martedì 15 luglio 2014

Il gioco dell'acciaio lungo


Sabato 12 Luglio
Seminario Kenshindo

 
“Quando insegno Ki no Kenpo, la pratica della spada con il Ki, è veramente kiai vivente quando tu tagli in ogni direzione, usando happogiri mentre urli kai”
(M° Koichi Tohei)

 
Lascio che le ombre si allunghino, tentacoli grigi, tra le luci fioche che pervadono le finestre.
Io e Giovanni ad impugnare acciaio. Giovanni, ultimo rimasto, ultimo ad appassionarsi di spada e Kenshindo, la “Via dello spirito della spada”, che gli altri, con gli anni, con i mesi, si sono defilati, un passo a lato, un passo indietro.
Troppo acciaio può far male se non sai guardarti negli occhi, se ti tremano i polsi davanti alle immagini di tenebra che danzano nel tuo cuore; troppo acciaio può risultare inutile, perfino ignorante, se lasci scorrere il succo e il sangue della vita come fosse liquido inesauribile e non sai, non vuoi sapere, che è liquido terminale, a scadere.
Ultimo incontro serale, nel corso Kenshindo. Domani ci attende il Seminario Kenshindo tra le coline alterne del pavese, ospiti dell’Agriturismo Cà de Figo.

Il cerchio, sette tra maschi e femmine.
Il serpente e la montagna.

Il ken d’allenamento sibila nell’aria, falciata discendente, come se, lordo di sangue, si aprisse una strada unica. Unico è lo sprofondare dei femori nell’oceano oscuro ed inesplorato del bacino. Unico è l’ossigeno, indispensabile alla vita, che sfonda naso e bocca per investire trachea e polmoni. Unico è il vivere e il confliggere.
Il sole inghiotte le nuvole, poi sono le nuvole a masticare la luce e a risputarla tra pietre e colonne e sette guerrieri che simulano uccisioni, mutilazioni, simulano la dannazione della morte altrui per onorare la vita propria.

Tra le nostre mani compare l’acciaio.
Serpente sinuoso, letale, carico di veleno, sguscia e circonda la preda, morde selvaggiamente, denti conficcati per un solo crudele attimo, attimo che uccide.
Montagna enorme, vasta, che incute rispetto e financo timore; montagna che incombe dall’alto, gigante il cui sudario erboso pare senza fine, pare estendersi a perdita d’occhio.
Eccoli insieme, serpente e montagna: fluidità letale e possenza straripante. Movenze nascoste, quasi impercettibili, e presenza inamovibile, quasi immanente.
Sfoderiamo l’acciaio, katana dal tagliante affamato.
Acciaio che devasta e lacera tutto quel che incontra; arma crudele che trancia, separa di netto senza che vi sia alcuna possibilità di ricomporre; tagliente mai sazio che strazia quando va come quando torna.
Nessun gesto, nessuna estrazione, è privo del sangue di un uomo.
Rigurgito di fiele, denti serrati e urla smorzate in gola. Rantoli inarticolati di una forza umana, profondamente umana, volta all’omicidio, lontana dalla pietas degli inetti e dalle spalle girate altrove dei codardi.


Tagliamo stuoie, che sono nemici, avversari, che sono …. quelle parti di noi che non vogliamo riconoscere, che non accettiamo.
L’arte del Tameshigiri, vero cuore dell’arte della spada, senza tagliare, senza uccidere, non vi è né guerriero, né samurai, né autentica pratica di spada, ma solo gioco effimero per bamboccioni e mentitori, riconosce nella furia umana che reca orrore e sangue la sola e la stessa che può scacciarli.
Non sarà la colomba della pace né la testa girata dall’altra parte a fermare la furia umana. La furia, la ferocia umana, espressa e ritualizzata, va forgiata nel coraggo di guardarsi dentro là dove può farci paura e ribrezzo, là dove le ferite sono ancora aperte e trasudano liquame emorragico, là dove stagnano e premono insofferenti contro le sbarre della ragione, della vergogna e della morale, le nostre pulsioni più antiche e profonde.
Potenza marziale che abita l’acciaio. Poetica marziale, terapia marziale per sette guerrieri, nel cerchio di pietre e colonne delle colline pavesi.

