sabato 16 maggio 2020

Giri Haji. Dovere e Vergogna




Un poliziesco anglonipponico, incentrato su un sicario della yakuza scappato dal Giappone e sul fratello detective, piombato a Londra a cercarlo.
Una Londra fatta di meandri speso sordidi e sottobosco di uomini e donne che faticano a trovare una propria dimensione autentica nella sempre più caotica e malevola città.
Nella serie, agiscono personaggi tutti grande spessore, nessuno secondario né alla trama avvincente degli accadimenti né allo scavo psicologico delle loro debolezze umane. E non è facile trovare una serie in cui tutti, ma proprio tutti, i partecipanti contribuiscano all’intensità dello spettacolo.

Mi ci sono accostato per semplice curiosità per poi imbattermi, oltreché in uno spettacolo avvincente e godibilissimo, nel binomio che dà il titolo alla serie:

Dovere/Vergogna”,

che sono i due elementi che qui tutti i personaggi hanno in comune.
Ogni personaggio, infatti, è legato da un obbligo in cui albergano le cicatrici di disonori passati.

Un senso del dovere che per i personaggi di stampo europeo suona come un individuale  Devo stare meglio” oppure “Dovrei essere diverso da come sono”, mentre in quelli giapponesi il senso del dovere (giri), è quello al quale si sacrificano le emozioni umane (ninjo), al fine di far trionfare l’armonia della collettività, il rispetto della famiglia, dell’impresa per cui si lavora, del clan, della patria.
Stesso è per la vergogna, correlata, nei primi, alla percezione che si ha di se stessi. La vergogna si presenta come un senso sgradevole di nudità, di trasparenza: si ha la sensazione di essere stati scoperti e di conseguenza si vorrebbe diventare invisibili, sparendo per sempre dagli sguardi altrui.
Nella cultura giapponese, vergogna (haji)  più che imbarazzo è disonore.
Come scrisse Ruth Benedict, in “Il crisantemo e la spada”, la cultura della vergogna sarebbe la pressione ad agire nello stesso modo. Per il giapponese, lo stimolo di partenza proviene dall’esterno, sicché l’autocontrollo o l’autocensura, contrariamente alla mentalità occidentale, si attivano non per fedeltà a una propria morale interiorizzata, ma per evitare il rimprovero esterno.

L’incontrarsi e lo scontrarsi dei personaggi, a Londra come in Giappone, crea sotterranee e malcelate commistioni tra queste due visioni che lacerano sia i singoli che le relazioni tra gli stessi, il tutto mentre la vicenda procede tra sparatorie, massacri, agguati e fughe vertiginose.

Allora lo scorrere degli eventi, mentre mostra il limite di karoshi “la morte per eccesso di lavoro”, ovvero la spinta all’onorare ad ogni costo impegni e scadenze, mostra anche la decadenza mortifera insita nella deresponsabilizzazione e nell’eccesso di godimento; di come tatemae / honne, l’apparenza che fa da scudo alla sostanza, possa rivelarsi una trappola soffocante tanto quanto l’occidentale mostrarsi e fare quel e come ci pare, in nome di un liberismo avido ed egoista, sia traghetto verso disperazione e dissoluzione.
Danziamo, puntata dopo puntata, tra il preconcetto nostro di cercare sempre una causalità lineare e quello asiatico di cercare invece un senso ad ogni esperienza.
Abitiamo la compostezza di kijo, il dolore riservato, persino elegante, di contro alla sguaiata esposizione senza ritegno dei sentimenti, ed intanto ci domandiamo se il primo non sia paura, fuga dall’ascolto di sé ed il secondo una spiacevole ma necessaria catarsi.

La serie non lascia certezze allo spettatore, o almeno questa è la mia impressione. Questo perché la parabola di ognuno dei personaggi è narrazione in divenire.
Se davvero la realtà è mondo intenzionato, allora l’individuazione, il percorso di ognuno, è a carico di ognuno di noi, in cui l’altro, l’ambiente, non può essere né scusa né colpa per le nostre scelte. Che si venga da una formazione tradizionale o da una che la tradizione ha dimenticato, ognuno ha da fare i conti con i sensi di colpa e le ambizioni, i progetti, che lo abitano. Ognuno ha il suo substrato inconscio, più o meno contaminato dal retaggio della storia umana, da quello che è chiamato “inconscio collettivo”.

Dal punto di vista occidentale, che per forza di cose; nascita, educazione, relazioni ecc. è il mio, per così dire, “naturale”, viene da chiedersi, questo sì abbracciando la concezione orientale, il senso di questa rapidità, che è superficialità, della comunicazione, dell’avere tutto e subito, della frenesia del consumare quand’anche senza usare, e che in fretta deragliano nel consumo usurante di noi stessi.

Guardare la e le storie qui raccontate è ripensare ai nostri atteggiamenti, al nostro fare fisicoemotivo, significa comprendere il senso di ciò che sta accadendo attorno a noi, che sia ancora latente o in bella mostra, ma che intuiamo essere trasformazione in corso della collettività  verso un futuro ancora tutto da riempire ma dai contorni acidi e maligni. Allora ognuno di noi è e sarà responsabile verso di sé come verso gli altri, responsabilità che è rispetto e cura, pazienza e gentilezze, tanto quanto fermezza e coraggio, audacia.
E’, per me, per le mie scelte, Spirito Ribelle, ovvero pratica di disubbidienza ed opposizione all’abbruttimento ed al servilismo di un presente che vuole condurci verso un prossimo futuro dominato in toto dalle leggi del profitto e della mercificazione, dell’alienazione.
D’altronde “ Niente se ne va prima di averci insegnato ciò che dobbiamo imparare” (Buddha)

Una nota di merito alla musica. Non tanto per i gradevoli brani musicali, quanto per le percussioni, i tamburi, che colpiscono e tracciano, improvvisi, lungo l’intero arco della narrazione. Semplicemente sublimi.

Giri Haji
su Netflix





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