mercoledì 24 dicembre 2014

Stille Nacht 2014


“Ti ho conosciuto dolore in una notte di inverno
una di quelle notti che assomigliano a un giorno
Ma in mezzo alle stelle invisibili e spente
io sono un uomo….e tu non sei un cazzo di niente”
 
by ldn_rdnt
E’ il regno  dell’oscurità, del buio. E’ il potere della notte. L’indaco plumbeo degli angoli in cui la poca luce geme, trepida e come terrorizzata dal buio incombente; l’antracite screziata degli spazi ormai piegati al potere dell’oscuro; il grigio che strappa spazi risicati ai corpi in movimento.
E’ il regno del silenzio, della parola mutilata, afona.
Pratichiamo Kenpo, così, silenziosi e immersi nel buio, affidandoci alle pulsioni, all’inconscio: sequela possente di suggerimenti e richiami a cui le immagini, il fantasticare, reverie, danno forme incerte, a cui gesti ed azioni danno corpo, danno sangue.
La didattica maieutica, fatta di domande, i koan zen fisicoemotivi, tutti i mezzi espressivi, creativi, sono buoni se ilfine è incontrare e ingaggiare pulsioni ed inconscio.
Immagini inconsce non oniriche, gesti rapidi e letali.
Sudore e labirinto di mani sul corpo.
Grumi di rabbia ad esplodere, armature di repressione e di arroccate difese a vacillare, a frastagliarsi in pezzi e rottami consunti. Dolore antico che riemerge, chiede ascolto, chiede una vendetta che odora di perdono.
Kenpo a combattere, a lottare, uno contro l’altro, uno sopra l’altro.
 
Poi, il saluto finale, la luce, la parola condivisa e non è detto che sia una liberazione.
Birra, vino, dolci, per il brindisi corale, questo sì allegro e spensierato, all’anno che sta per arrivare.
E il cammino, la lotta, per chi sia guerriero autentico, continua.

 “Abbiamo incontrato il Nemico. E il nemico siamo noi”
(G. Washington)



lunedì 15 dicembre 2014

I cacciatori di distruzione, ovvero riflessioni intorno al Wing Chun Boxing


Tutto quello che hai sempre voluto è dall’altro lato della paura”
( G. Addair )

Alte tempeste che inondano il ventre, lo divorano di passione ruvida e purpurea. Gomiti come pugnali sguainati.
Senza uno scopo chi saremmo ?
E quando lo scopo è ostruito da un ostacolo, la fame aumenta a dismisura e l’ostacolo null’altro è che, appunto, un ostacolo: insignificante nullità che osa frapporsi tra noi e la nostra decisione.

Le maglie nere della Scuola si tendono e si gonfiano sopra schiene lisce, animali sinuosi e feroci.
Entrano divorando la distanza, puntando quegli angoli morti che permetteranno loro di sbriciolare ogni resistenza.
Colpi, percosse, ossa e carne allo scontro.
Lo spirito del Wing Chun è tutto qui.
Maledizione dei secoli, brutale istinto di sopravvivenza, lame di incubi che si fanno corpo e respiro e sudore.

Lo so, sarebbe più semplice “costruire”, preparare allo scontro, il guerriero sfiancandolo con pesanti esercizi fisici o torturandolo con frequenti apnee. Oppure lavorandone il respiro perché, di ritmo frenetico e di ampiezza profonda, avveleni il cervello intellettuale inducendone semplici ed immediate risposte  rettiliane. Ed eccolo allora pronto a combattere.
Ma non puoi prepararti ad innamorarti, nemmeno ad incontrare la morte. Quale stolto si può illudere, ed illudere altri, di prepararsi alla distruzione totale, all’aggredire per non morire, di più, per uccidere, di più ancora, per togliere quell’insignificante ostacolo tra noi e il nostro scopo ?
E ti innamori, così, d’improvviso. Ti innamori della collega d’ufficio una settimana dopo che ti sei sposato con la ragazza che hai da dieci anni. Ti innamori della cassiera del supermercato proprio mentre tua moglie sta per mettere al mondo tuo figlio. Ti innamori, i tuoi capelli già ingrigiti dal travaglio degli anni, di quella sconosciuta che sale con te alla stessa fermata dell’autobus e neppure sai come si chiami.