D.L’Arte Marziale , per lei, è effettivamente  un’arte ?”
R. Sì è un’arte. Oggi, anche se vi è un aspetto efficace, non la si può ridurre ad una semplice preparazione al combattimento. Per mezzo di tecniche pratiche, l’arte marziale ci permette di esplorare le nostre capacità potenziali. E’ una ricerca del significato dell’esistenza, della vita e della morte.
(M° Kenji Tokitsu)

 
 













martedì 8 luglio 2014

E siamo ancora qui …

“Il termine organizzazione rimanda al concetto di ‘unità integrale’, ad un tenere insieme, creando fra loro coerenza, parti molto diverse che grazie a tale coerenza riescono a comporre un organismo in grado di vivere”.
(L. W. Sander)

Si avvicina Settembre 2014: trent’anni in via Simone d’Orsenigo, all’interno di oltre trent’anni di vita dello Z.N.K.R., la nostra Scuola. Prima alcuni anni alla palestra Umanitaria, poi un anno presso il circolo A.R.C.I. Bellezza, poi, dal Settembre ’84, nei locali di via D’Orsenigo.
Una Scuola, un organismo, vivo, come tale  soggetto a scelte di direzioni, scelte di pratica, scelte di cultura forti e insieme instabili, prolifiche e insieme devastatrici, tanto aperte allo sviluppo quanto sempre a rischio di alterazione e patologia.
Solo così, aperti all’ambiente esterno quanto a quello interno ma senza mai lasciarsi sopraffare  da tendenze devianti la rotta in mare aperto, abbiamo potuto vivere e praticare per decenni. Perché la continuità di ogni organismo sano è dettata dall’incessante processo di scambio tra organismo stesso  ed ambiente,  dall’incessante riallineamento tra le forze che coabitano all’interno di questo stesso organismo.
Così è stato per  le diverse Arti, i diversi stili delle stesse, che nella Scuola abbiamo praticato. Prima, seguendo le orme del mio stesso incedere, alla caccia dell’Arte più efficace, poi mixandole tra loro per tentare la “pozione magica”. Prima, insegnando io quanto ricevevo dai miei Maestri in termini di tecniche, poi mixandole tra di loro.
Fino al ribaltamento, alla rivoluzione, o forse, appellandomi al sapere Tradizionale, all’eversione che ci ha portato ad una visione totale, globale del praticare. Visione che ha spezzato ogni legame superficiale col passato  per addentarne il cuore più profondo, più interno, portandolo, in un costrutto dialettico fatto di sbalzi, in una visione spiraliforme che, come tale, è insieme procedere avanti e tornare sullo stesso punto, a battere in un corpo che è quello del terzo millennio e non del medioevo nipponico o cinese. Che è, per altro verso, comunque sapere Tradizionale e non improvvisato supermarket paramilitare venduto ad impiegati o casalinghe in cerca di certezze ed emozioni forti.
Fino alla scoperta dell’individuo, unità fisicoemotiva, come attore protagonista non più servo, ripetitore pedissequo e robotico, di un copione scritto da altri ; del sapere marziale come strumento di conoscenza e non più come conoscenza in sé fatta di tecniche e gesti codificati; dell’imparare come processo maieutico in cui domandare è più importante che conoscere la risposta già confezionata; del praticare per conoscere di sé e dello stare al mondo, facendo della conflittualità non più un orrendo moloch ma un ulteriore campo, un’ulteriore opportunità, di conoscenza e confronto.
Le cose, insomma, di cui vado scrivendo su questo mio blog.
Anche per questo, mi vien da sorridere quando sento o leggo ex allievi  citare cosa e come pratichiamo in Dojo: allievi fermi agli anni passati, che nulla possono sapere di cosa e come oggi, che non è ieri e non sarà domani, pratichiamo e viviamo l’Arte, l’essere artisti, del combattere, del confliggere.
