martedì 28 gennaio 2020

Mai smettere di studiare e sperimentarsi di corpo




Nel mio personale percorso di studio e pratica corporea, volto a migliorare me stesso come ad offrire ai clienti di Body Counseling ed agli allievi dei corsi di Arti Marziali una visione davvero completa e profonda delle enormi possibilità che il corpo ci consente, sto praticando
Body- Mind Centering.

Il Body-Mind Centering (BMC) è un approccio integrato all’analisi e alla rieducazione del movimento somatico:
attraverso  il movimento noi facciamo esperienza della mente e del corpo
e abbiamo una chiara percezione di noi stessi,
accrescendo  la consapevolezza e l’efficienza con cui operiamo nel mondo.

Questo è l’assunto che permea ogni mia pratica e ricerca, ed è lo stesso anche del BMC.

Negli ultimi seminari fatti, ho affrontato il sistema fasciale, il tessuto connettivo.
La fascia è una rete elastica, un mondo liquido che si muove, si rigenera , si addensa in continuazione.
Come l’acqua, essa tende a conservare la sfericità nelle sue circolazioni, si muove in superfici ritorte che si intersecano e traggono origine dalle molteplici formazioni di anse e sinuosità: un movimento fluente a forma elicoidale.
Essa collega alcune strutture, mentre consente ad altre di scivolare una sull’altra. Le fasce sono dunque strutture flessibili capaci di resistere a grandi forze di tensione e di trasmettere in tutto il corpo la tensione meccanica generata dalle attività muscolari o anche da forze esterne.
Nei momenti di addensamento, ovvero i legamenti, questi tengono insieme le ossa, dando loro i limiti entro cui può accadere il movimento. Coordinano e indirizzano le risposte muscolari, facendo da guida al percorso del movimento attraverso le ossa, assicurando così la precisione, la pulizia e l’efficienza necessarie all’allineamento e al movimento delle ossa stesse. Quando tutti i legamenti di un’articolazione sono impegnati, il movimento di quell’articolazione raggiunge un alto livello di accuratezza e può essere trasferito in totale distensione alle successive articolazioni.
Nella Medicina Tradizionale Cinese, la fascia è considerata come il “letto fluviale grazie al quale i meridiani trasportano il Qi” (il che non cozza con la visione anatomica “allopatica”).

Dunque, comprendere e migliorare lo stato della nostra fascia elastica, ci aiuta:
Ø  ad avviare il movimento a partire dai legamenti;
Ø  ad agevolare nei legamenti la libertà di movimento, la resilienza, la forza e l’integrazione, utilizzando il tocco e la riorganizzazione dei pattern neurocellulari di base, che sono la sintassi del linguaggio del movimento. Essi, infatti, sono le fondamenta per lo sviluppo di tutte le relazioni percettive, comprese quelle relative all’immagine corporea e all’orientamento spaziale, e per l’apprendimento e la comunicazione;
Ø  ad affrancare i legamenti dalle tensioni dei tessuti circostanti;
Ø  ad integrare i legamenti rispetto ai corrispondenti piani fasciali.

Se, come io faccio da vent’anni, interpretiamo il nostro corpo non come una struttura rigida ma come una tensostruttura, una sorta di “tenda da campeggio” in cui giocano un ruolo chiave il terreno su cui poggia e l’equilibrio delle tensioni di tutti i tiranti, scopriamo l’importanza di quella che è chiamata tensegrità.
Essa si può definire come la capacità di un sistema di stabilizzarsi meccanicamente tramite forze di tensione e di decompressione che si ripartiscono e si equilibrano fra loro.
Come io pratico e propongo ogni sorta di movimento, sia esso finalizzato ad un intervento fisicoemozionale di cura di sé o di difesa da un aggressore, esso si sostanzia di:
ü  relativo impegno dei muscoli superficiali di contro ad un grande coinvolgimento dei muscoli profondi e di legamenti e tendini;
ü  ampio coinvolgimento della fascia come elemento di interconnessione fra le varie parti della struttura corporea.

