martedì 18 aprile 2017

… se la strada è libera …



Se la strada è libera, avanza”, sarà stata una lettura appiattita di questo motto (per altro tradotto in un italiano per ignoranti) ad aver imbrigliato la pratica Wing Chun, sarà la sua estensione ad indurre a credere che il praticante WCB vada sempre avanti e sempre diritto, sarà il banale e insieme sciagurato “Una linea retta è la distanza più breve tra due punti”, sarà appunto tutto ciò ad aver condizionato la pratica Wing Chun.
Condizionato fino a farne un teatrino di gesti meccanici, “scattosi”, di geometrie spigolose, di gomiti innaturalmente stretti stretti ai fianchi, di posizioni fisiologicamente scorrette, di una totale assenza di fluidità, di praticanti dalle braccia gonfie di muscoli e dediti al potenziamento muscolare come di esangui fanciulle convinte di primeggiare su ogni aggressore grazie alle micidiali tecniche del Wing Chun.

Sarà, ancor più io credo, che la nostra cultura “occidentale” è costruita sulle separazioni e sull’antagonismo, e la “forma mentis” che ne ricaviamo ci induce verso percorsi “lineari” basati sull’affermazione del nostro ego, quali che siano frizioni ed ostacoli che ne derivano. Così, sono i movimenti rettilinei quelli a cui ci affidiamo.  Secoli di “men sana in corpore sano”, di Illuminismo (con la sua ipertrofica supremazia della ragione) ci portano a privilegiare l’autonomia, la separatezza, di ogni parte del nostro corpo, affidando soltanto ai suoi muscoli, di più, ai muscoli visibili, quelli cosiddetti superficiali, il compito di attivarne i movimenti. Così abbiamo scordato l’armonia e la coordinazione dei movimenti del corpo che hanno segnato la nostra prima infanzia e diveniamo dei manichini. Così abbiamo perso ogni traccia consapevole dell’animale che c’era (c’è?) in noi e da cui tutti proveniamo. (1)

Invece, la cultura, la Weltanschauung, orientale, è tradizionalmente fondata sulla interpretazione e sulla comprensione, sull’inclusione taoista più che sulla separazione. Il corpo è quello che noi chiamiamo fisicoemotivo”, strettamente correlato all’ambiente ed alla realtà esterna in genere.
Particolare rilevanza è data alla capacità di adattarsi e convivere con tutto ciò che noi non siamo in grado di comandare, di controllare, che muta anche indipendentemente da noi. Per permettere la nostra naturale esigenza di continuità nel tempo, essa ci induce a comportamenti ciclici e scevri di spigolosità e che nelle forme circolari hanno una loro espressione immediata ed istintiva. (2)
Il nostro stesso scheletro e il funzionamento delle articolazioni dovrebbero indurci a considerare ogni nostro gesto come impossibilitato a disegnare traiettorie lineari.

Poi, i movimenti circolari consentono sia di essere costantemente consapevoli di quel e come stiamo agendo, sia di mutare rapidamente il gesto stesso, contrariamente alle pause, alle interruzioni, necessarie a cambiare traiettoria in un gesto lineare.
Infatti,
- la quantità di moto necessaria a mutare direzione in un movimento lineare è molto più alta che per modificare un movimento ad arco, con, in quest’ultimo, una perdita di energia risibile;
- cambiare direzione, su un tragitto lineare, per andare sulla dx o sulla sx, richiede un angolo acuto, il che è ben più lento e dispendioso che lungo un tragitto ad arco.
- la maggiore rapidità di un intervento lungo un arco, fa il paio con una maggiore agilità. Agilità è definita “scioltezza e leggerezza nei movimenti del corpo” e “In fisica e nella tecnica, capacità di un sistema di variare facilmente uno o più dei suoi parametri operativi”. Utilizzando movimenti circolari, ad arco, spiroidali, cambiamo direzione dei colpi molto più facilmente, più agilmente.
- muoversi in modo circolare, privo di angoli, comporta gesti, azioni, che mutano direzione stando continuamente collegati tra di loro, dove lo scemare dell’uno è l’inizio dell’altro, rendendo ancor più ardua, per un avversario, l’identificazione delle possibili traiettorie.

