lunedì 10 aprile 2017

La solitudine della spada



Non impiego molto, credo nessuno attento a sé ed al suo vivere impieghi molto, a conoscere la solitudine che vive nello spazio come in ciò che lo riempie, nell’acqua che scorre fluida come nella roccia più dura. Ma non vi è solitudine più profonda, macchia nera che sa allargarsi a dismisura, di un animo umano al cospetto di se stesso.

Nel silenzio, sento battere il mio cuore, solo il mio cuore, quello dei compagni di pratica è sfondo lontano, fievole.
Le mani ad avvolgere l’impugnatura di “Lama Danzante”, il mio katana. A labbra chiuse, il respiro; ad occhi aperti, il mistero di una morte data o levata.
Giochi d’acciaio, sibili sottili eppur così penetranti, traiettorie a spirali che fendono l’aria.
Il cuore l’ho già perso e ritrovato più volte, stracciato o gonfio di vigore non importa, in ogni duello immaginato, in ogni duello realmente praticato.

Sala attraversata da una luce di sbieco, noi spadaccini a danzare, sfiorando il canniccio sui muri, gettandosi avanti verso spazi di nascondiglio che ci facciano sparire alla fame aggressiva della lama avversaria.
Gruppo ristretto, gruppo minuscolo, anche oggi, all’ultimo Seminario Kenshindo della stagione.

Conosco Maestri ben più titolati di me, Maestri che insegnano stili noti ed affermati, che insegnano sequenze obbligate da ripetere e ripetere fino a memorizzarle, che insegnano con armi che armi non sono, iaito in lega e non d’acciaio, e con questo insegnano figure a vuoto e mai confrontate in coppia. Alcuni mai propongono, e forse nemmeno loro mai hanno eseguito, il tameshigiri, il taglio di stuoie o bambù; altri lo fanno come se fosse una gara a chi lo taglia “più grosso”, dimentichi del sapore dell’uccisione invece in cerca di una medaglia, un trofeo “sportivo”, un primato da esporre; altri ancora affettano frutta ed ortaggi e bottiglie di plastica, in un gioco circense da poco.
Tutte pratiche comunque ben viste, ben apprezzate in questa società dell’effimero e delle apparenze. Eppure anche i loro corsi stentano, pochi gli allievi che durano nel tempo.
Come posso io allora illudermi di costruire un gruppo che si affidi alla spada, all’acciaio?
Io che, fuori dalle piccole e innocue pratiche di cui sopra, propongo Kenshindo, propongo l’acciaio, come chirurgica operazione di taglio, di scavo dentro di sé.
Che se non entri nel cuore del katana e nel tuo, certo che ti annoi, che ti ritrovi, un po’ stupido un po’ stranito, a menare fendenti e falciate. E te ne vai disilluso.
Che se ci entri, nel cuore del katana e nel tuo, ti specchi in ombre minacciose, venti gelidi e fiamme brucianti, ed allora occorre il coraggio più forte e la vulnerabilità più sincera per non scappare a gambe levate, per restare a contemplare un animo umano, il tuo, al cospetto di se stesso.

Perso nel proprio silenzio, sporadiche grida di battaglia a striarne i fianchi, mai rinunciando ad ascoltare dubbi, emozioni e fremiti sulla pelle, ognuno di noi si muove in pedana.
Nessuno scetticismo sul fatto che nulla, dentro e fuori, torni alla normalità. Perché la presa dell’acciaio non lascia scampo, segna di melanconia e acre malessere ogni tratto della personalità, soffiando il veleno delle domande taciute e delle risposte negate.

E ancora a menar fendenti e stoccate e falciate.
E tagli improvvisi, silenziosamente violenti, ad abbattersi su stuoie erette dinanzi ad ognuno di noi. Ognuno di noi solo davanti al rito dell’uccisone, alla scoperta della propri nudità.

Poi, al saluto finale, come ogni volta, scopriamo che il passaggio dentro la forza dell’acciaio ci ha donato, con i momenti perturbanti della paura e del dolore e del disvelamento brutale di sé, anche la forza, quella racchiusa nel cuore e mai disvelata, e la volontà del potere, che non rimugina sui rimpianti per donare vitalità e slancio erotico al mondo. Ognuno sorta di piccolo uomo, di piccola donna, che sa farsi dio e travolgere il proprio faraone, ogni faraone, e il suo esercito di leccapiedi.

Allora, forti e vulnerabili insieme, usciamo dal Dojo, il katana chiuso nella custodia, il sorriso sul volto ed ogni volta, nessuno è più lo stesso.

 

“Se non lotti per ciò che desideri,
 
non piangere per ciò che perdi”

 








 

 

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