Così, risulta semplice comprendere, a titolo di esempio, in che modo una forza che tenda ad investirci (sia essa la spinta di un avversario come di un evento relazionale che ci turbi quale una delusione sentimentale, un insuccesso scolastico o lavorativo, un momento di depressione) possa essere assorbita attraverso il radicamento e il rilasciamento per essere poi restituita /allontanata elasticamente sfruttando proprio il principio di tensegrità, quel meccanismo di “compressione/tensione elastica” nel quale la fascia ricopre un ruolo fondamentale.

L’armonia non è quiete,
è l’arte nobile del
trarre forza dall’altro









venerdì 24 gennaio 2020

Sorry we missed you




«Sorry we missed you» è quanto sta scritto sull'avviso che i corrieri che consegnano le merci a domicilio lasciano quando non trovano i clienti. Ma, in un’altra lettura, potrebbe essere anche il leitmotiv (“ci sei mancato”) che campeggia nella crisi familiare del protagonista di questa dura e spietata pellicola di Ken Loach.

Anni addietro, su questo blog, recensii un altro intenso film di Loach: “Dalla parte degli angeli”.

Ora tocca a
Sorry we missed you
Pellicola dedicata al nuovo sfruttamento, alle nuove disumane condizioni di lavoro, al mito di riuscire  a farcela da soli, allo sfaldamento della famiglia di fronte alle necessità economiche.

Questo è un film che non ha nulla di commovente, di sentimentale.
Questo è un film crudo, un autentico pugno nello stomaco davanti alla disperazione ed alla perdita di sé di “personaggi” che sono gli stessi  che incontriamo tutti i giorni della nostra vita. E che, poco o tanto, potrebbero essere noi.

Con un passato sessantottino, di impegno politico che poi, per altri anni, si fece sindacale; con un impegno, durato trenta anni, a costruire una “Scuola”, un collettivo in cui condividere crescita personale e progetti, vedere questo film è stato difficile. E’ stato riesumare molteplici fallimenti, di contro a qualche incerto successo; è stato ammettere che le cose attorno a me, nella società, hanno preso una direzione di prevaricazione e menefreghismo, di egoismo e malaffare diffuso.
Davvero oggi lo sforzo principale, anche in una società che si definisce opulenta come quella occidentale, è quello di sopravvivere economicamente per non finire ai margini, o peggio in mezzo ad una strada?
Davvero non esiste più alcun afflato, alcun momento di confronto e impegno collettivo per cambiare le storture di questo vivere capitalistico e consumistico?

Pare proprio di sì, se il padre di famiglia sceglie lo scontro con i figli, sceglie di mettere a serio repentaglio la propria salute, pur di lavorare e lavorare e lavorare.
Pare proprio di sì se mai, anche di sfuggita, anche solo sullo sfondo, compaiono, che so, un corteo sindacale, una manifestazione di piazza; se mai, in tutto lo snodarsi della trama, qualcuno si schiera a difesa di qualcun altro.

E queste tensioni Loach bene le mostra, aiutato dal modo tipicamente britannico di relegare in un angolo la musica: è solo la qualità, l’intensità delle immagini e dei dialoghi, a risaltare, a tenere lo spettatore incollato allo schermo.

A Loach non interessa né spiegare come funziona questo brutale sistema di sfruttamento: bastano poche frasi del “capo” del protagonista a spiegarcelo, né indicare una via d’uscita: quale, se si resta nell’alveo del capitalismo?
A Loach, in linea con i mutamenti sociali, non interessa parlare di classe operaia: e dove sta più?  Piuttosto ci mostra  quel nuovo proletariato e sotto-proletariato (1) fatto di precari che non hanno (e come potrebbero?) nemmeno “la coscienza di classe” perché non appartengono a nessuna categoria predefinita, che lottano gli uni contro gli altri in una gara per non affogare prima ancora che per emergere.

Loach è un vero “duro”, un regista che mostra e ci mette tutti davanti ad una realtà brutale a cui nessuno sfugge.
Nemmeno io che acquisto su Amazon, perché, come ci ricorda ancora una volta il “capo” del protagonista, al cliente interessa solo il prodotto, il costo e la consegna tempestiva.
Nemmeno io che faccio a volte la spesa di Domenica, sfruttando il “sempre aperto” dei supermercati.