La stessa rotazione sul posto presente in molti “stili” di Wing Chun, è invece eseguita in modo meccanico, bloccato, come se il corpo fosse una porta che ruota sui cardini. Ovvero un elemento fisso che, blocco unico, ruota su altri elementi fissi, blocchi unici.
Invece, arco, curva, cerchio, spirale, sono un’armonia di azioni in cui busto, bacino, braccia, mani, gambe, piedi, si muovono non nello stesso senso e con la stessa ampiezza. Noi corpo non siamo una casa di mattoni, piuttosto una tensostruttura. Quante volte abbiamo sentito ripetere nel mondo Wing Chun l’affermazione “I movimenti devono essere fluidi” ?!?! Potrà mai una porta, una casa in mattoni, essere fluida?

Il mio incontro con un WC flessibile ed armonioso avvenne in un seminterrato al quartiere cinese di Milano. Là, un docente tedesco, con ampie conoscenze di “metodo Feldenkrais”, in tenuta del tutto informale e cappellino in testa, mi introdusse nel cuore pulsante di un’Arte fino ad allora da me praticata e conosciuta con una rigidità ferrea, tra l’altro del tutto lontana da quell’aurea di flessibilità e cedevolezza di cui veniva ovunque ammantata.
Purtroppo, ancora troppo incredulo io e del tutto estranea quella pratica a quanto imperava, di rigido e “fisso” non solo nel mondo Wing Chun ma in tutto il mondo marziale, quell’esperienza finì rapidamente: il docente scomparso, il locale chiuso.
Più tardi, la visione di alcuni filmati, direttamente provenienti dalla Cina, mi mostrarono un Wing Chun con i pugni portati come naturale estensione della loro altrettanto naturale posizione a “riposo” (niente pugni in “verticale”, insomma!!), mi mostrarono movimenti armoniosi, senza strappi.
Semplice, da lì, forte anche degli studi e delle pratiche corporee e marziali di quegli anni, arrivare al nostro Wing Chun Boxing ove l’istinto animalesco viene alla luce, la nostra psiche educata o intenzionale si limita a sentire il movimento spontaneo dettato dalle risposte combattive, predatorie, di quell’istinto.

 Da un’estrema morbidezza risulta una grande potenza. Da un’estrema naturalezza nei movimenti risulta l’agilità”, così recita un motto del Wing Chun. Poi, però, bisogna saperlo attuare ….

 

 

 

1. Prime pratiche, prime voci fuori dal coro, si cominciano a sentire, ormai da decenni. La progressione a spirale del sapere in cibernetica; il coaching sistemico a carattere circolare, che tanta presa ha tra i manager di cultura anglosassone e, prima o poi, sbarcherà anche in Italia.
Nel campo del corpo e del movimento, la “Danza Sensibile” di Claude Coldy e l’intramontabile ed eccelso “metodo Feldenkrais”.  
Nelle Arti Marziali, che dovrebbero essere la culla dell’animalità, della flessuosità felina, dell’istintualità e che invece sono schiave di un’anatomia meccanica e non sapienziale, esperienziale, di una ginnastica dell’obbedienza, di una fisiologia arida e schematica che pare non sapere nulla dei suoi progressi (eppure Xavier Bichat e le sue “funzioni della vita di relazione” datano 1.800 e dintorni !!) alcune voci “cantano” fuori dal coro.
Ancora troppo poco, dentro l’assordante coro di cigliosi docenti impettiti e saccenti o di profeti dell’allenamento, della “periodizzazione”, del corpo “macchina”: “In un universo cognitivo in espansione, il mondo lineare classico esplorato da Aristotele (il modo lineare della causa collegata ad un effetto) cede il passo a un universo a spirale più sottile dove tutte le parti si rapportano in molte dimensioni. E’ l’universo di Einstein, della fisica moderna. E’ il mondo della biologia e della fisiologia” (Ida P. Rolf)

 

2. Credo davvero che nel Tai Chi Chuan, il regno incontrastato di cerchi e curve e spirali, troviamo pancia e cuore di ogni buona pratica motoria / marziale, troviamo il “motore” e la “trasmissione” che starà a noi poi adattare ad ogni tipo di movimento, di gestualità, di pratica corporea.
Se poi fosse vero quanto io ed altri sosteniamo, ovvero che il Wing Chun sia una filiazione dello Hsing’I, le cose apparirebbero ancor più evidenti.

 



giovedì 13 aprile 2017

Che senso ha?