Non puoi prepararti. Puoi solo fare, immediatamente fare, semplicemente stare nel tuo “qui ed ora”.
E questo è il nostro Wing Chun Boxing. Da subito cacciatori di distruzione, per un’ora sola ma, in quell’unica irripetibile ora, totalmente votati alla distruzione di quell’insignificante ed inutile ostacolo che si frappone tra te e la tua decisione.
E non importa se quell’ostacolo ha occhi che ti guardano e un respiro che è del tutto simile al tuo: essere uomo come te. Lui è l’insignificante ostacolo da abbattere, da disintegrare. Ad ogni costo.
L’essenza, il cuore, del Wing Chun è tutto qui.

Ad altri i passi a “pinocchietto”, il “giro delle mani”, le integrazioni con tecniche e faccende copiate da altre arti o altri sport. Anche quando meccanicamente corrette, che senso hanno se prive del mostro della distruzione, della violenza dell’uccisione ?
Per altro, che ne possono capire atleti da performance o lottatori da ring ? Questi fanno bene ad irridere il Wing Chun ed i suoi praticanti. Ne osservano le tecniche, la motricità e sono palpabili i limiti. Ma anche quando gesti e forme appaiano efficaci, la loro comprensione si ferma lì. Se ( se) praticassero, come loro chiesto, dentro le regole scritte e non scritte di una pratica sportiva, mai a costoro sarebbe consentito annusare il rosso della passione violenta, l’estrema brutalità dell’agire che distrugge. Dentro, nell’animo prima ancora che nel corpo. Droga cieca che ti irrora le vene.

Incerti sul destino dell’eroe, sulla riuscita delle sue opere, il mondo retto con mano d’acciaio da una divinità malvagia dalle mille sembianze, la cenere di un pensiero decadente che, dal cielo, scende ad inquinare città e campagne, la nebbia di valori incerti e sgangherati nella loro superficialità che rende l’atmosfera inquietante, un gruppo di cacciatori, di predatori, decide che se le antiche profezie erano tutte false nemmeno  possono aspettare un nuovo Godot che giunga a salvarli. Perciò decidono di agire per conto loro. Non riusciranno mai a cambiare la situazione né tantomeno il mondo. Ma nemmeno questo a loro importa.  Importa solo tornare uomini e donne guerrieri, deboli nella loro potenza. Che, forse, si sono innamorati e si innamoreranno ancora, forse ascolteranno le loro emozioni, sposteranno oggetti e forze, energie di questi oggetti ed eventi,  accresceranno i propri attributi fisico emotivi, forza e resistenza e sensi profondi, costruiranno relazioni sane, anche conflittuali e probabilmente sane proprio per questo. Consapevoli della propria immensa forza acquisita quanto dell’ineluttabilità dell’altro da sé. Portatori di doni.
E comunque, vittoriosi o sconfitti, sicuramente, vivranno.

 “Gli ostacoli sono quelle cose spaventose che vedi quando togli gli occhi dalla meta”
( H. Ford )



martedì 9 dicembre 2014

Non è più come prima


"Salmoni che risalgono?"
"Non è triste? Risalgono fin qua su per poi andare a morire. Se sono destinati a morire perché faticano tanto?"
"Loro vogliono tornare nel posto dove sono nati."

Lo so, succede sempre così. E’ come quando ti scappa da orinare e tu la trattieni senza sforzo alcuno, poi, entri in casa, e ti sembra che se non corri subito in bagno, sfondando la porta e buttando giù pantaloni e mutande con la stessa foga che useresti per salvare tuo figlio dalle grinfie di un bruto, te la farai “sotto”.
E’ così. Infatti, al secondo giorno di permanenza in quel di Bassano del Grappa, crollo come un fantoccio, dormo per ore e ore di seguito, nemmeno mangio perché il sistema nervoso, il “pilota automatico”, intravista la pausa, ha deciso STOP, basta. Uno zombie.
La sera, però, riesco ad organizzare (grazie Roberto !!) la visione di una pellicola di cui sono in caccia da tempo: Departures.