A me resta il doloroso pensiero che solo cambiando gli uomini, il loro pensare ed agire, questa società potrà uscire dal mefitico pozzo in cui è precipitata.
Ma sarà mai possibile presi come siamo da un vortice di “consumo senza uso”, di prevaricazioni di ogni tipo che toccano i potenti come gli sconosciuti, di smania di apparire?

Film duro, schietto, assolutamente da vedere.
E chi, rimproverando a Laoch le sue simpatie per il leader politico antisemita Corbyn, sminuisce la qualità di questa sua ultima opera, non fa altro che confondere l’opera col suo autore e, forse, si dimostra tanto superficiale da vedere di Corbyn solo l’aspetto più eclatante e non il messaggio sociale che lo animava e che è stato sconfitto. Appunto.



1. Già Anton Pannekoek  (1873 – 1960) scriveva: “”Questi  sfruttati sono convinti di lavorare per se stessi; per questo si spremono fino allo stremo delle forze e si accontentano del modo di vita più miserabile. Vivono molto peggio degli operai dell’industria e la loro giornata lavorativa è molto più lunga” Un secolo dopo, non sono più piccoli borghesi in caduta libera o contadini, ma i nuovi schiavi delle consegne, dei contratti precari.





mercoledì 8 gennaio 2020

Di un sé corpo tanto reale solo a saperlo immaginare




“L’immaginazione è la regina del vero e il possibile è una delle province della verità”
(C. Baudelaire)

La visibilità è la fantasia nella sua sostanza, ma soprattutto essa raffigura la virtù dell’immaginazione, ciò che fa visibile l’invisibile.

Certo, noi siamo corpo, noi abitiamo il nostro corpo.
Infatti, per cercarne  i significati, ci confrontiamo con un vissuto instabile che dà conto dell’osservatore e della sua disponibilità a capire le condizioni con cui ci mettiamo all’ascolto. (1)
Ma il nostro stesso corpo è abitato: ossa, muscoli, sangue, fascia, organi… indicano una vita interna che non si esplicita solo nella semplice fisiologia, quanto piuttosto che crea trame e risonanze nella nostra esperienza emozionale, affettiva, psichica.

In questo, la percezione (2), ovvero il modo in cui distilliamo, interpretiamo, accogliamo o rifiutiamo le informazioni, fuori e dentro di noi, è una esperienza globale.
E', cioè, un andamento fisicoemotivo di traduzione delle informazioni che si costruisce sulle esperienze passate, sulle condizioni presenti e sulle aspettative a venire.
Una traduzione tanto più completa e suggestiva, quanto più si affidi a reverie: La capacità di ricevere e rimandare, trasfigurare, le impressioni emotive e sensoriali di ciò che abita dentro e attorno a noi.

Ecco, qui allo Spirito Ribelle, il mio, il nostro, praticare di corpo e movimento, di combattimento a mani nude o armati, come ponte variabile tra caos e messa in forma, come incontro tra  quiete e moto a dare origine al vortice, come quel vibrare che ci permette di saper stare nei conflitti come individui consapevoli ed autodiretti, mai passivi.


1. Questo, su un piano simile, è altrettanto vero nella ricerca scientifica, nel mondo scientifico.
Alla faccia di scientisti e fanatici “talebani” di ogni affermazione scientifica assurta a Verità assoluta… “dopo Bohr e Einstein, tutti abbiamo dovuto ammettere che ogni descrizione include sempre il descrittore”.
Ecco affermata l’impossibilità per l’uomo di vivere e di giudicare “oggettivamente” un sistema nel quale vive e che modifica già con il semplice fatto di esserci.
Meccanici della ginnastica e della pratica sportiva, eccovi serviti!!