A volte capita di incontrare uno per strada e quello, dopo un primo “Ciao!”, si affretta a dirmi che presto tornerà in Dojo.
Ma io mi sono fermato per un saluto di cortesia e se ti andasse, per sapere come stai. Non certo per infilzarti con un senso di colpa perché te ne sei andato, magari senza nemmeno avvisare, come si fa con quel bar, dove hai fatto colazione per un po’ di volte poi, sarà che ne hanno aperto uno più vicino, sarà che ti sei messo a dieta, non ti sei fatto più vedere.
Non vieni più? Che tu sia sparito magari senza dire nulla o mi abbia propinato dei motivi a cui nemmeno tu credevi, che invece tu ti sia allontanato perché sinceramente ritenevi concluso il tuo percorso insieme e insieme ne abbiamo parlato … Bene. Hai avuto le tue buone ragioni. Ora, se stiamo fermi uno davanti all’altro, se nessuno dei due ha ripreso il proprio cammino dopo il rapido “Ciao!”, sarà per dirci qualcosa di noi, del nostro stare al mondo. Sarà per sapere l’uno dell’altro ora, e non prima.

Come, ogni volta, mi emoziona quando qualcuno che ha camminato con noi per poi andarsene, viene a trovarci. Viene per due chiacchiere, una festa, uno stage anche senza praticare. Penso a Guido, a Tina, compagni per qualche anno di un viaggio sudato e gioito insieme, che ci sono rimasti amici; ognuno ora nel suo personale viaggio o a sostare nella sua personale oasi, ognuno magari distante nelle scelte così diverse dalle nostre,  ma entrambi mai dimentichi del viaggio e dei compagni di quel viaggio, mai così lontani o tanto occupati da non sentire dentro il desiderio di rinnovare un incontro, di rincontrare degli occhi e allora, a volte, li ritroviamo con noi per una bevuta e due chiacchiere.

E penso a quelli che sene sono andati e tra loro anche chi giurava “eterno amore”, chi si profondeva in frasi e gesti eclatanti. Penso che, inevitabilmente, qualcosa, poco o tanto, sia rimasto loro dentro del tratto di viaggio condiviso. Eppure, che si siano allontanati furtivamente o che lo abbiano fatto apertamente, che si siano coperti di un manto di bugie o che ci abbiano guardato dritto negli occhi non importa, hanno fatto scendere una pesante coltre di silenzio, hanno cercato di nascondere le loro tracce.

Lo so, ognuno è fatto a suo modo. E ognuno risponde alla sua di coscienza, che la ascolti o che, come un Pinocchio del terzo millennio, la scacci a martellate.
Lo so, c’è chi ha scritto che l’amicizia è come il caffè: una volta raffreddato, anche a scaldarlo, non ha più lo stesso buon sapore.
Ma io resto convinto che se una e più volte ti sei mostrato nudo in pedana, se una o più volte hai scorto la nudità, nascosta o palesata evidente, dell’altro, se hai sbattuto in faccia all’altro i tuoi pugni, quelli fisici e di rancore, di rabbia e paura, se il tuo naso, le tue costole, hanno scricchiolato sotto i colpi dell’altro, se la tua pelle ha sanguinato sotto il tagliente dell’arma dall’altro impugnata, non può essere scomparsa ogni voglia, ogni desiderio, di  fare un salto in quel luogo, di riavere davanti quegli occhi, di riascoltare quel battito di cuore e nel farlo, ascoltare come ora sono i tuoi di occhi, il tuo di battito.

 O forse, davvero, “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto... chi ha dato, ha dato, ha dato... scurdámmoce 'o ppassato, simmo 'e Napule paisá!” significa non voler rivangare nulla del passato, tantomeno cercare un volto o una persona. Vivere solo nel presente. A maggior ragione quando questo passato ti ha segnato così profondamente, ci hai dedicato così tanto del tuo tempo e della tua energia che ora te lo vuoi lasciare alle spalle. Magari hai anche voglia di dimenticarlo in fretta.
Allora, hai ragione, è meglio così. Meglio non tornare sui propri passi.