Perché noi siamo un organismo vivo. Un organismo che ingaggia anaffettività e delusione del desiderio per abbracciare vitalità e pulsioni profonde. Che fa della cura ( che è responsabilità verso l’altro dettata dall’osservazione, ovvero interessamento solerte e premuroso ) e dell‘individuazione (che è processo di differenziazione che ha per scopo lo sviluppo della personalità individuale ) il cuore della pratica.
Per questo sarebbe oggi assai arduo, non solo per chi ha praticato con noi Karate o Yoseikan Budo o Kenpo negli anni ’80 – ’90, ma anche per chi lo ha fatto ai primi anni del ‘2000; per chi ha praticato Tai Chi Chuan o Wing Chun o spada giapponese venti o cinque anni fa, ritrovarsi “sic et simpliciter”, riconoscersi, in come oggi pratichiamo, come oggi agiamo corpo.
Lo facciamo sperimentando intensamente il rapporto con i mille noi stessi che ci compongono, con l’ambiente e le relazioni che ci attorniano: condensato di energia profonda ed oscura, pedagogia dell’entusiasmo, fino ad essere, in stati di coscienza espansa, comunicazione dell’estasi.
Come potrebbero riconoscere in me, over sessanta, dalla barba ormai chiazzata di bianco ed il dolore recente della perdita di ambedue i genitori, l’entusiasta trentenne o il cinquantenne ferito da un amore pugnalato alle spalle, degli anni addietro ?
Come potrei dichiarare essere lo stesso degli anni di apprendimento con il M° Tokitsu, il M° Montaigue o il M° Yamazaki, il Ritsu Zen che ora vado proponendo al seguito del Maestro ed amico Aleks Trickovic ? Quand’anche il “cosa” ed il “come” fossero gli stessi, sono io ad essere un altro.
Che c’azzeccano i pugni a catena e la logica di movimento del Wing Chun come io li appresi dai vari Cuciuffo, Boztepe, poi Anderson, poi Regalzi e Bernardo, con i pugni a catena di oggi ?
Non solo.
La “tecnica”, in realtà, è mutamento nel modo di muoversi; è divenuta consapevole mutamento di corpo, di fisicoemotivo; è agire affermando la supremazia del corpo di muoversi dal di dentro come autentico ed originale centro autonomo di potere e decisione.
Dunque, lo Z.N.K.R., corpo vivo, è mutato nei decenni, rinnovandosi ogni volta e trovando una sua originale e, in Italia, probabilmente unica strada nel panorama marziale.
Una strada lastricata da domande fisicomeotive sul chi sei e come e dove stai andando.
 Come a dire, usando termini della tradizione guerriera nipponica, un continuo, incessante travaso tra Jutsu ( la pratica del combattere) e Do (La Via, la qualità del vivere quotidiano, sorta di “elevazione spirituale ed esistenziale” nella traduzione che del kanji giapponese ne fa il Maestro di Aikido Claudio Pipitone). Come a dire, con le parole di Roberto Assagioli, psichiatra e fondatore della “Psicosintesi”:  “Mettiamoci alla prova, vediamo di scoprire, per mezzo dell’azione, ciò che siamo”.
Sorta di terapia marziale, di percorso condito di reverie ed immaginazione attiva come esperienza di incontro tra conscio ed inconscio, di composizione di movimento volta a mostrare cosa si muova interiormente e a creare nuovi ed autonomi significati.
Per maschi e femmine eretici, per guerrieri (colui che sa stare nel conflitto) servitori di se stessi.
Più di trent’anni di Z.N.K.R., di cui trenta in via Simone d’Orsenigo. Il cammino, e la trasformazione, continua.

 “La piena accettazione della responsabilità individuale diviene una necessità fisica e psicologica per la sopravvivenza”
(J. Whitmore)

“Praticando l’esercizio fondamentale ogni giorno, con dedizione e sforzo, è possibile conoscersi (…) gli esercizi di combattimento a due eseguiti con costanza e dedizione, permettono di conoscere gli altri”
(M° Li I Yu)