2. “L’idea centrale è che la percezione sia un processo di inferenza attiva orientata all’interazione adattiva con il mondo tramite il corpo, invece che  una ricreazione del mondo dentro la mente
((    (Seth A. “Il creatore della realtà” in “le Scienze” Novembre 2019)




martedì 7 gennaio 2020

Esotismo è…



Che ci fa un italiano a praticare Arti che sono proprie dell’Oriente? Arti che odorano di esotismo?
Esotismo, dal greco exo (fuori): quel gusto, quella passione che spinge verso culture, abitudini, costumi, “estranei” al nostro quotidiano.(1)

Un gusto, una passione che, con un pensare razionale, trova la sua giustificazione nell’essersi mantenuta ben più a lungo che da noi in quei paesi, in quel mondo, la Tradizione, la pratica, del combattere a mani nude, del combattere con armi bianche e simili. (2)
Un combattere “occhi negli occhi” che da noi, complice la rapida evoluzione e diffusione delle armi da fuoco, ha avuto vita breve e poco si è conservato nei secoli.

Ma, tuffo nel cuore, un gusto, una passione che si innerva e cresce con la capacità tutta orientale di immaginare oltre la realtà, di fantasticare su di essa, dando nomi improbabili, persino impossibili, a giochi ed esercizi e tattiche e strategie: “camicia” di ferro”, “spire del cobra”, “bufalo d’acqua”, “coda del dragone bianco” “solcare il mare senza che il cielo se ne accorga”, ecc. (3)

Lo scriveva già il grande Italo Calvino: “Nella forma che il caso e il vento danno alle nuvole, l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante”.
Un uomo antico, intriso di Tradizioni mai del tutto sopite, che si affaccia, curioso sempre, sulla Natura e le sue manifestazioni.
Un uomo che sa restare bambino, naso all’insù, a leggere di mostri e volti e avventure disegnate nel cielo da nuvole bizzarre o in acqua da correnti improvvise.

Come mi piace praticare queste antiche Arti che il continente asiatico copiosamente ci dona!!

“Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie  mani alla guerra e
prepara le mie dita alla battaglia”
(Salmo 143)


1. Resta inteso, come più volte scrissi, che nessun modello ha valore descrittivo generale e metacontestuale. Ogni modello, perciò, è culturalmente determinato: ha senso solo all’interno delle condizioni (antropologiche, culturali, sociologiche, ecc.) in cui è nato, in riferimento ai bisogni ed alle aspettative della comunità che gli ha dato forma e vita.
Infatti, nella pratica di queste Arti d’Oriente, come io le propongo, non si scimmiotta alcun modello teorico né tecnico; non ci si illude di essere samurai o monaci Shaolin!!
Piuttosto, si gioca a incarnare ogni sorta di immagine archetipica, universale, potentemente evocatrice di qualcosa per il combattente, il predatore; a compiere attività antiche con profonda valenza simbolica (raccogliere, seminare, tagliare, forgiare, accendere un fuoco, ecc) o gesti fondamentali (offrire, accettare, aprire, chiudere, ecc).
I simboli religiosi dello sciamanismo, qui sono sostituiti da simboli artistici.
 
2. L’introduzione delle armi da fuoco, in Giappone, avvenne tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo.
Il primo contatto dei Giapponesi con le armi da fuoco ebbe luogo nel 1543, quando tre avventurieri portoghesi giunsero sull’isola di Tanegashima ed impressionarono il signore del luogo abbattendo delle anatre coi loro moschetti.
Qui basti sapere che le prime cronache a riportare di armi da fuoco in Italia, più precisamente a Perugia citando lo schioppo, risalgono al 1364, praticamente due secoli prima!!.
Entro un anno, gli armaioli di Tanegashima furono in grado di riprodurre alla perfezione i moschetti portoghesi, mentre altri studiosi sostengono che gli armaioli di Tanegashima non riuscirono a replicare lo scodellino, la parte dell’arma in cui la polvere da sparo entra in contatto con la miccia accesa, generando così lo scoppio che lancia il proiettile fuori dalla canna dell’arma e dovettero attendere l’anno successivo, quando i portoghesi tornarono sull’isola con un loro armaiolo da mettere al servizio del feudatario.
Questa novità ebbe una entusiastica diffusione e, secondo alcuni, un’evoluzione tecnica addirittura superiore ai  corrispettivi europei, salvo venire poi pressoché abbandonata per oltre due secoli in favore del ritorno all’arte di combattimento tradizionale. Il Giappone tornerà alla polvere da sparo, e su larga scala, solo dopo l’arrivo della flotta statunitense dell’ammiraglio Perry nella baia di Tokyo (1853).