Però, se mi incontri del tutto casualmente per strada, fai finta di non vedermi, oppure un saluto rapido e poi via, senza voltarti. Se mi cerchi per telefono o via mail, non leggermi la tua agende degli impegni per giustificare il tuo non venire mai a trovarci, non propormi degli incontri che poi regolarmente annulli.
Lo dico per me, egoisticamente per me. Per me che sono stato e sono tutt’ora sempre disponibile ad ascoltare, ad aiutare a rammendare e ricucire stoffe sdrucite o strappate, quand’anche sia tu ad averle nuovamente sdrucite e strappate, purché tu non finga che sia stata l’usura o il caso o “Ero... rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per prendere il taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette!
Lo dico perché io, con Jorge Luis Borges, penso che” Ogni persona che passa nella nostra vita è unica. Sempre lascia un po’ di se e si porta via un po’ di noi. Ci sarà chi si è portato via molto, ma non ci sarà mai chi non avrà lasciato nulla.
Questa è la più grande responsabilità della nostra vita e la prova evidente che due anime non si incontrano per caso”.

 Buona strada a te !!

 

Post illustrato con fotografie scattate a Cesano Boscone, durante il tragitto a piedi compiuto,
per ragioni di lavoro, dal mio ufficio al Centro Sportivo Cereda.

 






 

lunedì 10 aprile 2017

La solitudine della spada



Non impiego molto, credo nessuno attento a sé ed al suo vivere impieghi molto, a conoscere la solitudine che vive nello spazio come in ciò che lo riempie, nell’acqua che scorre fluida come nella roccia più dura. Ma non vi è solitudine più profonda, macchia nera che sa allargarsi a dismisura, di un animo umano al cospetto di se stesso.

Nel silenzio, sento battere il mio cuore, solo il mio cuore, quello dei compagni di pratica è sfondo lontano, fievole.
Le mani ad avvolgere l’impugnatura di “Lama Danzante”, il mio katana. A labbra chiuse, il respiro; ad occhi aperti, il mistero di una morte data o levata.
Giochi d’acciaio, sibili sottili eppur così penetranti, traiettorie a spirali che fendono l’aria.
Il cuore l’ho già perso e ritrovato più volte, stracciato o gonfio di vigore non importa, in ogni duello immaginato, in ogni duello realmente praticato.

Sala attraversata da una luce di sbieco, noi spadaccini a danzare, sfiorando il canniccio sui muri, gettandosi avanti verso spazi di nascondiglio che ci facciano sparire alla fame aggressiva della lama avversaria.
Gruppo ristretto, gruppo minuscolo, anche oggi, all’ultimo Seminario Kenshindo della stagione.

Conosco Maestri ben più titolati di me, Maestri che insegnano stili noti ed affermati, che insegnano sequenze obbligate da ripetere e ripetere fino a memorizzarle, che insegnano con armi che armi non sono, iaito in lega e non d’acciaio, e con questo insegnano figure a vuoto e mai confrontate in coppia. Alcuni mai propongono, e forse nemmeno loro mai hanno eseguito, il tameshigiri, il taglio di stuoie o bambù; altri lo fanno come se fosse una gara a chi lo taglia “più grosso”, dimentichi del sapore dell’uccisione invece in cerca di una medaglia, un trofeo “sportivo”, un primato da esporre; altri ancora affettano frutta ed ortaggi e bottiglie di plastica, in un gioco circense da poco.
Tutte pratiche comunque ben viste, ben apprezzate in questa società dell’effimero e delle apparenze. Eppure anche i loro corsi stentano, pochi gli allievi che durano nel tempo.
Come posso io allora illudermi di costruire un gruppo che si affidi alla spada, all’acciaio?
Io che, fuori dalle piccole e innocue pratiche di cui sopra, propongo Kenshindo, propongo l’acciaio, come chirurgica operazione di taglio, di scavo dentro di sé.
Che se non entri nel cuore del katana e nel tuo, certo che ti annoi, che ti ritrovi, un po’ stupido un po’ stranito, a menare fendenti e falciate. E te ne vai disilluso.
Che se ci entri, nel cuore del katana e nel tuo, ti specchi in ombre minacciose, venti gelidi e fiamme brucianti, ed allora occorre il coraggio più forte e la vulnerabilità più sincera per non scappare a gambe levate, per restare a contemplare un animo umano, il tuo, al cospetto di se stesso.

Perso nel proprio silenzio, sporadiche grida di battaglia a striarne i fianchi, mai rinunciando ad ascoltare dubbi, emozioni e fremiti sulla pelle, ognuno di noi si muove in pedana.
Nessuno scetticismo sul fatto che nulla, dentro e fuori, torni alla normalità. Perché la presa dell’acciaio non lascia scampo, segna di melanconia e acre malessere ogni tratto della personalità, soffiando il veleno delle domande taciute e delle risposte negate.