Storia di un violoncellista che, perso il lavoro, diventa una persona che di mestiere si occupa di comporre i morti, quello che comunemente è definito “tanato esteta”, un film del 2008, regista Yojiro Takita.
Pellicola struggente, delicata, commovente. Probabilmente solo un asiatico, in particolare un giapponese, poteva dedicare, e in questo modo, un film al tema della morte. Noi occidentali siamo più grossolani sul tema, più portati ad evitarlo nel suo spessore profondo o a squalificarlo per farne una merce o un oggetto di spettacolarizzazione mediocre e banale, laddove Heidegger e le sue dissertazioni sono patrimonio di pochi.
Eppure, nello stesso Giappone, la figura del tanato esteta è avversata dai più. Probabile retaggio del concetto scintoista di Kegare ( traducibile con sporcizia, profanazione), una sorta di condizione di impurità determinata dal contatto con situazioni spiacevoli.

Dunque un film da leggere, per me, attraverso diverse lenti.

Quella di  infrangere il silenzio sulla convenzione sociale più radicata e sacra, ovvero non parlare dei morti, arrivando a mettere in scena la morte stessa. Autentico pugno in faccia per una società, la nostra, in cui la morte è talmente quotidiana e spettacolizzata e data in pasto ai media, da sembrare banale, soprattutto se riferita ad altri e non a noi. Per non parlare dei videogiochi “sparatutto” lasciati in mano ai nostri figli, ai quali passiamo l’idea che sangue e morte e sbudellamenti siano solo finzioni, di più, istigandoli a prevalere sull’amichetto nel collezionare pedoni da investire o persone da squartare o maciullare con seghe elettriche, bombe a mano e coltellacci. Quegli stessi bambini che non hanno lo stomaco per reggere una lieve ferita sul loro corpo o la vista di un coniglio spellato !!!

C’è questo filo che unisce l’arte, manuale e “spirituale”, del suonare uno strumento e l’arte lieve, precisa e raffinata, di comporre i morti. Come a dire che l’Arte, l’essere artista, si manifesta ovunque ci sia un interprete all’altezza, altezza emotiva e sentimentale prima ancora che tecnica.

C’è il processo di elaborazione della morte del padre, il quale aveva abbandonato il protagonista quando lui era piccolo e che si rivela nella ricomposizione finale del corpo del padre morto. Sorta di ricongiunzione e riconciliazione, quanto di ammissione della debolezza umana, come testimonia l’intreccio di storie minori anche loro intessute di abbandoni traumatici.

C’è questo legame rappresentato dal dono reciproco di un sasso; leggenda, favola che il padre gli ha narrato in tenera età e che rimanda ai segnali muti, alle presenze forti anche quando è l’assenza, l’allontanamento, a regnare nelle relazioni. Perché basta un segno, un simbolo, a tenere vivi i sentimenti veri ed autentici, a reggere lo scorrere degli anni, le fughe e le perdite di senso, financo i silenzi e le sparizioni.

C’è la mediocrità di una donna, la moglie, che non regge la squalificazione sociale del lavoro del marito e lo abbandona. Salvo poi tornare una volta che si accorge di essere incinta, ma pur sempre per comandare al marito di lasciare il suo lavoro. Ci vorranno alcune scene toccanti ed intense del film, ci vorrà il senso estetico e la profonda arte di Daigo, il protagonista, per farla ricredere. Plateale esempio della mediocrità dell’animo umano; di come sia cosi difficile, anche in una relazione di coppia, dunque d’amore, praticare se non l’arte del dono, almeno il fare “un passo in disparte” per il bene dell’altro, per il bene della coppia.

Soprattutto, per quanto mi riguarda, c’è un’ora e mezza di infinita poesia.

Ah, per i più esigenti, la lavorazione del film è durata una decina d’anni,  quelli necessari all’attore protagonista per imparare a suonare il violoncello e per imparare il mestiere del tanato esteta.
Poi c’è qualche attore che si vanta di essere andato in palestra o di essere stato a dieta qualche mese per interpretare un film. Ma dai !!

 "Grazie di tutto. Ti raggiungerò!"