alla serie:

Dovere/Vergogna”,

che sono i due elementi che qui tutti i personaggi hanno in comune.
Ogni personaggio, infatti, è legato da un obbligo in cui albergano le cicatrici di disonori passati.

Un senso del dovere che per i personaggi di stampo europeo suona come un individuale  Devo stare meglio” oppure “Dovrei essere diverso da come sono”, mentre in quelli giapponesi il senso del dovere (giri), è quello al quale si sacrificano le emozioni umane (ninjo), al fine di far trionfare l’armonia della collettività, il rispetto della famiglia, dell’impresa per cui si lavora, del clan, della patria.
Stesso è per la vergogna, correlata, nei primi, alla percezione che si ha di se stessi. La vergogna si presenta come un senso sgradevole di nudità, di trasparenza: si ha la sensazione di essere stati scoperti e di conseguenza si vorrebbe diventare invisibili, sparendo per sempre dagli sguardi altrui.
Nella cultura giapponese, vergogna (haji)  più che imbarazzo è disonore.
Come scrisse Ruth Benedict, in “Il crisantemo e la spada”, la cultura della vergogna sarebbe la pressione ad agire nello stesso modo. Per il giapponese, lo stimolo di partenza proviene dall’esterno, sicché l’autocontrollo o l’autocensura, contrariamente alla mentalità occidentale, si attivano non per fedeltà a una propria morale interiorizzata, ma per evitare il rimprovero esterno.

L’incontrarsi e lo scontrarsi dei personaggi, a Londra come in Giappone, crea sotterranee e malcelate commistioni tra queste due visioni che lacerano sia i singoli che le relazioni tra gli stessi, il tutto mentre la vicenda procede tra sparatorie, massacri, agguati e fughe vertiginose.

Allora lo scorrere degli eventi, mentre mostra il limite di karoshi “la morte per eccesso di lavoro”, ovvero la spinta all’onorare ad ogni costo impegni e scadenze, mostra anche la decadenza mortifera insita nella deresponsabilizzazione e nell’eccesso di godimento; di come tatemae / honne, l’apparenza che fa da scudo alla sostanza, possa rivelarsi una trappola soffocante tanto quanto l’occidentale mostrarsi e fare quel e come ci pare, in nome di un liberismo avido ed egoista, sia traghetto verso disperazione e dissoluzione.
Danziamo, puntata dopo puntata, tra il preconcetto nostro di cercare sempre una causalità lineare e quello asiatico di cercare invece un senso ad ogni esperienza.
Abitiamo la compostezza di kijo, il dolore riservato, persino elegante, di contro alla sguaiata esposizione senza ritegno dei sentimenti, ed intanto ci domandiamo se il primo non sia paura, fuga dall’ascolto di sé ed il secondo una spiacevole ma necessaria catarsi.

La serie non lascia certezze allo spettatore, o almeno questa è la mia impressione. Questo perché la parabola di ognuno dei personaggi è narrazione in divenire.
Se davvero la realtà è mondo intenzionato, allora l’individuazione, il percorso di ognuno, è a carico di ognuno di noi, in cui l’altro, l’ambiente, non può essere né scusa né colpa per le nostre scelte. Che si venga da una formazione tradizionale o da una che la tradizione ha dimenticato, ognuno ha da fare i conti con i sensi di colpa e le ambizioni, i progetti, che lo abitano. Ognuno ha il suo substrato inconscio, più o meno contaminato dal retaggio della storia umana, da quello che è chiamato “inconscio collettivo”.

Dal punto di vista occidentale, che per forza di cose; nascita, educazione, relazioni ecc. è il mio, per così dire, “naturale”, viene da chiedersi, questo sì abbracciando la concezione orientale, il senso di questa rapidità, che è superficialità, della comunicazione, dell’avere tutto e subito, della frenesia del consumare quand’anche senza usare, e che in fretta deragliano nel consumo usurante di noi stessi.

Guardare la e le storie qui raccontate è ripensare ai nostri atteggiamenti, al nostro fare fisicoemotivo, significa comprendere il senso di ciò che sta accadendo attorno a noi, che sia ancora latente o in bella mostra, ma che intuiamo essere trasformazione in corso della collettività  verso un futuro ancora tutto da riempire ma dai contorni acidi e maligni. Allora ognuno di noi è e sarà responsabile verso di sé come verso gli altri, responsabilità che è rispetto e cura, pazienza e gentilezze, tanto quanto fermezza e coraggio, audacia.
E’, per me, per le mie scelte, Spirito Ribelle, ovvero pratica di disubbidienza ed opposizione all’abbruttimento ed al servilismo di un presente che vuole condurci verso un prossimo futuro dominato in toto dalle leggi del profitto e della mercificazione, dell’alienazione.
D’altronde “ Niente se ne va prima di averci insegnato ciò che dobbiamo imparare” (Buddha)

Una nota di merito alla musica. Non tanto per i gradevoli brani musicali, quanto per le percussioni, i tamburi, che colpiscono e tracciano, improvvisi, lungo l’intero arco della narrazione. Semplicemente sublimi.

Giri Haji
su Netflix