E ancora a menar fendenti e stoccate e falciate.
E tagli improvvisi, silenziosamente violenti, ad abbattersi su stuoie erette dinanzi ad ognuno di noi. Ognuno di noi solo davanti al rito dell’uccisone, alla scoperta della propri nudità.

Poi, al saluto finale, come ogni volta, scopriamo che il passaggio dentro la forza dell’acciaio ci ha donato, con i momenti perturbanti della paura e del dolore e del disvelamento brutale di sé, anche la forza, quella racchiusa nel cuore e mai disvelata, e la volontà del potere, che non rimugina sui rimpianti per donare vitalità e slancio erotico al mondo. Ognuno sorta di piccolo uomo, di piccola donna, che sa farsi dio e travolgere il proprio faraone, ogni faraone, e il suo esercito di leccapiedi.

Allora, forti e vulnerabili insieme, usciamo dal Dojo, il katana chiuso nella custodia, il sorriso sul volto ed ogni volta, nessuno è più lo stesso.

 

“Se non lotti per ciò che desideri,
 
non piangere per ciò che perdi”

 








 

 

lunedì 3 aprile 2017

Il disagio delle Arti Marziali



Come già scritto più volte, la nostra proposta di pratica delle Arti Marziali rispecchia fedelmente la loro storia, il loro evolversi da Bujutsu, pratica atta a salvare la pelle in un combattimento e ad eliminare l’avversario, a Budo, “Via”, modo ed etica del buon vivere.

Festa di via Negroli. 2012
Così recita lo “Statuto del Budo”, Budo Kensho, redatto dalla Nippon Budō Kyūgikai, all’articolo 1:Il Budo, che trae origine dalle tecniche guerriere, attraverso l’allenamento di mente e corpo ha oggi come obbiettivo il miglioramento del carattere, l’elevazione delle capacità di discernimento e la formazione di individui qualitativamente migliori”.
Sorta di terapia atta all’individuazione: “L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale” (C.G. Jung).

Essa è una composizione di gesti e movimenti, a solo o in relazione all’opposizione aggressiva di uno o più altri, volti a mostrare che cosa si cela e / o non si vuole riconoscere interiormente. Giocando alla lotta, simulando un conflitto, “Il combattimento non è altro che un gioco preso sul serio” (Bruce Lee), ci si apre ad ogni pulsione ed emozione che ci attraversi, ad ogni evento che ci capiti, ed è così che possiamo riconoscere pensieri, sentimenti, fantasie che abbiamo rimosso.
Ogni gesto, ogni azione, ci riconduce all’esperienza interiore.

Raduno Kenpo. 2013
E’ un processo che, per dirla banalizzando, comporta:
- Ascolto delle proprie parti Ombra, di ciò che si è rimosso o si stenta ad accettare di sé, di quei malesseri che ne attraversano la vita privata, familiare, lavorativa, ecc.
- Accettazione di quanto scoperto, come parte integrante di un sé composto da mille e mille sé, da cui è inutile e sovente dannoso fuggire, di cui è inutile e sovente dannoso negare l’esistenza, che può invece essere integrato; ovvero riconoscere che la “cantina” non si può far sparire né potrà mai essere abbellita per farne il “salotto buono”, ma fa comunque parte dell’ “appartamento”, con l’uso che ad una cantina è proprio.
- Scelte autonome ed autodirette di vita, diverse ed alternative al “copione” fin qui recitato (“Il Copione è un piano di vita basato su una decisione presa nell’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli eventi successivi e che culmina in una scelta decisiva “ E. Berne) di cui si è succubi, attraverso consapevolezza, spontaneità, intimità, come strumenti di crescita personale e modi di relazionarsi all’esterno.
Processo che, come il vivere !!, non finisce mai.

