martedì 9 dicembre 2014

Non è più come prima


"Salmoni che risalgono?"
"Non è triste? Risalgono fin qua su per poi andare a morire. Se sono destinati a morire perché faticano tanto?"
"Loro vogliono tornare nel posto dove sono nati."

Lo so, succede sempre così. E’ come quando ti scappa da orinare e tu la trattieni senza sforzo alcuno, poi, entri in casa, e ti sembra che se non corri subito in bagno, sfondando la porta e buttando giù pantaloni e mutande con la stessa foga che useresti per salvare tuo figlio dalle grinfie di un bruto, te la farai “sotto”.
E’ così. Infatti, al secondo giorno di permanenza in quel di Bassano del Grappa, crollo come un fantoccio, dormo per ore e ore di seguito, nemmeno mangio perché il sistema nervoso, il “pilota automatico”, intravista la pausa, ha deciso STOP, basta. Uno zombie.
La sera, però, riesco ad organizzare (grazie Roberto !!) la visione di una pellicola di cui sono in caccia da tempo: Departures.

Storia di un violoncellista che, perso il lavoro, diventa una persona che di mestiere si occupa di comporre i morti, quello che comunemente è definito “tanato esteta”, un film del 2008, regista Yojiro Takita.
Pellicola struggente, delicata, commovente. Probabilmente solo un asiatico, in particolare un giapponese, poteva dedicare, e in questo modo, un film al tema della morte. Noi occidentali siamo più grossolani sul tema, più portati ad evitarlo nel suo spessore profondo o a squalificarlo per farne una merce o un oggetto di spettacolarizzazione mediocre e banale, laddove Heidegger e le sue dissertazioni sono patrimonio di pochi.
Eppure, nello stesso Giappone, la figura del tanato esteta è avversata dai più. Probabile retaggio del concetto scintoista di Kegare ( traducibile con sporcizia, profanazione), una sorta di condizione di impurità determinata dal contatto con situazioni spiacevoli.

Dunque un film da leggere, per me, attraverso diverse lenti.

Quella di  infrangere il silenzio sulla convenzione sociale più radicata e sacra, ovvero non parlare dei morti, arrivando a mettere in scena la morte stessa. Autentico pugno in faccia per una società, la nostra, in cui la morte è talmente quotidiana e spettacolizzata e data in pasto ai media, da sembrare banale, soprattutto se riferita ad altri e non a noi. Per non parlare dei videogiochi “sparatutto” lasciati in mano ai nostri figli, ai quali passiamo l’idea che sangue e morte e sbudellamenti siano solo finzioni, di più, istigandoli a prevalere sull’amichetto nel collezionare pedoni da investire o persone da squartare o maciullare con seghe elettriche, bombe a mano e coltellacci. Quegli stessi bambini che non hanno lo stomaco per reggere una lieve ferita sul loro corpo o la vista di un coniglio spellato !!!

C’è questo filo che unisce l’arte, manuale e “spirituale”, del suonare uno strumento e l’arte lieve, precisa e raffinata, di comporre i morti. Come a dire che l’Arte, l’essere artista, si manifesta ovunque ci sia un interprete all’altezza, altezza emotiva e sentimentale prima ancora che tecnica.

C’è il processo di elaborazione della morte del padre, il quale aveva abbandonato il protagonista quando lui era piccolo e che si rivela nella ricomposizione finale del corpo del padre morto. Sorta di ricongiunzione e riconciliazione, quanto di ammissione della debolezza umana, come testimonia l’intreccio di storie minori anche loro intessute di abbandoni traumatici.

C’è questo legame rappresentato dal dono reciproco di un sasso; leggenda, favola che il padre gli ha narrato in tenera età e che rimanda ai segnali muti, alle presenze forti anche quando è l’assenza, l’allontanamento, a regnare nelle relazioni. Perché basta un segno, un simbolo, a tenere vivi i sentimenti veri ed autentici, a reggere lo scorrere degli anni, le fughe e le perdite di senso, financo i silenzi e le sparizioni.

C’è la mediocrità di una donna, la moglie, che non regge la squalificazione sociale del lavoro del marito e lo abbandona. Salvo poi tornare una volta che si accorge di essere incinta, ma pur sempre per comandare al marito di lasciare il suo lavoro. Ci vorranno alcune scene toccanti ed intense del film, ci vorrà il senso estetico e la profonda arte di Daigo, il protagonista, per farla ricredere. Plateale esempio della mediocrità dell’animo umano; di come sia cosi difficile, anche in una relazione di coppia, dunque d’amore, praticare se non l’arte del dono, almeno il fare “un passo in disparte” per il bene dell’altro, per il bene della coppia.

Soprattutto, per quanto mi riguarda, c’è un’ora e mezza di infinita poesia.

Ah, per i più esigenti, la lavorazione del film è durata una decina d’anni,  quelli necessari all’attore protagonista per imparare a suonare il violoncello e per imparare il mestiere del tanato esteta.
Poi c’è qualche attore che si vanta di essere andato in palestra o di essere stato a dieta qualche mese per interpretare un film. Ma dai !!

 "Grazie di tutto. Ti raggiungerò!"

 

2 commenti:

  1. Film visto anni fa che non ricordo bene nei minimi particolari. Effettivamente dotato di poesia e sentimentalismo,su un tema di cui si fa difficoltà a parlare. È toccante, e quello che mi ha incantato nel film (ma non solo quello), è stato il sistemare i morti, con delicatezza e quasi con giochi di prestigio nei movimenti durante la vestizione. E la scena che mi ha colpito parecchio è stata quella del transessuale...
    Comunque a chi ama la poesia e film dall'Oriente, consiglio di vedere i film di Kim Ki Duk.
    Ps: per il discorso degli attori a dieta, poi ne riparliamo. Soprattutto di Matthew McCoughaney in Dallas Buyers Club ;-)

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  2. Grazie a coloro che sono intervenuti sino ad ora. Peccato che, avendolo fatto utilizzando la mia mail privata, abbiano privato tutti gli altri del loro contributo.
    Dunque, un grazie di cuore a chendichendi che, invece, ha utilizzato il blog.
    Attendo, qui, altri commenti, perché la riflessione si allarghi.
    In merito alle dieta di Matthew McCoughaney e di tutti gli altri che l’hanno fatta prima e dopo di lui per interpretare un personaggio, i miei complimenti anche a loro.
    Tuttavia, mi permetto di dubitare che una produzione U.S.A. avrebbe aspettato dieci anni fino a che l’attore avesse imparato a suonare il violoncello e pure a comporre i defunti: meglio simulare l’atto del suonare e riprendere con le angolature adeguate un “sosia” già professionista nel comporre i morti. Così, senza avere la sfera di cristallo e dunque so di azzardare, dubito che un attore yankee avrebbe dedicato, in dieci anni, parte del suo tempo per imparare il violoncello e a tramestare con i cadaveri.
    Una bella differenza con qualsiasi pur estenuante dieta !!
    Questione di cultura, certamente. E non mi permetto di sostenere che l’una sia meglio dell’altra.
    Personalmente, massimo rispetto per chiunque si dedichi con passione e sacrificio al suo lavoro ma… noto una bella e corposa differenza !!

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