3. La Psicoterapia Breve Strategia (G. Nardone) utilizza, a scopo terapeutico, tutta una serie di stratagemmi che si rifanno all’arte della guerra dell’antica Cina conservandone i nomi, anche fantasiosi, proprio per le loro capacità evocative.







sabato 4 gennaio 2020

Martin Eden



 Struggente ed intensa pellicola ( regia di Pietro Marcello e interpretazione intensa di Luca Marinelli), traspone il Martin Eden di Jack London nella Napoli del ventennio: operazione riuscita alla perfezione.

Diciamo subito che, in realtà, il presunto primo ventennio del ‘900 è attraversato da incursioni  che lo stravolgono, laddove la famiglia Orsini sembra vivere nell’Ottocento più edulcorato, mentre la famiglia di Eden pare schiacciata in un dopoguerra da anni quaranta.

La trasposizione vede Martin Eden, ingenuo e spavaldo insieme, affogare lentamente e dolorosamente nella acre contraddizione dei tempi nostri tra un anelito alla scalata sociale e il distacco, che è perdita dolorosa in odore di tradimento, dalla classe di appartenenza.
Conquistati cultura e successo, denaro e popolarità, Martin Eden si ritrova privo di una identità consapevole, abbandonandosi a gesti autodistruttivi, ad una indifferenza tormentata in cui il passato non gli appartiene più ma nemmeno sa riconoscersi nel presente.

Sprezzante e violento, i suoi tratti anarchici ed individualisti, che si mostrano in tutto lo scorrere del film in opposizione alle teorie socialiste come in opposizione ad un presunto liberalismo che anticipa le distorsioni e le ingiustizie di un capitalismo monopolistico marcescente, si rifanno, anche in modo disordinato, alle teorie di Herbert Spencer. Questi, un intellettuale inglese dei primi dell’800 a sua volta influenzato dalle teorie di Malthus, nonché strenuo difensore del liberalismo totale,  arriva a ipotizzare che lo Stato non deve assolutamente intervenire con criteri di solidarietà o di agevolazioni,  perché altrimenti  impedisce che maturino le forme di selezione naturale necessarie alla sopravvivenza della società stessa.

Eden fa proprie, a suo modo, queste teorie investendole in un anarchismo individualista sfrenato, avverso al sapere accademico e al nuovo che lo circonda, quanto del tutto incapace di trovare, nella vita privata come in quella pubblica, un percorso di autentica individuazione antagonista o alternativa da offrire a se stesso come alla collettività.

Un intellettuale per niente organico; un “maledetto” autolesionista come altri scrittori e poeti; ma anche, riflettendo ai giorni nostri ed allo sfrenato bisogno di successo, un uomo che si è sacrificato sull’altare dell’industria culturale fino a perdere il senso di sé; e pure un monito verso quanti, famosi o non famosi, una volta raggiunto il successo, grande o piccolo che sia, non riuscendo a reggerne il peso psicologico, si sono alienati, persino suicidati, materialmente o meno: quel subdolo mal di vivere che non risparmia nessuno, nemmeno chi sembra ne sia protetto da una condizione sociale di superiorità e riconoscimento collettivo.

La pellicola, tra le tante chiavi di lettura possibili, ci narra di un uomo che crede solo nel proprio essere individuo perennemente  contro una società ingiusta; che crede di trovare una strada salvifica nell’amore (verso una giovinetta della società alta) e nella cultura (alta); che finisce per affondare malamente scoprendo la falsità delle sue illusioni e delle sue idealizzazioni, l’impossibilità a tornare alle sue radici, fino a darsi la morte.