Seminario residenziale Kenshindo. 2011
Almeno è così che noi intendiamo e pratichiamo Arti Marziali allo Z.N.K.R.
Ad altri lo sfogatoio dello scazzottarsi convulso ed ignorante, lo spiritualismo New Age, l’illusione della saggezza raggiunta attraverso la ripetizione di gesti e movenze, insomma tutto il “mercato” che ormai infesta, di palestra in palestra, di Dojo in Dojo, ogni via di ogni città.
Questo percorso di individuazione, di crescita autodiretta, comporta una grande fatica, un continuo ed incessante cadere e rialzarsi, un costante lavoro di elaborazione personale, un senso di spaesamento e di difficoltà nel riorientarsi.
Tanti sono gli ostacoli che si hanno da affrontare,
- quelli personali, dove scoprire la propria più intima natura, la propria “cantina”, è sconvolgente, perché la natura umana è molto più complessa e molto più libera di quanto uno possa immaginare;
- quelli relazionali, perché si tratta di portare alla luce desideri e impulsi che la coscienza collettiva ritiene incompatibili con le richieste sociali, perché chi ci è accanto stenta a riconoscerci e preme, con minacce, ricatti, suppliche, perché torniamo “quelli di prima”;
Stage estivo 2008

Poi ci sono gli ostacoli indotti dalla nostra evoluzione sociale, dal pur benvenuto progresso.
L’enorme quantità di oggetti, molti ad alta tecnologia, che ci confortano nel nostro quotidiano vivere, portano con sé una trappola insidiosa: usiamo la lavastoviglie ed il cellulare, la metropolitana e il computer, ma non sappiamo affatto come funzionino né, per usarli, il saperlo ci è necessario.
Ciò comporta la perdita assoluta di competenze e del “sapere come” (know how) individuale, ovvero la perdita di autonomia individuale in favore di una delega ai tecnici.
Questa “perdita di autonomia intellettuale” (M. Fini) dilata lo iato tra l’individuo e gli oggetti, gli strumenti, che quotidianamente adopera. A cui aggiungere che, proprio in virtù del loro semplice utilizzo di contro ad una complessità tecnologica, questo lede inesorabilmente fantasia ed autonomia dell’individuo. Strumenti in abbondanza e di uso immediato, per il cui uso non necessita sapere come sono fatti e come funzionino, stimolano ad aspettarsi il “pesce da cucinare”, se non addirittura “il pesce già cucinato” e fanno scomparire l’imperativo adulto “Prendi canna, lenza ed esca ed impara a pescare”.
Stage estivo. 2010

Nessuno sforzo per l’uomo “homo Homer” Simpson, depauperato intellettualmente e “servito” di tutto punto.
Allora perché questi amerebbe sforzarsi di capire se stesso, amerebbe rispondere al “Conosci te stesso”?
Stage estivo. 2016
Meglio un po’ di shopping compulsivo, la sbornia di una “settimana bianca”, l’iper attivismo al lavoro o quant’altro addormenti, per un’ora o per un giorno, l’Ombra minacciosa che cova dentro; meglio proiettare su altro ed altri il proprio malessere, la propria insoddisfazione: la sfortuna, i superiori al lavoro, la moglie ecc., che farsi carico di sé e di quel e come si è.

Ecco perché, praticare come io, come lo Z.N.K.R. propone, costa così tanta fatica.
Costa fatica conoscersi, accettarsi e, laddove possibile, cambiare; costa fatica attraversare lo stato di adulto che è capacità di stare da solo e autoaffermazione; è autostima come prova di una solida strutturazione della personalità adulta quanto, nel “Conosci te stesso”, accettare che ci siano altri più “in gamba” di te.  Costa fatica mantenere un contatto vivo, autocritico ma anche vitale ed entusiasta con se stesso, avendo sempre presente la propria autoimmagine di adulto.

Stage invernale. 2015
In fin dei conti, riducendo all’osso, la domanda da porsi è semplice: “Praticare in questo modo ti fa conoscere di te, ti mostra un percorso di trasformazione e crescita, ti mostra la possibilità di un vivere autentico, migliore?” Se la risposta è “Sì”, sei sulla strada giusta.
Se, invece, la risposta è “No”, allora lascia stare, non è la tua strada, ne troverai altre più adatte.
Sempre che quel “No” non copra la fuga vigliacca da te stesso, l’incapacità di integrare nella tua vita le esperienze dolorose e perturbanti, il voler dimenticare che il tuo appartamento consta anche di una “cantina” o sognare quel giorno lontano in cui la tua “cantina” diverrà, non si si sa come, il “salotto buono”.

Perché, inutile negarlo, tutto quanto ci accade, diventa parte di noi; l’adulto, il guerriero, lo sa e trova il modo sano per integrarlo nella sua vita.

 
“Ci sono cose che non si possono imparare in fretta e il tempo, che è tutto quanto noi possediamo, deve essere pagato caro per raggiungerle”
(E. Hemingway)




Stage residenziale Tai Chi Chuan. 2006